Stati Uniti: con Cuba (e Iran) una svolta storica?

Le partite dell'imperialismo USA

Una svolta storica? La freccia di direzione è stata azionata, ma è ancora presto per dire se il veicolo cambierà strada o se, per motivi diversi, è destinato a proseguire sul vecchio percorso.

Stiamo parlando del settimo vertice (cumbre) degli stati americani, dove, per la prima volta dopo oltre mezzo secolo, è intervenuta Cuba, a dimostrazione, secondo tanti, della fine di un'epoca storica, quella della Guerra Fredda. Al di là delle frasi roboanti, la presenza del presidente cubano Raoul Castro e il suo incontro bilaterale con quello statunitense sono eventi di grande rilievo, benché il secondo non sia una “primizia”, visto che i due presidenti si erano stretti la mano ai funerali di Mandela nel dicembre 2013. Ma se allora il tutto era rimasto entro il quadro ristretto dell'etichetta diplomatica (in ogni caso, gesto significativo dello spirare di qualche timida brezza di aria nuova), a Panama sono state affrontate questioni che da più di cinquant'anni caratterizzano i rapporti o, meglio, i non rapporti tra l'Avana e Washington. E' noto che poco tempo dopo la presa del potere da parte dei “barbudos” guidati da Fidel Castro (1959) e il tentativo di rovesciarlo, fallito con il disastro (per gli anticastristi) di Playa Giròn (1961), sull'isola caraibica pesa un blocco economico imposto dagli USA per strangolare un intruso collocatosi nel mezzo del loro “cortile di casa”, che non solo aveva dato lo sfratto a importanti interessi della borghesia nordamericana (non certo da ultima quella mafiosa), ma, anche per necessità oggettive, si era legato sempre di più al “comunismo russo”, cioè, detto correttamente, al blocco imperialista guidato dall'URSS. Allo stesso tempo, Cuba diventava il faro per quei movimenti con estese radici popolari, di impronta interclassista, che volevano liberarsi dalla miseria e dall'oppressione incarnate, ai loro occhi, dall'imperialismo di marca occidentale e, in particolare, statunitense.

Oggi, questo non c'è più. La crisi profonda del sistema capitalista, le cui origini risalgono ai primi anni Settanta, ha provocato terremoti, di cui la disintegrazione dell'URSS è uno dei più notevoli, e il conseguente scombussolamento dello scacchiere imperialista mondiale. Il venire meno del “padrino” moscovita ha aggravato le difficoltà del regime castrista; intanto, con il suo massiccio impegno in Medio Oriente e in Afghanistan, lo Zio Sam ha, per così dire, parzialmente allentato la presa sull'America centro-meridionale, il che ha contribuito alla formazione di un quadro politico nuovo, caratterizzato dall'emergere di governi “di sinistra” e addirittura “socialisti” (per esempio, il Venezuela), decisi a riequilibrare il secolare rapporto di sudditanza dei propri paesi nei confronti degli Stati Uniti. In altre parole, determinati settori della borghesia latinoamericana hanno tentato e tentano di recitare un ruolo più autonomo rispetto ai tradizionali condizionamenti economico-politici con cui, praticamente da sempre, hanno dovuto fare i conti. Forti di una fase economica favorevole e di consensi elettorali ampi, molti di quei governi si sono aperti ben volentieri alle “profferte amorose” della Cina – cioè, dei suoi capitali – ansiosa, quest'ultima, di fare affari e mettere il becco nella tradizionale riserva di caccia dell'imperialismo a stelle e strisce: negli ultimi anni, Pechino ha investito 120 miliardi di dollari nel subcontinente americano. Ora, però, lo slancio economico degli uni e dell'altra si è un po' appannato, i governi “progressisti” si sono, chi più chi meno, indeboliti, Cuba, da un pezzo, ha smesso di essere il punto di riferimento di movimenti guerriglieri “antimperialisti”, per altro praticamente scomparsi e riconvertitisi, in genere, alla via legalitario-democratica. Anzi, la stessa Cuba, e non da adesso, vuole rimodellare il suo “socialismo” ossia aprirsi ancora di più ai meccanismi tradizionali del mercato, senza tuttavia abbandonare il capitalismo di stato, come ha ribadito lo stesso Raoul Castro a Panama.

Tale, a grandi linee, lo scenario in cui Obama cerca di inserirsi: approfittare, quindi, delle difficoltà cui devono far fronte i governi “di sinistra” latinoamericani per ridare all'imperialismo che rappresenta il ruolo di sempre nella parte centromeridionale del continente americano. Allo stesso tempo, vuole chiudere gli otto anni di presidenza con due successi storici da lasciare in eredità alla candidata democratica per la Casa Bianca, Hillary Clinton, come tesoretto propagandistico da spendere nella campagna elettorale. L'apertura a Cuba, che, in concreto, significherebbe il suo riconoscimento diplomatico, la cancellazione dalla lista degli “stati canaglia” sostenitori del terrorismo e la fine del blocco economico, si potrebbe infatti accompagnare all'accordo con l'Iran sul controllo degli impianti nucleari (per impedirne l'uso a fini militari) e, anche qui, alla relativa cancellazione dell'embargo. Sia l'uno che l'altro accordo avrebbero evidenti ricadute economiche ossia aprirebbero per le imprese made in USA prospettive rosee (turismo, petrolio ecc.) e, cosa non meno importante, vale la pena ribadirlo, rafforzerebbero il ruolo dell'imperialismo yankee. Si rafforzerebbero, è vero, anche l'imperialismo d'area iraniano, ma questo darebbe oggettivamente una mano agli Stati Uniti nel tentativo di mettere in riga o contenere alleati infidi come l'Arabia Saudita e la Turchia, che continuano se non proprio a sostenere come prima, a trafficare in qualche modo sotto banco con le varie bande di tagliagole richiamantesi al fondamentalismo religioso (nel cui sviluppo gli USA hanno giocato un ruolo di primo piano, prima di perderne il controllo), usate per accrescere il proprio peso geopolitico in quelle regioni che il petrolio (il suo uso capitalista) ha reso così disgraziate. Obama sta giocando una partita il cui risultato è tutt'altro che scontato, perché se con la fine delle sanzioni eccita le aspettative del “business”, degli ambienti affaristici, strizza l'occhio all'elettorato “latino” e democratico in genere, gli oppositori sono agguerriti e numerosi, dentro e fuori il Congresso (in cui per altro non ha la maggioranza), il quale ha quarantacinque giorni di tempo per ratificare o respingere le bozze di accordo con Cuba e Iran.

Comunque vada, Obama potrà chiudere il doppio mandato presidenziale come l'uomo che ha cercato di dare la sanità gratuita ai poveri (riforma dai risultati molto scarsi), di superare due fattori di tensione internazionale più che decennali e, in tal modo, di aver ridato prestigio agli Stati Uniti, scosso da una serie di passi falsi in Medio oriente e, in generale, nel mondo. Che il Congresso approvi o meno, “Hillary” potrà comunque presentarsi come colei che intende portare avanti la politica riformista, di apertura al dialogo e alla distensione cominciata da Obama. Show must go on, lo spettacolo, borghese, continua…

CB
Martedì, May 26, 2015