Scioperi a catena, niente lotta di classe

Pubblichiamo una serie di articoli tratti da Battaglia Comunista della fine degli anni Quaranta, perché riteniamo che i "pezzi" in questione, nonostante il tempo passato, possano ancora offrirci spunti interessanti - soprattutto dal punto di vista metodologico - per la comprensione delle dinamiche della lotta di classe odierna. Non culturalismo, non accademismo storiografico, dunque, ma momento, sia pure particolare, della battaglia teorico-politica contro il sistema del capitale, per una società diversa e migliore.

Da Battaglia Comunista, n. 20 – 10-17 giugno 1948

L’ondata di scioperi che da circa un mese si è riversata su tutta la valle padana, a prescindere da quelli del palermitano e da quelli di migliaia di filandiere in diverse province d’Italia, affonda indubbiamente le sue radici storiche nella cronica situazione di disagio economico in cui versa l’intera classe lavoratrice italiana e in particolare la categoria dei braccianti e salariati agricoli, e i suoi motivi immediati risiedono nell’offensiva generale in atto della classe padronale, risultante dalla consapevolezza della sua riconsolidata posizione egemonica nella società italiana. È in funzione del profondo disagio economico di cui sopra e dell’aggressività del padronato e del suo Stato che i proletari agricoli realizzano in un’ammirevole coesione una lotta non priva anche di episodi sanguinosi.

Infatti, nella battaglia che divampa dalla provincia di Cremona a quelle di Modena e di Bologna, si possono cogliere aspetti esteriori paragonabili alle gigantesche battaglie di classe dell’altro dopoguerra; ma si deve da ciò dedurre che gli scioperi in corso sono orientati verso una soluzione rivoluzionaria dei parossistici antagonismi di classe che caratterizzano l’attuale momento storico? Evidentemente no. Una corretta analisi di classe degli scioperi in corso deve tener conto del momento politico in cui viviamo, delle forze politiche che li controllano, della tecnica colla quale queste forze li conducono e degli obiettivi che esse si prefiggono.

Ora, è fuor di dubbio che la sconfitta subita dal Fronte del 18 aprile ha determinato un clima particolarmente propizio allo scontro della forze sociali antagoniste su di un piano apparentemente economico ma che in realtà continua a svolgersi, esattamente come prima, sui temi della politica predominante che è quella dei due blocchi imperialisti.

I proletari, i quali credono di aver perso in aprile una battaglia per il socialismo, attaccano e rispondono oggi sul piano per loro particolarmente più sensibile, quello rivendicativo, affidando la direzione delle loro agitazioni alle forze politiche del fronte democratico che le piegheranno ai fini di una politica di ricatto e a sostegno delle filippiche sciorinate in parlamento dai deputati frontisti sulla incostituzionalità del Governo De Gasperi…

Poiché, ammesso che nel momento storico attuale le lotte rivendicative possano ottenere una qualunque soddisfazione indipendentemente dal loro inquadramento nella lotta generale del proletariato per la distruzione del regime di sfruttamento del capitalismo e del suo Stato e in quella parallela contro le forze politiche e sindacali dominanti sulla classe operaia, bisogna affermare che la tattica adottata dai frontisti è stata quella di allontanare le possibilità di successo degli scioperi e dare armi ai padroni per una maggiore resistenza e alla polizia la facoltà di rompere indisturbata il maggior numero di teste proletarie possibili. Ad esempio nel Cremonese, prima si è permesso di falciare il fieno, poi si è dichiarato lo sciopero dei mungitori; in altri termini si è fornita agli agricoltori un’ulteriore possibilità di resistenza e tutto il tempo di organizzare, sotto la compiacente protezione della Celere, le squadre autotrasportate dei crumiri (in fatto di «perfezionamento tecnico» la borghesia non scherza!). Episodi di questo genere ne potremmo citare parecchi, ma ricorderemo solo quello delle mondine, in cui i dirigenti sindacali frontisti hanno concordato un patto semicapestro con la subdola giustificazione che esigere di più avrebbe significato determinare un aumento del prezzo del riso.

Ed è qui che entriamo nel nocciolo della questione.

Evidentemente, quando agli interessi permanenti di classe si sostituiscono quelli di categoria, si deve necessariamente formulare soluzioni che apparentemente salvino capra e cavoli, ma che di fatto mirino soltanto alla difesa della attrezzatura economica e politica dello Stato capitalista. In proposito, la nozione fondamentale di classe è quella che suggerisce che non vi può essere soluzione vittoriosa di rivendicazioni di categoria senza che questa si risolva a danno della classe; e non vi può essere soluzione vittoriosa dei problemi di tutta la classe senza beneficio di tutte le categorie, ragione per cui le agitazioni che scaturiscono spontanee e inevitabili dalla struttura economica della società capitalistica e dai suoi rapporti di classe, o vengono coordinate in una azione generale e unitaria sul piano politico portando in tal modo con sé la possibilità del successo, o rimangono slegate e parziali e saranno condannate a fallire con danno generale di tutti i lavoratori.

Ma c’è di più: non è possibile oggi concepire sciopero generale senza che questo superi interessi particolari e immediati e senza che abbia per parola d’ordine centrale la distruzione dello stato capitalista; per cui sarebbe assurdo pensare che dagli scioperi in corso possa risultare per gli interessati alcun beneficio. Essi sarebbero scioperi di classe solo se si dirigessero, con una volontà ben chiara di distruzione, e contro la classe padronale, e contro lo Stato che ne è il presidio, e contro la stessa forza sociale borghese che li dirige e che lancia i proletari in una situazione di inferiorità paurosa contro le armi repressive di cui è stata la prima ad invocare la ricostruzione ed il potenziamento. Lo sarebbero solo se si svincolassero dal totalitario controllo dei partiti della ricostruzione capitalistica, e fossero manifestazioni di forza contro tutto lo schieramento della classe avversa, dello Stato, dei partiti e delle organizzazioni sindacali. E invece non lo sono.

Malgrado l’ammirevole spirito di lotta e di sacrificio di cui danno prova i braccianti, i mezzadri, i salariati della Valle padana, ciò che li attende non sarà dunque un miglioramento reale delle loro condizioni di vita, ma un ribadito stato di servitù; per uscire da questo stato essi affrontano gli sfollagente, i mitra e le autoblinde della polizia agli ordini del ministro Scelba lasciando sul terreno della lotta anche dei morti; e ciò li incita ad una più decisa volontà di lotta contro il governo De Gasperi protettore dei padroni, abilmente guidati in questa battaglia dai dirigenti del Fronte, i quali, se riuscissero nei loro piani, offrirebbero agli scioperanti della Valle del Po e al proletariato italiano in genere una non meno grave schiavitù, e altri poliziotti, ed altre autoblinde contro cui battersi; da dirigenti che, malgrado le apparenze esteriori, continuano ad essere, come sono stati ieri e saranno domani, i carcerieri della classe operaia, i ricostruttori della sua prigione, i salvatori della sacra e intangibile «produzione nazionale».

Per evitare che ciò avvenga è necessario che i proletari italiani si sgancino dalla influenza del frontismo, orientando la loro attenzione verso il partito di classe, l’unica forza che potrà, in situazioni mutate, fare di ogni agitazione un colpo di maglio diretto a frantumare lo stato capitalista ed il suo regime di sfruttamento.

È sarà, allora, davvero una battaglia di classe.

M.C.
Domenica, August 2, 2015