Le mosse di Putin

Al già tragicamente affollato scenario di guerra attorno al traballante regime di Bashar al Assad, ufficialmente contro il famigerato Stato Islamico, ci si è aggiunta anche la Russia dello “Zar” Putin.

In tempi “molto sospetti”, quando l’Urss del falso socialismo e del più vero dei capitalismi di Stato, si è sgretolato sotto il peso delle proprie contraddizioni, quasi tutti gli analisti internazionali si sono uniti in coro a cantare il “de profundis” dell’utopia comunista, stilando epigrafi sul fallimento del tanto temuto avversario politico e ideologico. Contemporaneamente si sono profusi in entusiastici panegirici sulla superiorità del sistema capitalistico, arrivando a sostenere che la caduta “dell’Impero del male” avrebbe aperto orizzonti di pace e prosperità per l’umanità intera. Come dire che eliminata la guerra fredda grazie al crollo di uno dei due contendenti, il cattivo nella vulgata borghese occidentale, non ci sarebbero più stati episodi di guerra guerreggiata e, finalmente, le enormi risorse spese per la guerre sarebbero state utilizzate per lo sviluppo economico, per la cura dell’ambiente, per la prosperità dei popoli, dando vita ad una sorta di paradiso terreste capitalistico che solo la “malvagità” del regime di Mosca aveva, per decenni, impedito.

Sempre in quei tempi “molto sospetti” ci siamo permessi di rispondere ai dotti analisti che 1) il crollo dell’Urss non rappresentava il fallimento del progetto comunista bensì la caduta di un regime economico e politico tutto all’interno dell’esperienza capitalistica dopo il fallimento, negli anni venti, della rivoluzione d’Ottobre. 2) che lo storico episodio altro non era che il crollo di uno dei fronti dell’imperialismo internazionale e che 3) le contraddizioni del capitalismo avrebbero continuato ad operare, lo sfruttamento del proletariato internazionale si sarebbe ulteriormente intensificato e che 4) le guerre si sarebbero susseguite al ritmo delle crisi economiche sempre più dilatate e sempre più devastanti.

Oggi possiamo dire che i fatti hanno fatto giustizia delle melense litanie dei cantori del capitalismo. Le crisi si sono drammaticamente ripresentate con il loro bagaglio di fame e disperazione. Le guerre non hanno mai smesso di mietere morte là dove gli interessi del capitale si sono manifestati in tutta la loro virulenza. La “guerra fredda”, dopo una pausa di pochi anni ha ripreso il suo corso anche se in uno scenario imperialistico più ampio e più complesso, caratterizzato da una serie di guerre per il petrolio, per le sue vie di transito e di commercializzazione, con l’ascesa e la scomparsa di pedine imperialistiche il cui muoversi non si è minimamente concluso.

E’ all’interno di questo scenario che vanno collocate le attuali tragiche vicende siriane, l’ascesa dell’Isis, il ruolo degli Usa e la scesa in campo dell’altro antagonista imperialistico: la Russia di Putin.

Il piccolo dittatore siriano, suo malgrado, si è trovato al centro di uno scontro tra gli imperialismi dell’area e quelli ben più possenti del solito scacchiere internazionale. Per l’imperialismo americano spalleggiato da quello europeo, l’eliminazione del regime di Bashar el Assad, come quello di Gheddafi ha significato e significa eliminare qualsiasi intoppo all’agibilità della sua VI flotta nel Mediterraneo, togliere qualsiasi residuo appoggio nel piccolo mare alla vecchia Urss e al rinascente imperialismo di Mosca e riprendere con forza la leadership occidentale sull’Europa minando, contemporaneamente, il “monopolio” russo nei rifornimenti energetici all’Europa stessa. Teatri della “nuove guerra fredda” i paesi dell’est europeo, dalla ex Jugoslavia all’Ucraina passando per la Polonia, la Bulgaria e l’Ungheria. I mezzi sono i soliti: l’uso della Nato, la sua dilatazione ad est, il fomentare le guerre civili, le rivoluzioni “colorate” e le sanzioni economiche. L’importante era non consentire al vecchio orso russo di riprendere a ruggire a suon di barili di petrolio e di metri cubi di gas naturale.

Per il rinnovato imperialismo russo vale tutto il contrario. Innanzitutto rompere l’accerchiamento organizzato ai suoi confini. Poi tentare di riproporsi all’est nel ruolo imperialistico che fu dell’Urss. Infine non consentire che il solito avversario gli precluda l’accesso al mare Mediterraneo. Mentre le vicende belliche nelle quali si è trovato il governo di Assad toccavano i vertici di tensione militare e sociale più alti, Putin ha pensato bene di indire uno strumentale referendum sulla Crimea che consentisse a Mosca di avere quell’accesso che, altrimenti, rischiava di perdere con la scomparsa dell’alleato di Damasco. La “riconquistata” Crimea è meglio di niente, ma il percorso che separa Sebastopoli allo stretto dei Dardanelli e al Bosforo è ancora precario e operativamente dipendente dalle mutevoli alleanze con Ankara e dalle sue mire egemoniche nel Mar Nero. Oggi l’accordo sul Turkish Stream sembrerebbe spianare la strada ai “navigli” russi ma un domani, un recuperato rapporto con gli Usa, potrebbe sbarrarla. E indipendentemente da questa situazione Putin non si può permettere il lusso di vedersi chiudere due porti siriani come quello di Latakia e di Tartus. Il primo di importanza commerciale e possibile terminale petro- gassifero a favore della Russia. Il secondo porto militare che ha “da sempre” consentito alla navi russe di essere la controparte marino-militare alla presenza nel Mediterraneo della VI flotta americana. Questo spiega la recente decisione di Putin di adire a vie di fatto contro l’Isis e di essere militarmente in Siria a fianco della Coalizione. In realtà Putin ha dato il via a una serie di raid aerei nella zona di nord ovest della Siria bombardando alcune postazioni militari del Califfato, ma concentrandosi anche sulle aree presidiate dagli oppositori di Assad. Così il quadro si completa. Lo Stato Islamico è diventato, per tutti gli attori militarmente presenti in Siria, il paravento dietro il quale nascondere, per quanto possibile, i rispettivi disegni imperialistici. Per gli Usa la “campagna contro lo Stato Islamico, un tempo foraggiato, finanziato ed armato, al pari dell’Arabia Saudita e del Qatar, poi scaricato quando è diventato ingombrante e politicamente “inopportuno”, è di fatto la scusa per sostenere la galassia jihadista contro il regime di Assad. Per la Turchia, che ha fatto retromarcia rispetto alle posizioni iniziali, l’entrare all’interno della Coalizione ha significato si bombardare le linee militari delle milizie del Califfato ma, soprattutto, è stato un ottimo pretesto per combattere sul terreno siriano e iracheno i combattenti curdi, e sullo scenario interno quelli domestici del PKK, nonché tutte le opposizioni casalinghe di sinistra. La deriva presidenzialista di Erdogan ormai non ha più freni ed è pronto ad eliminare ogni intralcio alla sua nuova candidatura in vista delle prossime elezioni. Putin non sta facendo diversamente. Ufficialmente non entra nella Coalizione ma sta al suo fianco per combattere il terrorismo di al Baghdadi. Di fatto opera anche, se non prevalentemente, sul terreno della lotta ai nemici del suo alleato di Damasco. Non per niente sui raid russi si è immediatamente aperta una polemica tra Putin e Obama, il quale ha denunciato la Russia di essere presente in Siria non tanto per operare contro lo Stato Islamico quanto contro le forze che combattono il regime di Damasco. L’imperialismo è capace anche di queste assurde polemiche in una sorta di infantile gioco alla giustificazione delle proprie criminali malefatte. Obama critica Putin di difendere il dittatore Assad. Putin accusa Obama di armare e finanziare i jihadisti che lottano contro il regime di Damasco, come se i rispettivi giochi di interesse non fossero sufficientemente chiari anche al più disattento degli osservatori. Per le note ragioni il primo combatte Assad attraverso la galassia jihadista presente in Siria, il secondo la combatte per difendere il suo strategico alleato. Non di meno la Turchia continua con il suo ambiguo programma di calzare più scarpe possibili con lo stesso piede. Dopo i raid russi in territorio siriano si è allineata alle critiche americane per ricucire vecchi strappi, ma non ha fatto la voce grossa più di tanto per salvaguardare il progetto del turkish stream con Mosca. A Erdogan non piace che Putin bombardi le basi delle opposizioni ad Assad ma deve anche salvaguardare il suo ruolo di hub petrolifero nel Mediterraneo reso ancora più forte dall’accordo con la Russia. Per cui marcia su tre binari paralleli con tutti i rischi del caso. A completare il quadro, all’interno della Coalizione, tra i paesi arabi, solo l’Arabia Saudita sembra seguire, in parte e moderatamente, gli input bellici provenienti da Washington, mentre il Qatar continua nella sua linea di condotta asimmetrica al pari del Kuwait e dello Yemen, peraltro in tutt’altre faccende affaccendato.

Sopra e dentro le trame dei piccoli e grandi imperialismi che regolano la storia del mondo al ritmo dei loro interessi, si muovono masse di diseredati che, senza un progetto di alternativa sociale, senza un punto di riferimento politico rivoluzionario, diventano lo strumento di questi obiettivi. In balia delle ideologie delle loro classi dominanti, queste masse di diseredati, di lavoratori sull’orlo della sopravvivenza, finiscono per cadere nelle reti di questo o quel jihadismo, sunnita o sciita che sia, ma sempre funzionale agli interessi della classe avversa. La reti possono essere anche quelle del nazionalismo laico o religioso, ma pur sempre sponda politica dell’avversario di classe che se ne serve in qualunque modo e producendo quegli “effetti collaterali” che sono la distruzione di interi villaggi, di città creando l’orrendo crimine delle morti di centinaia di miglia di civili e esodi biblici di milioni di profughi che scappano dalla fame, dalla morte e dalle guerre che le reti dell’imperialismo tessono continuamente.

E’ ora di rompere queste reti, di dare senso politico all’unica alternativa possibile al capitalismo, al suo essere imperialista, alle sue crisi devastanti e alle sue ancora più devastanti guerre. E’ ora di costruire il partito rivoluzionario internazionale quale condizione politica verso l’unica alternativa possibile: il comunismo.

5 ottobre 2015, FD

Domenica, October 11, 2015