Il ministro Poletti “Tuta bianca”? Le manovre intorno al contratto aziendale

Una classe operaia (intesa in senso lato) che non lotta non è niente, è solo creta nelle mani dei suoi oppressori.

Questa amara e vecchia constatazione riceve conferme da una situazione in cui, di fronte al superattivismo della borghesia, il proletariato continua a dormire un sonno che, benché popolato da incubi, sembra quanto mai profondo. E' vero, qui e là, in Italia e, soprattutto, in altre parti del mondo, ogni tanto, rappresentanze della classe sfruttata per eccellenza si scuotono dal torpore e danno vita a episodi di conflitto sociale combattivi, degni di ammirazione, ma, almeno finora, più che sintomo di un risveglio generalizzato appaiono se non le eccezioni che confermano la regola, quasi. La borghesia, appunto, elabora e porta avanti un attacco dopo l'altro alle condizioni di esistenza del proletariato – senza escludere parte della piccola borghesia: ogni volta diventa più audace, per così dire, si spinge un po' più avanti, dopo aver preso atto che le trincee nemiche sono state ampiamente sguarnite dal suo avversario storico, il lavoro salariato-dipendente. Ogni intervento legislativo – nel “nostro” paese come nel resto del mondo – non fa altro che accorciare, appesantendole, le catene con cui la borghesia sottomette la forza lavoro alla propria macchina economica, alla propria società. L'obiettivo è sempre il medesimo: estorcere quanto più plusvalore possibile (primario o secondario) per sostenere non anemiche e incerte riprese, ma il processo di accumulazione capitalistico nel suo insieme, in preda a una crisi acuta.

Per rimanere da queste parti, il Jobs act è solo l'ultima mossa, in ordine di tempo, di quell'offensiva antiproletaria, una mossa che, naturalmente, ha in sé le premesse per un ulteriore affondo contro ciò che rimane dei “diritti” dei lavoratori (se vogliamo usare un'espressione inappropriata, ma tanto di moda). Dopo aver reso tutta la forza lavoro potenzialmente precaria e licenziabile “con un click”, il governo, su mandato del padronato, si appresta, o almeno ci prova, a ridimensionare il contratto nazionale, a favore del contratto aziendale. E' da tempo che gli imprenditori, direttamente o attraverso il loro ben remunerati “megafoni”, tentano il “colpo” e pare che stavolta possano farcela a compiere un altro passo in quella direzione. Sottolineiamo “altro”, perché già l'ultimo governo Berlusca aveva dato un contributo notevole con “l'articolo 8” del 2011, secondo il quale all'impresa è permesso derogare al contratto nazionale qualora subentrino necessità specifiche (non particolarmente difficili da trovare, direbbe un malpensante). Posto che al padronato l'unico contratto che piacerebbe fino in fondo senza riserva alcuna, sarebbe nessun contratto, ma poiché dalla vita non si può avere tutto, nel tempo si è adattato ad accettare quello più adeguato alle necessità di valorizzazione e al medesimo tempo di governo-controllo della forza lavoro ai fini della valorizzazione stessa. In due secoli circa (più che meno) è passato dalla prassi delle fucilate sistematiche contro gli scioperanti a un articolato sistema di contrattazione, in cui il sindacato gioca un ruolo determinante nel contenere le spinte della classe lavoratrice dentro la cornice delle compatibilità capitalistiche (ossia nei limiti di ciò che può essere sopportato dal capitale in un determinato momento storico). Naturalmente, questo non esclude affatto l'uso, da parte borghese, delle fucilate, se le circostanze non consentono l'addomesticamento della rabbia e della volontà di lotta “operaia”. Per decenni, almeno nelle economie dette avanzate, la contrattazione nazionale di categoria è stata la forma che si è imposta, ma oggi è possibile dare più peso alla contrattazione aziendale (se di contrattazione si deve parlare), che aderisce meglio, da più punti di vista, alle esigenze dell'impresa. E' una forma più snella, più performante, direbbero i “megafoni” di cui sopra, nell'affrontare una concorrenza diventata più aspra a causa della crisi. Questa, difatti, è lo sfondo che spiega i movimenti della borghesia. La crisi, esplosa nel 2007, ma con le radici affondanti nei primi anni '70 del secolo scorso, significa ristrutturazioni, licenziamenti, ridimensionamento, anche drastico, delle grandi concentrazioni operaie (almeno in “Occidente”), precarietà diffusa, cioè, in sintesi, indebolimento complessivo della classe, aggravato, per di più, dalla perdita di speranza in un'alternativa al capitalismo dopo la caduta del falso comunismo: non importa, in questo senso, che in URSS ci fosse una variante statalista del capitalismo, agli occhi dei proletari rappresentava la prova che ci poteva essere una via d'uscita al sistema capitalistico. La depressione politica – se così vogliamo chiamarla – che ha preso il proletariato incoraggia dunque il suo nemico di classe a rimettere in gioco strumenti che, in altri momenti, erano stati usati dopo aver schiacciato brutalmente il mondo del lavoro salariato, come, per esempio, durante il nazismo. Il contratto aziendale è, a costo di ripeterci, uno di questi strumenti.

Forma snella, si è detto, oltre a questo frantuma più di quanto non lo sia già, la classe, legandola alla singola impresa e lì circoscrivendo la lotta, qualora si presenti, ostacolando la formazione di una visione di classe, cioè il sentirsi parte di una collettività sociale incomparabilmente più ampia dei luoghi in cui si eroga il proprio lavoro, in cui, cioè, si subisce lo sfruttamento. Frantumazione della classe, frantumazione delle lotte, restringimento della prospettiva ai limiti dell'azienda, identificazione con quest'ultima: al capitale non basta il “corpo” della forza lavoro, vuole anche la sua “anima”. Tra i provvedimenti presi dal governo a novembre, c'è anche la detassazione del welfare aziendale ossia di quei “bonus” che integrano, si dice, il salario diretto. In sé, non è una cosa nuova, anzi, la si può ritrovare fin dagli albori del capitalismo industriale, e oggi la borghesia, o una parte di essa, vuole riportarla in auge. “Bonus” per le prestazioni mediche, per l'asilo nido, per lo studio dei figli e, prima di tutto, per la ristorazione, vale a dire i buoni pasto, già ampiamente usati. Tutti – cioè professori universitari, manager, politici – sottolineano gli aspetti positivi del welfare aziendale in un'epoca in cui

è diventata palese l'obsolescenza e l'inadeguatezza del nostro modello di welfare statale (1).

Che sia sempre più inadeguato non ce lo deve spiegare un “megafono” confindustriale, visto che la rapina del salario indiretto e differito (il welfare, lo stato sociale) va avanti a passo accelerato da qualche decina d'anni e proprio per questo motivo è inadeguato, non per invecchiamento naturale. Ma non è il solo aspetto “positivo”: particolarmente in una fase storica in cui l'elevata composizione organica del capitale comporta costi fissi molto alti, l'eliminazione di tutto quanto può intralciare l'estorsione di plusvalore è benvenuto e difatti il welfare aziendale

è utile soprattutto a ridurre i conflitti e per migliorare il clima aziendale (2).

La pensa alla stessa maniera un professore, consulente giuridico di Renzi, secondo il quale

Poter “negoziare” pezzi di retribuzione incentivante con servizi alla persona può fidelizzare il dipendente, ridurre l'assenteismo, e favorire l'occupazione femminile (3).

Lasciando da parte la retorica della crescita e dell'occupazione femminile, si “scopre” un altro aspetto tutt'altro che trascurabile – per il padrone – del welfare aziendale ossia che costa meno di un'erogazione diretta di salario in busta paga:

Per dare 100 euro netti ad un dipendente, un'azienda oggi ne spende 300 (4).

Insomma, seguendo il ragionamento, 200 euro di plusvalore in più che vanno al capitalista singolo, non al capitalista collettivo, cioè lo stato, il quale dovrebbe poi restituire in parte quei soldi al lavoratore sotto forma di welfare, appunto. Niente male come pensata, a cui il ministro Poletti ne ha aggiunto un'altra, che dovrebbe mettere ulteriormente a punto lo spostamento progressivo della contrattazione nazionale verso quella aziendale. Il presupposto da cui le sue pensate partono lascia un po' spiazzati, per una certa somiglianza con le teorizzazioni dell'area politica un tempo autonominatasi “Tute bianche”, “Disobbedienti” o “Cognitari”, che, com'è noto, considera la legge del valore (5) un pezzo di antiquariato, un'anticaglia del vecchio Marx. Secondo il ministro, il lavoro è cambiato

incorpora sempre più elementi di responsabilità, creatività e partecipazione attiva_ [per cui] bisogna far evolvere quel binomio [“la relazione tra lavoro e impresa”] _nella direzione di logiche più collaborative e più partecipative, [... quindi] occorre pensare a un contratto che non abbia il punto di riferimento orario come unico riferimento, [... dunque è necessario] ragionare di un lavoro organizzato più per obiettivi che per orario (6).

«Salari legati agli obiettivi», questa è la parola d'ordine! Ma chi stabilisce gli obiettivi, il modo di raggiungerli, chi la “gratificazione” monetaria della “responsabilità”, della “creatività”, della “partecipazione attiva”: forse chi ha la proprietà-controllo dell'impresa, come nel buon vecchio cottimo?

CB

(1) V. de Ceglia, Affari&finanza, 9 novembre 2015.

(2) Idem. Così si esprime un campione di manager riportato nell'articolo citato.

(3) C. Tucci, Il Sole 24 ore, 21 novembre 2015.

(4) Affari&finanza, cit.

(5) Il valore di una merce è dato dal tempo di lavoro medio necessario.

(6) F. Forquet, intervista a Poletti, Il Sole 24 ore, 29 novembre 2015.

Mercoledì, December 9, 2015