Composizione di classe dello Stato Islamico

Strano (non tanto) ma vero. Persino in ambienti di una sedicente sinistra rivoluzionaria non solo non manca l’appoggio più o meno incondizionato all’operatività politica e militare dell’IS, ma lo si considera come l’unica forza che abbia il coraggio di combattere l’imperialismo (ovviamente e prevalentemente quello americano), quindi unica fonte di ispirazione della lotta di classe internazionale a cui bisognerebbe guardare con occhio compiaciuto, dimenticando che il nascente Stato Islamico, prima di essere stato lo strumento di lotta tra i diversi imperialismi sul territorio siriano, tende ad essere esso stesso una delle pedine in gioco senza esclusioni di colpi. E’ parte di quella “Sinistra” che si è prodotta in ben più vistosi allineamenti, come nel caso dell’appoggio alla Russia di Putin e al suo alleato el Assad, come se l’imperialismo e le sue guerre fossero la conseguenza di un solo asse, quello occidentale a guida americana, e non anche quello di stampo russo. Cadendo così nel duplice errore di appoggiare un fronte dell’imperialismo contro l’altro e inibendosi la possibilità di essere coerentemente contro la guerra e tutti i suoi interpreti imperialistici. Una sorta di anti-imperialismo a senso unico che ha prodotto immensi danni politici, che ammorba la già difficile ripresa della lotta di classe, e che per questo da sempre denunciamo.

In altre occasioni (Prometeo N° 12-2014 e 14-2015) ci siamo interessati delle ragioni che hanno posto in essere l’attuale conflitto interimperialistico in Siria e Iraq, i suoi schieramenti e, all’interno di questo quadro, consentito ad una delle tante formazioni anti Assad di crescere al punto da proporsi come punto di riferimento di un nuovo imperialismo d’area, quale genesi del nuovo Califfato sunnita, come baluardo degli interessi medio orientali, contro l’arroganza dell’imperialismo cristiano e occidentale. Ne abbiamo seguito gli esordi in Iraq, le propensioni annessionistiche in Siria. Abbiamo riallacciato i fili che hanno legato sin dall’inizio le ambizioni di al Baghdadi (capo dell'IS) ai finanziamenti americani e dell’Arabia Saudita che lo hanno manovrato in chiave anti Bashar el Assad, in un gioco di rinnovata guerra fredda tra Russia, Stati Uniti e i piccoli imperialismi d’area nel Mediterraneo per le solite vicende di supremazia strategica, per il petrolio e per il controllo delle sue vie di commercializzazione. Che successivamente l’IS sia scappato di mano e abbia iniziato il tentativo di costruzione del suo Califfato grazie ai finanziamenti prima ricevuti e ai pozzi petroliferi siriani e iracheni nel frattempo conquistati, è un'altra storia, come è un'altra storia quella della costituzione di ben due Coalizioni contro al Baghdadi, una a guida americana e una a guida saudita, per non parlare del ruolo dell’Iran e dell’intervento militare a gamba tesa della Russia e della “ambiguità” di Turchia e Qatar. In un simile quadro di crisi internazionale, dove tutte le maggiori potenze imperialistiche partecipano al conflitto contro l’IS, in realtà la lotta contro la genesi del Califfato è il paravento dietro il quale si scontrano gli interessi di Russia, Usa, Iran, Francia e Italia (più sul versante libico), Inghilterra e Germania, tutti pronti ad intervenire o a prestare le rispettive basi aeree. Tutti falsamente uniti. Apparentemente è uno scontro tra occidente e oriente, ma anche di occidentali contro occidentali (Russia contro Usa nonostante gli accordi sul “cessate il fuoco” e di Italia contro Francia). Ma anche di orientali contro orientali, sunniti contro sciiti e persino sunniti contro sunniti (Arabia Saudita contro Qatar, Arabia Saudita in contrapposizione alla Turchia), a seconda degli specifici interessi imperialistici di parte, anche se all’interno del medesimo schieramento. Se si eccettuano Giappone e Cina, tutte le altre potenze imperialistiche sono, a vario titolo, presenti in una sorta di “piccola guerra mondiale” alla ricerca di una altrettanto piccola via d’uscita dalla crisi e, nel frattempo, di una redistribuzione delle zone d’influenza, di tentativi di tamponamento dei rispettivi competitori sul piano finanziario, sul controllo delle aree petrolifere e sulle vie di commercializzazione dell’oro nero. Per chi, in nome di un falso anti-imperialismo e di una falsa tattica di “sinistra”, si è schierato su di un fronte, quello russo-iraniano-libanese con riferimento al partito degli Hezbollah, non solo non ha capito assolutamente nulla della crisi attuale e delle dinamiche imperialistiche che sta scatenando, ma si è collocato di fatto all’interno di uno schieramento che pone la “sua” via d’uscita dalla crisi in termini di violenza, barbarie, morte e devastazione, rinunciando a priori a qualsiasi anelito di opposizione alla guerra, alle crisi che le favoriscono, al capitalismo che è la causa prima di tutto questo. Sedicente sinistra che si colloca sul terreno della conservazione del sistema e a braccetto con le più feroci rappresentanze di vecchi e nuovi imperialismi, senza minimamente pensare all’ipotesi della necessità di una ripresa della lotta di classe, avallando nei fatti che le masse proletarie di disoccupati e di disperati servano da carne da macello per i soliti giochi imperialistici.

Fatte queste doverose premesse per chi non avesse letto gli articoli precedenti che di questo trattano, passiamo alla descrizione dalla composizione di classe dello Stato islamico, che assumiamo come oggetto centrale di questa breve analisi. L’Isis (Stato islamico dell’Iraq e della Siria) nasce come filiazione di Al Qaeda nel 2006, a tre anni dall’intervento americano in Iraq, dopo la morte di al Zarqawi. Nel 2011, con gli episodi di guerra civile in Siria e il relativo scontro indiretto tra Russia e Usa sui destini di el Assad si costituisce l’IS, prima sotto la guida di Abu Ayyub al Masri e poi di Abu Bakr al Baghdadi, con lo scopo di abbattere il regime alawita siriano e di creare la basi geografiche ed economiche del nuovo Califfato di Baghdad grazie ai cospicui finanziamenti di Usa, Arabia Saudita e Qatar, pur in ottiche strategiche diverse e contrastanti. L’obiettivo comune era quello di sbarazzarsi del nemico alawita, quello individuale consisteva nell’esercitare un ruolo di leadership nel campo sunnita, di avere nell’area medio orientale una maggiore possibilità di investimento dei petrodollari e, non da ultimo, di avere mano libera nella gestione strategica di una delle aree più sensibili del mondo.

Sin dall’inizio il processo di accorpamento attorno all’originario nucleo jihadista, accanto al quale si è andata costruendosi la struttura sociale e militare dello Stato islamico, è stato costituito dagli avanzi della borghesia statale sunnita, che aveva vissuto politicamente ed economicamente alla corte di Saddam Hussein. Nello scontro imperialistico tra gli Usa (allora assetati di petrolio e spaventati dalla possibilità che il dollaro perdesse ulteriore terreno nei confronti dell’euro e di altre divise internazionali) e l’Iraq di Saddam Hssein, che minacciava di dirottare il suo petrolio verso altri lidi e di venderlo in euro, tutta la vecchia classe dirigente sunnita è stata sostituita da quella sciita, relegando la prima completamente all’esterno del potere economico, politico, nonché amministrativo del nuovo governo che, nelle intenzioni di Washington, avrebbe dovuto fare da sponda agli interessi americani in terra mesopotamica.

E’ stato, quindi, sotto la spinta del revanscismo sunnita, che i primi nuclei di combattenti dell’Isis si sono uniti alle aspettative di rivalsa di una branca statale della borghesia rappresentata dai vecchi generali di Saddam, che hanno dato, al costituendo esercito di al Baghdadi, un'impostazione militare di prim'ordine. Prima che i soldi arrivassero dai munifici imperialismi occidentali e medio orientali e, successivamente, dallo sfruttamento dei pozzi petroliferi conquistati in Iraq e in Siria, le necessità finanziarie erano coperte, almeno in parte, dai quadri alti della borghesia irachena sunnita. Quella borghesia statale e burocratica che aveva potuto vivere agiatamente grazie alle ingenti entrate da rendita petrolifera e che si era profondamente insediata nei gangli vitali delle strutture dello stato iracheno. Personaggi che provenivano dalla gestione parassitaria degli asset petroliferi, che hanno goduto a piene mani dei vantaggi dalla rendita petrolifera, amministratori delle imprese di stato, ma anche ricchi commercianti, quadri alti dell’esercito e della pubblica amministrazione. Questo il vertice, il nucleo dirigente che è stato ed è la struttura portante e ispiratrice del jihadismo sunnita, avvoltolatosi poi nel mantello nero dell’integralismo, quello “devoto” alla sacra Sunna, anche se di matrice originariamente laica. Per la borghesia non ci sono preclusioni sul versante religioso, il camaleontismo è un’arte praticata da sempre, l’importante è riconquistare il potere. La base della piramide che andava, suo malgrado, aggregandosi attorno agli interessi di quella classe borghese irachena, ex baathista, che era uscita sconfitta dal confronto militare e completamente estromessa dal potere politico, era costituita dai soliti disperati senza arte né parte, proletari e sottoproletari, contadini e disoccupati. Base che era chiamata a combattere, a uccidere e a morire per riportare al potere l’avversario di classe. Combattenti socialmente diseredati e politicamente orfani di qualsivoglia istanza anticapitalistica e di orientamento di classe, quindi ideologicamente plasmabili da un punto di vista nazional-borghese in veste non più baathista ma jihadista, secondo le più opportune tattiche del momento. Masse che dovevano essere pronte all’uso e messe completamente al servizio dalle solite strategie borghesi. Operazione questa tanto più facile quanto maggiore era il disorientamento politico delle masse stesse. Così l’esasperazione dovuta alla fame, alla disperazione che la guerra civile ha portato, così come la rabbia e la radicalizzazione che iniziavano ad esprimersi, hanno subito il perverso fascino dell’islamizzazione, che tutto questo ha drammaticamente confezionato in una miscela altamente esplosiva.

Non a caso il capo spirituale, al Baghdadi, l’uomo guida che si appella alle masse, ovviamente di fedeli e altrettanto ovviamente di fede sunnita, è un laureato in teologia, è un uomo di fede. E’ la guida che Allah ha scelto per la “santa” riscossa dell’Islam contro l’occidente corrotto e corruttore, contro gli apostati e i falsi musulmani che saranno condannati alla medesima sorte. Sempre non a caso i comandanti dell’esercito del Califfo sono sunniti, anche se laici, e provengono tutti dal distrutto esercito iracheno nel corso dell’invasione americana del 2003. Su tutti spicca la figura di al Duri, capo supremo delle truppe del dittatore, numero due del regime e, contemporaneamente, generale di corpo d’armata nonché ricco speculatore. La cronaca ci dice che al Duri è morto recentemente sotto i colpi di un raid americano. Come recentemente è stato eliminato anche un altro alto esponente militare del Califfato, Ali Mohammed Nasser al Obeidi, uno dei capi della vecchia Guardia repubblicana, corpo speciale nato per la difesa personale di Saddam Hussein. Questa in sintesi la composizione di classe dello Stato islamico, nucleo del costituendo Califfato. Al centro il revanscismo della borghesia sunnita ex amministratrice della rendita petrolifera ai tempi di Saddam Hussein, con l’adesione degli alti membri della ex amministrazione statale e ricchi imprenditori. A fianco, il braccio armato, il cui comando militare è nelle mani dei generali legati al vecchio regime. Alla base la disperazione dei soliti oppressi. Il tutto ammantato di “guerra santa” sotto la carismatica figura di al Baghdadi che ogni cosa sottopone ai supremi interessi del jihadismo, differenze e contrapposizioni sociali e lotta di classe compresi.

Foreign fighters

Anche se per molti versi simile, il contesto europeo (Belgio, Olanda e Inghilterra, ma soprattutto Francia di cui ci occupiamo) di coloro che hanno abbandonato i paesi di appartenenza per correre in Siraq a combattere sotto le bandiere dello Stato Islamico, presenta alcune peculiarità. Secondo le “indagini” degli analisti francesi che hanno studiato in modo particolare il fenomeno come si è presentato in Francia, ma che può essere riproposto anche in altri paesi del vecchio continente, il 90% dei combattenti è di origine magrebina. Ha un’età tra i 20 e i 40 anni, proviene dalla periferia delle grandi città, in modo particolare da Parigi, e abita nelle cosiddette ZUS (Zone Urbane Sensibili), moderni ghetti molto spesso teatri di miseria e di scontri tra i giovani abitanti e i Corpi Speciali di polizia, appositamente creati per amministrare le esplosioni di rabbia dei giovani “banlieusards”. La storia che ha portato agli avvenimenti odierni è lunga e controversa anche se, al dunque, è una storia di mancata integrazione economica e sociale, di crollo delle aspettative sociali e politiche a causa soprattutto delle sedicenti forze di sinistra, sempre più schierate sul terreno nazionalistico, attestate sulla difesa degli interessi del capitale nazionale, molto attente a non scontrarsi con le sempre più ristrette compatibilità del sistema, senza alcuna sensibilità, nemmeno riformistica e rivendicativa da un punto di vista economico, a favore del proletariato in generale, di quello immigrato in particolare. E’ almeno dagli inizi degli anni novanta che va maturando il processo di scollamento tra il proletariato emigrato, giovani di seconda, terza, se non addirittura quarta generazione, e l’ennesimo tradimento di una sinistra, ormai da molti decenni non più alternativa alla società capitalistica, dichiaratamente non comunista, sempre più accorta alle necessità di sopravvivenza del sistema sino a diventare, a tutti gli effetti, il migliore baluardo di “sinistra” alle eventuali scosse provenienti dalla base produttiva, con tanto di rigurgito razzista, mai ammesso ma sempre praticato. A maggior ragione se si tratta di rivolte delle periferie orchestrate dai giovani “banlieusards”. Persino le lotte dei precari, degli studenti e dei movimenti della sedicente ultra-sinistra che si battevano contro la guerra in Iraq, in termini democraticistici, senza nulla capire dello scontro imperialistico in atto, hanno snobbato questa realtà sociale, allargando il solco tra essa e una possibile ripresa della lotta di classe, impedendo di costruire l’unità tra proletari e dare vita alla lotta contro il capitale, le sue guerre e la sua barbarie. D’altra parte, tutto ciò era semplicemente impossibile, perché non era nelle corde di quella “sinistra” essere il motore politico di una simile prospettiva, quando la sua natura la pone di fatto all’interno del fronte opposto. La separazione tra il proletariato di origine francese, quello di origine immigrata e la presunta sinistra, meglio sarebbe dire tra i primi e il vuoto assoluto in termini politici e di prospettive rivoluzionarie, ha prodotto nell’autunno del 2005, in occasione della morte di due ragazzi di origine magrebina, a S. Denis, sobborgo di Parigi, la rivolta delle banlieue che si è chiusa in un limitato e sterile scontro di strada tra i Reparti Speciali di Polizia e la disperazione dei “banlieusards”. Gli stessi episodi in tempi, e con obiettivi doversi, avrebbero potuto inscenare ben altre prospettive di lotta, invece si sono inizialmente esaurite in un nulla di fatto, per poi maturare verso la prospettiva rappresentata dal radicalismo jihadista, contro tutto e tutti, islamisti moderati (Fratelli musulmani) compresi.

Va altresì detto che il proletariato giovanile delle periferie francesi non si era avvicinato all’islam tradizionale, quello moderato e praticato dalle famiglie di provenienza, se non in forma blanda e molto “laica”. Quindi “l’irresistibile” richiamo verso lo jihadismo dell’IS ha avuto altre origini. Innanzitutto il rifiuto di quel modello economico e sociale che li ha prima discriminati e poi, con l’esplodere nel 2007 della crisi internazionale - con il suo fardello di ulteriore attacco alle condizioni di vita e di prospettive di morte per le guerre che ancora oggi si trascinano in una scia di sangue e disperazione - li ha sì portati verso un processo di radicalizzazione, ma fuori dai “canoni” conosciuti. Lo stesso vale per il crollo del “mito” del socialismo reale, ovvero del capitalismo di stato contrabbandato per comunismo, aggravato dall’esperienza di aggressione dell’Afghanistan nel corso degli ultimi spasmi dell’imperialismo sovietico e della repressione delle ambizioni secessioniste della Cecenia islamica nella fase post sovietica. Come dire che il fallimento delle due vie poteva portare soltanto verso una terza via, quella che, non potendo più passare dall’esperienza delle (false) democrazie occidentali ree, peraltro, di criminali percorsi colonialistici nei loro confronti, né dalla strada di un altrettanto falso comunismo, non poteva che “necessariamente” ritornare alle origini, alle fondamenta del “vero” verbo in chiave di canalizzazione della rabbia accumulata. Per cui le capacità dello Stato Islamico di rappresentare un’alternativa all’attuale stato di cose in perenne crisi economica, in assenza di prospettive reali che possano dare una risposta ai bisogni, alle impellenti necessità di lavoro e di occupazione del proletariato giovanile delle banlieues ma anche di giovani provenienti dallo sfascio sociale della piccola borghesia in via di proletarizzazione, è diventata drammaticamente operativa oltre ogni previsione. A completare il quadro c‘è anche la disillusione che ha colpito molti dei partecipanti alle rivolte del 2011. Molti giovani proletari dell’area nord africana (tunisini, marocchini, ma anche provenienti dalla zone del Sahel) e medio orientale hanno scartato, con il senno di poi, i risultati politici di quei movimenti che, nelle idealistiche aspettative di molti, avrebbero dovuto drasticamente cambiare le cose e che, non solo non le hanno cambiate, ma le hanno perpetuate nelle mani dell’islamismo moderato o di dittature peggiori di quelle precedenti. Da qui il rifiuto del risultato delle rivolte del 2011 e, purtroppo, l’inizio illusorio del percorso della “terza via” che, una volta imboccata come un tunnel nei meandri della paranoia jihadista più assoluta, deve essere percorsa sino in fondo nell’esercizio del radicalismo più esasperato. Al dunque, ai sostenitori del molto presunto antimperialismo dello Stato islamico, ricordiamo che ciò che sta accadendo in terra di Siria e di Iraq, sia da parte dalle piccole e grandi potenze imperialistiche che dal sedicente IS, appartiene alla barbarie imperialistica di un capitalismo decadente che tenta di sopravvivere a se stesso inscenando teatri di guerra, conflitti aperti, scontri bellici combattuti per interposte ambizioni nazionalistiche e, il tutto, contro gli interessi di milioni di sfruttati a cui si è fatto credere che la “giusta” guerra sta nella “redenzione divina” e nello sforzo di dotarsi di uno Stato e di riprendere il controllo del petrolio, che ne deve essere il motore propulsore. Il tutto sotto la vigile guida di Allah che rende possibile ogni cosa se si combatte in suo nome. Banale, ma in questa fase storica, sotto quelle latitudini politiche, in assenza di qualunque alternativa o di punto di riferimento rivoluzionario alla crisi del sistema capitalistico e alle sue barbarie di guerre e di violenze di tutti contro tutti, anche l’incredibile diventa possibile. Anche la proiezione ideologica, idealistica e infantile di un nuovo mondo in cui la miseria e la disperazione di queste masse possano essere superate in nome di un divino riscatto sociale, può avere cittadinanza nelle teste di coloro che, invece di combattere l’ideologia dominante della classe dominante, ne subiscono gli effetti. In aggiunta, va sottolineato che nei programmi politici, nella prassi quotidiana dei militanti dell’IS, come di qualsiasi altra organizzazione jihadista, la lotta al comunismo, ateo e quindi satanico, è il nemico numero uno se solo si ripresentasse sulla scena politica interna. Il comunismo è un pericolo per il jihadismo perché è contro qualsiasi disegno borghese, capitalistico e nazionalistico comunque camuffato. Perché è contro l’imperialismo e le sue catastrofi belliche, comprese quelle dello stesso Stato islamico. Perché gli sottrarrebbe quella massa di diseredati che oggi, ideologicamente dominata dalla religione in versione integralista, verrebbe orientata sul terreno della lotta di classe rompendo gli schemi ideologici nazionalisti, borghesi e religiosi che, per il momento, ancora funzionano come narcotico sociale e antidoto allo scontro tra le classi. Per il momento, i nemici a cui contendere territori e petrolio sono altri, sciiti e sunniti “eterodossi” compresi, poi se la lotta di classe dovesse iniziare a mostrare segni di ripresa, la feroce macchina del jihadismo sarebbe pronta a produrre tutto il suo furore reazionario e conservatore contro di essa e i suoi militanti.

La strategia dello Stato Islamico

Come abbiamo visto, lo Stato Islamico (all’epoca ancora Isis) nasce in Iraq durante l’occupazione americana nel 2003, come costola irachena di al Qaeda, sotto la leadership di al Zarkawi morto nel 2006. Poi, a partire dal 2010, sotto la guida di Abu Bakr al Baghdadi, le cose cominciano a cambiare sino a creare le condizioni di una separazione definitiva. La rottura tra al Qaeda e lo IS matura all’interno della guerra civile siriana (primavere del 2013) dove la lotta interna tra le forze di opposizione al governo alawita di Bashar el Assad per la direzione politica e militare, andava assumendo toni di radicale conflittualità, in alcuni casi anche armata. Lo scontro dell'IS è contro i qaedisti siriani di Jabhat al Nusra, le formazioni sciite e contro le direttive dello stesso Ayman al Zawahiri che, dopo la morte di Bin Laden, ha assunto il comando di al Qaeda. Zawahiri non accettava che al Baghdadi si ergesse a capo dello jihadismo sunnita, che operasse in Siria come forza autonoma e che usasse un terrorismo così violento da rischiare di incidere negativamente sull’immagine delle formazioni qaediste stesse. Per questo gli aveva intimato di ritirarsi all’interno dei confini iracheni come sezione nazionale di al Qaeda e di aspettare ordini. L’IS però non solo non si ritira ma risale il corso dell’Eufrate, sino alle sponde del fiume Oronte, nel nord ovest siriano. In Iraq fa altrettanto entrando nella provincia di Anbar e mettendo sotto assedio le città di Falluja e Ramadi per poi arrivare a Raqqa e conquistare un territorio che, tra i “possedimenti” siriani e quelli iracheni, è grande quanto il Belgio. Ma al di là di questa “disobbedienza”, la rottura ha avuto ben altre coordinate, sia politiche che strategiche. L’aspirante costruttore del nu0ovo Califfato rimproverava ad al Qaeda di limitarsi ad una operatività militare intesa solo come risposta alle manovre dell’imperialismo occidentale, con atti di terrorismo dimostrativi, più o meno efficaci, ma senza una vera e propria strategia. Di essere legato a vecchi schemi di lotta e di propaganda, di essere una struttura vecchia che usava tattiche obsolete e senza una proposta strategica valida per l’immediato e, soprattutto, per il futuro. Ed è con questa profonda rottura che al Baghdadi si candida a unico rappresentante del mondo jihadista, a capo religioso, politico e a portatore, oltre che della volontà di Allah, degli interessi economici e politici del revanscismo sunnita in chiave mistico-petrolifera. Per cui: 1) Dotarsi di un territorio che fungesse da piattaforma geografica­-giuridico-amministrativa del nuovo Stato. Neo nazionalismo tra vetero nazionalismi compromessi con gli imperialismi occidentali, quindi possibili vittime della nuova umma, della futura società islamica, che deve agire contro gli “infedeli” come contro i falsi musulmani. 2) Essere in grado di conquistare le condizioni economiche su cui edificare la strutture portanti del Califfato. Petrolio innanzitutto, dalla cui vendita ricavare il necessario per le funzioni amministrative, per il mantenimento della burocrazia statale e per il pagamento delle milizie. Ma anche per operazioni finanziarie attraverso la complicità di paesi come il Qatar, Kuwait e la stessa Arabia Saudita. 3) Mettere in piedi un piccolo welfare in grado di soddisfare i problemi sociali più immediati come la sanità, l’istruzione e l’immancabile magistratura impostata sulle rigide leggi della sharia. 4) La creazione di una tassa “rivoluzionaria” su tutte le attività economiche, da quelle imprenditoriali a quelle artigianali. Tasse sul commercio e sulle attività autonome, come quelle dei medici o di altri professionisti. 5) Un discorso particolare merita l’organizzazione dell’esercito. Lo Stato Islamico ha avuto, sin dall’inizio, un atteggiamento di particolare riguardo nei confronti di questo problema. Dovendo in prima battuta risolvere i primi due problemi, quali le conquiste territoriali e la gestione dei pozzi petroliferi, era inevitabile che le sue milizie dovessero essere “messe in sicurezza” sul piano dell’affidabilità e della dedizione alla causa, sia attraverso l’imbonimento religioso, sia attraverso la prospettiva “rivoluzionaria” di un nuovo mondo voluto da Allah, sia usando il deterrente dell’impossibilità della diserzione, pena la morte certa, la più atroce possibile, quella riservata ai traditori. Ma soprattutto facendo leva sulle condizioni economiche dei combattenti indipendentemente dalla loro provenienza. Solo un 30% è di origine siriana o irachena. Il restante 70% proviene dalla Tunisia, dal Marocco, dal Ciad, dalla Nigeria e da altri paesi dell’area del Sahel. Ovvero dalle zone più povere del centro-nord del continente africano, poco islamico ma molto interessato a una paga fissa in grado di soddisfare le esigenze individuali come quelle delle loro famiglie d’origine. Lo Stato Islamico retribuisce i suoi miliziani con 800 dollari al mese, più una serie di benefit, tra i quali l’uso saltuario di una automobile, un cellulare e una sorta di pensione alle famiglie in caso di morte. Non molto se paragonato ai vantaggi dei contractors occidentali, moltissimo per chi proviene dalle lande sociali più diseredate del continente.

Detto questo, non si pensi che lo Stato Islamico sia una forza inarrestabile in grado di portare a compimento il suo programma. Come abbiamo già avuto modo di dire, il successo iniziale dell’ISIS è stato possibile grazie agli appoggi logistici, ai finanziamenti e alle forniture di armi da parte di A. Saudita, Qatar, Turchia e Stati Uniti che, inizialmente, hanno giocato la carta ISIS in chiave anti Assad. Poi, quando al Baghdadi ha ritenuto che fosse arrivato il momento di sganciarsi dai suoi “protettori” per giocare la sua partita in autonomia, grazie anche ai territori e al petrolio conquistati, le cose sono parzialmente cambiate. Con l’intervento russo a difesa del sua alleato Assad il quadro si è ulteriormente complicato. Per cui gli USA hanno dato vita ad una Coalizione contro lo Stato Islamico; l’Arabia Saudita, pur facendo parte della Coalizione a guida americana, pochi mesi dopo ha fatto lo stesso chiamando a raccolta i paesi arabi. Tutti apparentemente contro l’IS, che a quel punto incominciava a servire di meno, in realtà tutti contro tutti alla ricerca del soddisfacimento dei rispettivi interessi imperialistici nell’area a maggior “sensibilità” del mondo. Il che ha consentito allo stesso Stato islamico di ricavarsi spazi di agibilità e alleati discreti, quali la Turchia e la stessa Arabia saudita, che gli consentono di sopravvivere nonostante l’opposizione, peraltro non particolarmente determinata, degli altri attori imperialistici. Come più volte detto, la presenza russa, prima e dopo il “cessare il fuoco” concordato con gli USA, ha come obiettivo l’indebolimento militare degli oppositori di Assad, Gli USA usufruiscono della Coalizione per fare esattamente il contrario di Mosca, eliminare cioè dalla scena politica medio-orientale e mediterranea Assad. La Turchia ha come scopo principale quello di entrare in possesso, qualora la Siria venisse smembrata, di quell’area con presenza curda che le consentirebbe in un sol colpo di annettersi un territorio strategicamente interessante e di impedire la nascita di un secondo stato curdo dopo quello iracheno di Barzani. Inoltre, il governo di Ankara usa la “guerra” contro lo Stato Islamico per combattere sia i curdi siriani che quelli domestici del Pkk. La momentanea conclusione è che l’IS, nonostante le crescenti difficoltà e sconfitte sul campo che lo hanno visto arretrare sotto i colpi del governo ufficiale di Damasco, può sopravvivere, ma la sua sopravvivenza sarà sempre più legata agli equilibri che si determineranno alla fine di questo scontro nel cuore del Medio oriente, se fine ci sarà, o se il conflitto sarà costretto a dilatarsi ulteriormente.

Nel frattempo l’IS usufruisce di aiuti che ancora arrivano “clandestinamente” in quel di Raqqa, che gli garantiscono la sopravvivenza. Arrivano come dalla Turchia, dalla Arabia Saudita e dal Qatar, anche se fanno parte di ben due Coalizioni contro lo IS. Patisce però quel poco di contrasto che gli arriva da alcuni membri delle Coalizioni e, in modo particolare, subisce pesantemente le politiche di contenimento del prezzo del greggio che finiscono per impoverire le fonti di finanziamento di quel poco che aveva messo in piedi nel neonato Siraq. Patisce la determinazione della Russia e la conseguente, parziale, perdita di territori ritornati sotto il controllo dell’esercito di Assad. Per reazione all’attuale debolezza, l’IS da solo o con la collaborazione di gruppi affini, si esibisce sempre più spesso in episodi di atti di terrorismo su campi esterni pur di alimentare la sensazione, tra le masse arabe, di invincibilità, di potenza tanto da poter intervenire sempre e comunque purché lo voglia. Lo stesso trasferimento di un paio di migliaia di combattenti dello Stato Islamico a Sirte, favorito peraltro da voli aerei del governo turco, che intende giocare le sue carte nella, per ora soltanto ipotizzata, tripartizione della Libia, appare per essere più un disperato tentativo di rimanere a galla tra le acque tempestose di un mare che non riesce più a solcare, che un episodio di potenziamento territoriale, economico e militare. Come sempre, il tutto è nelle mani delle grandi centrali imperialistiche che, all’interno del loro scontro, determinano, come inevitabili effetti collaterali, la sorte dei piccoli imperialismi e, a maggior ragione, quelle di chi imperialista deve ancora diventare, nonostante abbia mostrato grande ferocia e determinazione.

Per una prima conclusione

Se il “tifo” per le presunte vicende anti-imperialistiche dello Stato islamico che alligna in qualche settore delle cosiddetta sinistra è una farsa, l’appoggio politico a tutto tondo che stratificazioni ben più consistenti della medesima area politica danno alla Russia, ad Assad e ai variegati nazionalismi curdi, finisce per essere una tragedia. In questi casi non c’è nemmeno un presunto quanto fasullo socialismo più o meno reale da difendere. Chi si muove su questo terreno, da sempre controrivoluzionario, subisce la sindrome da neo-stalinismo. La Russia non è l’Urss, anche se ci assomiglia molto, è vero, ma la sindrome opera anche in presenza di comportamenti politicamente abitudinari. E poi scatta sempre il meccanismo difensivo. E’ l’imperialismo occidentale che attacca la Siria e la Russia, sono le intelligence americane ed europee che hanno lavorato dietro le rivoluzioni arancioni nell’est europeo e nelle primavere arabe per consolidare i rispettivi ruoli negli scenari petroliferi e non. Ma è anche l’imperialismo russo che si è dato tragicamente da fare per contenere le spinte secessionistiche della Cecenia, per riguadagnare un ruolo nell’Europa orientale e per, grazie al petrolio e al gas siberiani, ergersi a potenza imperialistica internazionale, esattamente come ai tempi della veccia Urss di Giuseppe Stalin prima e di Leonida Breznev poi, ma la cosa si potrebbe estendere a fasce del trotskismo e del maoismo, che su questo terreno non sono seconde a nessuno. Ciò che i “sinistrorsi” di cui si parla non capiscono è che:

  1. Ai tempi dell’Urss il presunto socialismo non è mai esistito, se non nei programmi e nelle speranze del partito bolscevico che l’isolamento da altre esperienze rivoluzionarie internazionali e l’arretratezza economica interna hanno prima ridimensionato e poi completamente distrutto. Lo stalinismo è stato nei fatti la “forma” politico organizzativa ed economica che ha assunto la controrivoluzione in Russia. La dittatura del proletariato è stata sostituita da quella del partito e quella del partito nella dittatura personale di Stalin, dopo una ferocia lotta interna contro chi gli si opponeva in termini di concorrenza al potere, o in termini politici contro chi lo accusava di costruire un capitalismo di Stato contrabbandandolo per socialismo. Sul massacro delle sue vittime lo stalinismo ha cambiato completamente rotta, dall’internazionalismo proletario, quale unica soluzione ai problemi e alle aspettative del proletariato internazionale, si è sostituita la possibilità del socialismo in un solo paese. Dal favorire altre esperienze rivoluzionarie si è arrivati, nell’arco di pochi anni, a rinunciare a tutto ciò per creare un cordone sanitario attorno alla Russia rivoluzionaria, per consentirle di costruire il “suo” socialismo domestico. Dall’internazionalismo rivoluzionario si è passati al nazionalismo riformista, dalla necessità di creare altre esperienze di dittatura del proletariato si sono inventati i Fronti unici per Governi operai e contadini che nulla avevano a che vedere con un corretta impostazione rivoluzionaria. Dal necessario esperimento economico della NEP che riapriva i meccanismi del mercato capitalistico (necessario diceva Lenin per dare un minimo di sviluppo alle forza produttive, altrimenti in Russia sarebbero tutti morti di fame, ma mantenendo il potere, in attesa che la rivoluzione internazionale venisse in aiuto), si è passati ai primi esperimenti dei Piani quinquennali e al capitalismo di Stato. Quindi, con la seconda guerra mondiale, quando l'URSS si colloca definitivamente all’interno dei contrapposti schieramenti imperialistici, risulta ormai completato il corso controrivoluzionario e risulta più che mai evidente che non c’era nessun socialismo da difendere, ma soltanto da denunciare la fine che aveva fatto la rivoluzione d’ottobre e la trappola che il proletariato russo, come quello internazionale, stava subendo sulle loro teste e nelle loro coscienze politiche. Ma anche se fosse stato diversamente, la prassi comunista avrebbe imposto non la difesa della Russia, bensì l’ulteriore sforzo per aprire altri fronti rivoluzionari, quelli sì in difesa della prima esperienza di classe in senso rivoluzionario.
  2. Oggi non esiste nemmeno questo equivoco: a parte la farsa della Repubblica Popolare Cinese e della Corea del Nord, non c’è paese al mondo che possa fregiarsi, nemmeno fraudolentemente, di essere un paese socialista. Il che dovrebbe imporre ai comunisti di lavorare ovunque perché una soluzione rivoluzionaria possa rivivere nel programma e nelle coscienze dei proletari politicamente più avanzati a livello internazionale, e non dovremmo assistere al comportamento di sedicenti comunisti che si riducono ad appoggiare un fronte della guerra, il che non ha altro significato se non quello di appoggiare un fronte dell’imperialismo contro un altro, senza mai uscire dalla logica degli interessi capitalistici che le guerre generano, rinunciando a priori a qualsiasi anelito di ripresa di lotta di classe in senso rivoluzionario.
  3. Lo stesso discorso vale per la difesa-appoggio ai vari nazionalismi dell’area, quelli curdi in particolare. Sostenere il movimento Rojava in Siria (al riguardo vedere Prometeo n 12, VII serie, 2014), il Pkk in Turchia come qualsiasi altro anelito nazional-borghese della diaspora curda, significa avere come modello sociale e di organizzazione economica il Kurdistan iracheno di Massud Barzani, voluto dagli Usa per garantirsi una fonte privilegiata di approvvigionamento del petrolio iracheno, che il precedente regime di Saddam Hussein non garantiva più, come non lo garantiva il potere sciita di Nuri al Maliki. Stato curdo capitalista, dunque, retto da una borghesia parassitaria che vive riccamente sulla rendita petrolifera, lasciando il resto della popolazione nella miseria. Inoltre, il suo legame di sudditanza nei confronti degli Usa fa sì che si debba adoperare per essere uno dei soggetti della guerra in atto, anche se non in prima linea e in maniera appariscente. Una borghesia curda che, come tutte le borghesie, persegue il raggiungimento o la difesa dei suoi interessi economici coinvolgendo il proprio proletariato, come da prassi borghese consolidata. Altro aspetto è che quei “sinistri” confondono la lotta di popolo con la lotta di classe. L’autodeterminazione dei popoli con l’emancipazione della classe. La lotta contro le dittature ma non contro il sistema economico che le sorregge, contro la sovrastruttura politica ma non contro i rapporti di produzione, salvo poi difendere le stesse se vengono attaccate dall’unico imperialismo che riconoscono, quello americano, senza vedere il contesto imperialistico globale.

Mentre la crisi ha modellato i fronti dell’imperialismo, ha disegnato le aree sensibili dei confronti regionali, ha posto in essere variabili e strumentali alleanze, quali componenti della fibrillazione di un capitalismo globale in cerca di impossibili soluzioni che non siano quelle della guerra, lor signori della solita “sinistra” non trovano di meglio che scegliere un fronte per combattere l’altro. Restano coinvolti su quel terreno che a parole combattono (la guerra) diventandone parte integrante, se non altro, da un punto di vista ideologico. Il quadro della barbarie capitalista non viene minimamente toccato, nemmeno denunciato, se non quello che rientra nei loro vecchi schemi ideologici. Si imbevono di presunti progressismi, di “radicali scelte” finalizzate alla salvaguardia dei popoli all’interno dei conflitti in atto, senza mai porre il vero problema che risponde a un unico comandamento, che solo la lotta di classe, autonoma da qualsiasi condizionamento borghese e imperialista, può essere efficace contro la guerra. Bisogna uscire dallo schema che si basa sulla scelta di un fronte, altrimenti si entra nella logica della guerra stessa. L’unica guerra possibile per il proletariato internazionale è “la guerra alla guerra” all’imperialismo, al capitalismo che lo genera e alle sue crisi che lo esasperano. Alla scelta del fronte in funzione di impossibili soluzioni popolari si deve opporre la necessità dell’alternativa sociale. Nel bel mezzo della crisi più profonda del capitalismo mondiale, che ha prodotto decine di milioni di disoccupati solo in Europa, centinaia di milioni al mondo, Cina e India comprese. Che sta spostando milioni di profughi come in un tragico esodo di dimensioni bibliche, affamati e terrorizzati, se non uccisi dalle sue guerre. Che sta inscenando una sorta di “guerra mondiale” per interposte fazioni. La parola d’ordine non può essere quella di stare con la Russia contro gli Usa, o con Assad contro la Turchia. Con l’IS se combatte contro l’imperialismo occidentale o contro l’esercito di al Baghdadi se si allea con esso. Non si sceglie un imperialismo perché migliore, più “progressista” o meno peggio di altri, né ci si schiera tatticamente con un fronte della guerra piuttosto che con un altro solo sulla base della presunta difesa di interessi popolari o di popoli oppressi. L’unica risposta possibile è lo sforzo per la creazione di un fronte di classe internazionale che incominci a porre il problema dell’anticapitalismo, della rivoluzione proletaria quale strada da percorrere per la sua emancipazione e per l’emancipazione dell’umanità. Ciò vale per i proletari di Aleppo come per quelli di Ankara, per quelli europei e per quelli americani. Altrimenti sarà sempre barbarie capitalistica.

FD, Febbraio 2016
Lunedì, March 21, 2016