La tragedia della Libia non ha mai fine

Il premier designato dall’ONU al Serraj, una volta giunto nel porto di Tripoli dal rifugio di Tunisi, ma ostacolato da numerose forze interne che gli hanno impedito il viaggio aereo a colpi di cannone, ha solennemente dichiarato che il suo esecutivo “lavorerà per unire i libici e ridurre le sofferenze del popolo sia sotto il profilo della sicurezza che economico”. “È giunto il momento” – ha detto – “di lavorare come libici per la Libia, voltando pagina rispetto a ieri e guardando al futuro con uno spirito di tolleranza e di fiducia in Allah, perché la vendetta e l'odio non costruiscono niente”.

Nonostante le rassicuranti dichiarazioni di al Serraj, di fatto non è ancora successo “niente” che possa al momento cambiare la situazione in Libia, rispetto al “molto” che è già stato fatto con l’abbattimento del regime di Gheddafi e di quel “molto altro” che dovrà essere fatto per soddisfare le fameliche fauci degli imperialismi d’area e di quelli internazionali. Nel 2011 su iniziativa della Francia di Sarkozy e con l’appoggio dell’Inghilterra, la quarantennale dittatura del colonnello è rovinosamente caduta sotto i colpi dell’imperialismo di Parigi. L’allora presidente francese, mimando i comportamenti del presidente americano Bush, invocava la necessità di un intervento militare in Libia, in nome della lotta alla dittature, (non dimentichiamo che si era aperta la fase delle “primavere arabe), per mostrare al mondo arabo da riconquistare, che la Francia non era più la vecchia potenza colonialista di cui diffidare, ma una nazione che lottava contro le oppressioni per contribuire a ridare fiducia e democrazia a quelle popolazioni che per decenni avevano subito il peso di feroci dittature personali che, finalmente, stavano per essere rovesciate. Una sorta di esportazione della democrazia di vecchia memoria riadattata alle caotiche vicende nord africane. Ovviamente, nulla di tutto questo rispondeva a un minimo di verità. L’imperialismo francese aveva tre obiettivi da realizzare con la caduta del regime di Gheddafi.

  1. Una redistribuzione delle ingenti riserve energetiche della Libia in modo da penalizzare la concorrenza dell’ENI a favore della TOTAL-FINA. Prima della caduta, Gheddafi garantiva circa il 40% delle proprie esportazioni all’Italia e solo un 22% alla Francia. Sarkozy sperava di rovesciare i termini delle percentuali, facendo della Francia il paese privilegiato a spese dell’Italia.
  2. Il governo francese aveva paura che la minacciata decisione di Gheddafi di creare una divisa nord africana, garantita dalle riserve auree e finanziarie di Tripoli contro il Franco africano (CFA), imposto dalla Francia per facilitare le sue manovre finanziarie e commerciali su ben 14 paesi dell’area, potesse diventare realtà. Se ciò fosse avvenuto, per Sarkozy sarebbe stata una clamorosa sconfitta in un momento, oltretutto, in cui il suo indice di popolarità era ai minimi termini.
  3. Con un governo libico filo-francese, o comunque più disponibile, la Francia avrebbe avuto una migliore piattaforma dalla quale partire per i suoi ambiziosi programmi imperialistici. Controllare e “amministrare” economicamente, commercialmente e finanziariamente un’area che va dal Sudan alla Nigeria attraversando tutti i paesi del Sahel, in concorrenza con la Cina, che ormai da anni imperversa in quella zona sfruttandone le ricchezze minerarie, il petrolio e investendo in infrastrutture per centinaia di milioni di dollari.

Il regime di Gheddafi è caduto, ma le cose non si sono messe come sperava l’imperialismo francese. Il caos si è impadronito della Libia, la varie fazioni si sono date battaglia in una sorta di guerra di tutti contro tutti per il controllo dell’unica ricchezza, il petrolio, per le sue vie di trasporto e per essere gli unici “legali” esportatori verso i consumatori esteri. Dopo cinque anni la situazione è, a dir poco, deprimente. Centinaia di migliaia di morti, intere città distrutte, l’economia ridotta ai minimi termini, le esportazioni di petrolio ridotte a un decimo. Due governi, quello di Tripoli, espressione del jihadismo locale e internazionale, e quello di Tobruch riconosciuto a livello internazionale ma inefficiente come, se non più, dell’altro. Decine di tribù che si vendono al migliore offerente cambiando fronte ogni qual volta se ne presenti l’opportunità. I tentativi di dare vita a un governo di “unità nazionale” con un presidente accettato dalle due parti è abortito, così come la formazione di un parlamento che mettesse assieme gli interessi economici e politici di tutte la fazioni in lotta. Come se non bastasse, ci si è messo anche lo Stato Islamico che, subendo perdite non indifferenti nei territori conquistati in Siraq, cerca di rifarsi in terra di Libia e intensificando gli atti terroristici in Europa. In Libia l’IS si assesta con 6 mila uomini nella fascia costiera della Sirte, esattamente a metà strada tra i due governi contendenti. Spende soldi per arruolare a mille dollari al mese i disperati del Sahel e gioca le sue residue carte per la costruzione del Califfato in versione al Baghdadi.

Intanto, l’imperialismo internazionale attende che le cose cessino di essere così confuse, anche se Italia, Francia e Inghilterra lavorano sotto traccia per mantenere quel poco di cui dispongono e per preparare il terreno a nuovi iniziative. Parigi e Roma riescono a garantirsi un poco di rifornimento petrolifero grazie ai finanziamenti alle varie tribù locali, che così garantiscono un minimo di agibilità nei territori petroliferi. In più affittano truppe di contractors che sorvegliano giorno e notte i rispettivi impianti e, non da ultimo, foraggiano le bande criminali perché non ricattino le Compagnie petrolifere e le lascino operare in relativa tranquillità. Parigi e Londra, in attesa di tempi migliori, hanno già mandato in loco tecnici militari e uomini dell’Intelligence per monitorare gli umori dei vari spezzoni della borghesia locale e per influire sulle decisioni dei governi in atto, di quello a venire, sempre che veda la luce, sorgendo dagli abissi di distruzione e di massacri in cui l’imperialismo ha gettato la Libia del dopo Gheddafi.

I contenuti del Piano B

Intanto il caos continua. Nonostante l’ONU abbia scelto il nuovo presidente nella persona di al Serraj, i due parlamenti continuano ad ignorarsi. A Tobruch, in Cirenaica, nell’est della Libia, è insediato il governo uscito vincitore dalle elezioni del 2014, riconosciuto sino a ieri dalla Comunità Internazionale, il cui primo ministro e capo del governo è Abdullah al Thinni, che non vede certamente di buon occhio il neopresidente inventato dell’ONU. A ovest, nella Tripolitania, c’è un governo che rappresenta le milizie islamiste; la coalizione politica che è al potere si chiama “Alba della Libia”, con a capo Khalifa Ghwell. Tripoli, la vecchia capitale, è sotto il loro controllo e ha lo stesso atteggiamento negativo di Tobruch nei confronti di al Serraj, che è stato accolto a suon di colpi di mortaio. In mezzo, nella zona della Sirte, si sono organizzate le forze dello Stato islamico. Il generale Haftar (vecchio generale di Gheddafi, poi diventato oppositore del colonnello, rifugiatosi per anni negli Usa), appoggiato sino a ieri da Washington, si dà da fare in favore di Tobruch contro Tripoli e contro le milizie dello Stato islamico, conducendo una guerra personale che palesa le sue ambizioni di diventare l’al Sissi della Libia e, quindi, digerisce male le scelte imposte dagli organismi internazionali che stanno giocando la carta di al Serraj. Le Brigate di Misurata ondeggiano tra i due poli anche se, ultimamente, hanno portato degli attacchi alle truppe di Tripoli e all’ultimo minuto si sono dichiarate disponibili a sostenere il governo di al Serraj. Le più importanti tribù beduine rivendicano uno spazio politico e un accesso alla rendita petrolifera, minacciando ritorsioni e interferenze sui futuri processi di spartizione.

Inoltre ci sono le pesanti pressioni esterne. L’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati che appoggiano il governo di Tobruch. Il Qatar e la Turchia che, avendo nei Fratelli musulmani il loro referente politico, appoggiano il Governo jihadista di Tripoli. Tutti sunniti, ma ognuno per i propri interessi economici, finanziari e strategici finalizzati ad una egemonia d’area tanto più vitale quanto più la crisi internazionale e la drastica diminuzione del prezzo del greggio stanno mettendo in continua discussione. Allo stato attuale delle cose è difficile pensare che il governo del presidente designato possa avere vita facile in questo marasma di interessi contrapposti. Pertanto il piano B, che prevede la tripartizione della Libia qualora le cose non si mettessero per il “verso giusto”, quello voluto a suo tempo dagli Usa in collaborazione con l’Italia, Francia e Inghilterra, ovvero dall’imperialismo occidentale, è sempre pronto per uscire dal cassetto. Secondo l’impostazione del piano, la Tripolitania andrebbe sotto “amministrazione” italiana, la Cirenaica sotto quella inglese e alla Francia spetterebbe il Fezzan. Il che avrebbe come presupposto la continuazione del caos politico in Libia, il fallimento del governo di al Serraj, da cui l’inevitabilità di un intervento armato per la “stabilizzazione” di questa terra destabilizzata dai precedenti interventi imperialistici. Ovviamente, se un qualche governo compiacente (forse quello stesso di al Serraj) chiedesse un intervento esterno in nome della pacificazione del paese e, perché no, per combattere le milizie del califfo nero di Baghdad - continuando la farsa siriana dove tutti dichiarano di essere presenti per combattere contro il comune nemico, il famigerato Daesh, ma in realtà per nascondere i soliti obiettivi di rapina, di posizionamento, di conquiste strategiche e di aggancio alle maniglie della rendita petrolifera - sarebbe il massimo viatico per la messa in esecuzione del piano B. Tutto filerebbe sulla “giusta” linea prospettata dagli imperialismi europei con il beneplacito degli Usa. All’Italia, ovvero all’Eni, andrebbe il controllo dei terminali petroliferi occidentali, all’Inghilterra quelli orientali e alla Francia quelli meno interessanti del sud, ma, in compenso, avrebbe l’opportunità di sfruttare i giacimenti delle “terre rare” e di vigilare sui paesi subsahariani in concorrenza, come si diceva in precedenza, alla ingombrante presenza cinese. Per l’Italia sarebbe l’occasione di continuare ad essere un partner importante in terra di Libia sia per il petrolio che per il volume di affari. Prima della caduta del colonnello, il valore degli scambi commerciali ammontava a 11 miliardi di euro e vedeva la presenza di ben 200 imprese italiane. La speranza per lo sbrindellato imperialismo italiano sarebbe quella di replicare la condizione precedente, se non di aumentarla, approfittando dei business della ricostruzione post bellica. Per l’Inghilterra sarebbe l’occasione, oltre che per mettere le mani sul controllo del solito petrolio, anche per introdursi nell’area mediterranea dalla quale è fuori dai tempi della crisi del canale di Suez. Intanto, in attesa delle “soluzioni “miracolose di al Serraj, Francia e Inghilterra hanno già inviato sul posto i loro osservatori militari e l’Italia di Renzi, su richiesta dell’uscente presidente americano Obama, concede la base militare di Sigonella per l’invio di droni sui territori libici di eventuale futuro interesse militare. Droni che battono bandiera americana sul dorso e quella italiana sotto la pancia.

FD, 30 marzo 2016
Venerdì, April 1, 2016