Ma la Cina, fra le ombre di “mani visibili e invisibili”, continua a ruggire?

Da Prometeo 11 - Giugno 2014

Il “capital-socialismo” in difficoltà

Quella che fino a poco tempo fa era vantata come una inarrestabile crescita annuale del Pil cinese, portata ad esempio di quanto fosse efficiente il “capital-socialismo” targato Pechino, sta subendo una inversione di tendenza pur mantenendosi ancora ad un livello da far invidia al “maturo” capitalismo d’Occidente. Ma gli ambienti governativi di Pechino ammettono una “frenata”: per mantenere il “progresso” e la “pace sociale” (quella fra… classi dai diversi e contrapposti interessi ma “unite per il bene comune”!) è necessario avere una crescita del Pil annuale almeno all’8%.

Purtroppo in un decennio la crescita del Pil si è quasi dimezzata; i profitti – privati e statali – si sono indeboliti mentre frodi, intrecci di affari malavitosi, truffe, corruzioni e giri di tangenti si sono via via moltiplicati, con scontri di potere all’interno del partito e della diffusa nomenclatura. Fenomeni che nel complesso si tende a soffocare specie quando riguardano imprese statali (anche se nei vari episodi di corruzione i gestori, funzionari governativi e amministrativi, sempre in divisa “socialista”, figurano fra i più coinvolti) mentre le imprese straniere sono nel mirino di denunce e inchieste, e non soltanto per un accentuato “spirito nazionalistico”.

C’è chi ricorda ancora le cifre diffuse due anni fa da Wang Xiaolu, ricercatore della China Reform Foundation, che faceva ammontare l’economia “grigia” del paese a circa 1.500 miliardi di dollari ammassati soprattutto dai più abbienti attraverso evasione, corruzione e lavoro nero (The Economist, 13/10/2012, Special Report on the World Economy). Tenendo conto anche dei circuiti occulti, si avrebbe un quadro esemplare del movimento “socialista” del capitale cinese! A tutto ciò si aggiungono le dichiarazioni dell’Organismo nazionale anti-corruzione secondo il quale nel 2012 sarebbero usciti illegalmente dal paese 1.000 miliardi di dollari (FT, China capital flows: tides are turning, 10/2/2013).

Nonostante qualcuno, fra gli esperti della Banca Mondiale ipotizzasse l’8,3%, la crescita del Pil cinese per il 2013 è stata (ministro della Finanza di Pechino) del 7,7%. Ci si muove fra alti e bassi ai minimi delle cifre decimali; contemporaneamente si comincia a guardare con non poca preoccupazione ai livelli dell’inflazione e dei prezzi delle “merci socialiste”, entrambi in aumento. Tendono al calo invece produzione industriale, consumo elettrico, investimenti specie in capitale fisso, vendite di merci al dettaglio. E rallentano sia le esportazioni sia le importazioni, anche a causa della crisi mondiale. Nel complesso, segnali piuttosto negativi per la “economia cinese”, come tutti ammettono. preoccupando persino il capitalismo d’Occidente (vedi Financial Times e New Yorker). E poiché l’indebitamento dell’economia cinese sarebbe pari al 200% del Pil (2013), mentre era al 125% nel 2008, già si parla del pericolo di una generale deflagrazione col timore di insolvenze nel mercato creditizio.

In proposito, ci si chiede: ma a quanto ammontano i debiti diffusi nel paese? Si azzardano cifre da capogiro pari al 36% del Pil (secondo Credit Suisse), circa 3000 miliardi di dollari. Già nel 2010 fonti governative stimavano una cifra pari ad oltre 10mila miliardi di yuan (1600 miliardi di dollari).

Fino agli inizi del 2013, i governi locali al fine di ottenere prestiti davano in garanzia le terre accumulando debiti astronomici. E nella folle speculazione edilizia si procede tuttora a ritmi vertiginosi, con prezzi alle stelle.

Una improvvisa restrizione del credito (decisa a giugno 2013 dalla Banca di Cina) ha mandato in agitazione la sfera finanziaria, dove per altro i depositi bancari del “popolo cinese” ricevono un bassissimo interesse. Ma una ufficiale crescita dei tassi di interesse aumenterebbe il rischio nei flussi interbancari. Sta di fatto che la restrizione del credito ha portato ad un salto all’insù dei tassi (dal 2 al 10%) per frenare gli eccessi delle richieste di denaro. Si è poi fatto ricorso ad una “liberalizzazione” dei tassi di prestito (quello fissato dalla Banca centrale sarebbe del 3%) con la speranza di avviare una “sana” competitività fra le banche locali nella concessione di prestiti. Intanto i circuiti finanziari “ombra” rastrellano i depositi della piccola e media borghesia concedendo più alti tassi di remunerazione. Il rischio è maggiore, ma l’offerta è allettante per quanti sono attirati dalla illusione del “denaro che crea denaro”. E il “settore ombra” è arrivato ormai a 2,3 mila miliardi di dollari: quasi un terzo del Pil e il 13% del sistema formale.

Il problema rimane quello di far “fruttare” di più i depositi bancari, mentre le imprese statali dovrebbero aumentare le percentuali dei profitti distribuiti come dividendi: per pareggiare (?) i conti si parla di un “moderato” aumento delle tasse su proprietà e beni di lusso. E si aggiungono promesse per interventi, fino ad oggi del tutto ignorati, diretti alla protezione dell’ambiente e delle risorse naturali: introduzione di una carbon tax progressiva e passaggio alle energie rinnovabili. Il problema dell’inquinamento, in particolare atmosferico e specie nelle maggiori città, si sta infatti aggravando.

Secondo un rapporto di economisti cinesi, diffuso da Barclays Capital nel giugno 2013 e sempre in tema di una riforma del sistema creditizio, occorrerebbe l’abolizione di stimoli fiscali o monetari; un taglio dei debiti inesigibili; la liberalizzazione dei tassi di interesse, del tasso di cambio dello yuan e della circolazione dei capitali per integrarsi meglio coi mercati finanziari internazionali. Si aggiunga l’aumento dei prezzi dei servizi pubblici (energia, trasporti, ecc.); meno imprese statali per favorire la concorrenza; un freno alla speculazione immobiliare, alla migrazione contadina e alle ondate di urbanizzazione; la limitazione dei monopoli statali, eccetera. Ad addolcire la pillola, misure che allarghino i «diritti alla sanità, previdenza, istruzione, casa». Interventi suggeriti anche dalla Banca mondiale che sembra condividere il “programma del nuovo socialismo reale”. Il governo cinese – dopo il suo ingresso nel Wto – fa passare tutto come interventi necessari per «costruire una società moderna, armoniosa e creativa». Misure che comportano un ulteriore intrappolamento dell’economia cinese nelle contraddizioni del capitalismo.

Gli sforzi dei sacerdoti della nuova chiesa ufficiale del “capital-socialismo” sono concentrati nel presentare il peggioramento della situazione economica nazionale come una

mini-crisi controllata, orchestrata dalla mano visibile del governo per evitare una crisi più seria, altrimenti inevitabile se si lascia decidere alla mano invisibile del mercato. [Ma niente paura, si afferma, perché questa...] mano visibile opera come regolatore all’interno del mercato, e non contro di esso.

Ed Zhang, The way ahead da China Dayli, 1/7/2013

Siamo o non siamo nel “socialismo” del libero mercato? E l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua scrive:

Dobbiamo stabilire regole di mercato eque, aperte e trasparenti. La questione centrale è la gestione corretta del rapporto tra governo e mercati, dando ai mercati un ruolo decisivo nella distribuzione delle risorse e garantendo un’applicazione migliore del ruolo del governo.

Un vero e proprio gioco da ombre cinesi, condotto per l’appunto da mani visibili e invisibili.

Il Terzo Plenum del Partito comunista cinese (novembre 2013, con i 205 membri del Comitato Centrale e quattro giorni di discussioni), ha cercato di dare una spinta al faticoso cammino di “costruzione” di una economia definita come “socialista” ma che si presenta esattamente come una fotocopia della economia capitalistica dominante in tutto il mondo. Alle prese con una crisi strutturale che sta soffocando il capitale internazionale, senza risparmiare quello cinese, facendo dello strombazzato programma di «riforme strutturali senza precedenti» e tali da ridare la carica al Dragone cinese, un altro copione (con scarsi dettagli specifici) di propositi riformistici volti a «stabilire il giusto rapporto tra governo e mercato: si tratta di lasciare al mercato il ruolo di allocare le risorse». (Così riferisce l’Agenzia stampa governativa Xinhua).

In realtà l’obiettivo è il potenziamento del ruolo imperialistico che il capitalismo cinese si è conquistato e che – di questo si può essere più che certi – difenderà con le unghie e con i denti, e con il sangue di centinaia di milioni di proletari fatti schierare sugli opposti fronti del prossimo teatro di un nuovo scontro bellico mondiale.

Il “riassetto” del settore finanziario è quindi in testa ai pensieri anche della borghesia cinese, nella disperata ricerca di dare ossigeno a un modo di produzione che traballa giorno dopo giorno. Per quanto sopra detto, è evidente come le enormi disuguaglianze di “redditi” (e ricchezze) tra le classi sociali, fra aree territoriali e gruppi etnici, mettano in pericolo il mantenimento della “pace sociale”. La propaganda governativa promette un raddoppio del reddito medio annuo pro-capite entro il 2020; il salario minimo dovrebbe aumentare e almeno 80 milioni di persone uscirebbero dal loro attuale stato di povertà, con miglioramenti del servizio pensioni e sanità. Così recita la propaganda del regime “capital-socialista”.

Ma i faraonici progetti industriali disegnati da Pechino qualche anno fa, stanno incontrando molte complicazioni. Nei settori della siderurgia come in quello elettrico, chimico e petrolifero (raffinazione e distribuzione), si segnalano i primi fenomeni di sovrapproduzione con l’inevitabile seguito di “ristrutturazioni” e di “scontri politici” fra gli interessi di gruppi e fazioni della borghesia al potere. Chiaramente, anche se il teatro principale è quello nazionale, sullo sfondo gli scenari di riferimento sono quelli di una contesa imperialistica mondiale che sta sconvolgendo (per il momento) i mercati internazionali di materie prime, manufatti di ogni specie e monete.

Il Governo di Pechino non può nascondere più di tanto i segnali di preoccupazione specie di fronte a quella che dovrebbe essere la cartina di tornasole del suo “socialismo”, cioè un aumento costante della produzione di merci e delle relative esportazioni. E in Cina le esportazioni diedero segnali allarmanti già quando nel primo semestre del 2013 si ebbe un calo (-3,1) rispetto al medesimo periodo del 2012. Ed era stato previsto un +4%!

L’insieme dei dati che faticosamente trapelano (ufficiali o meno) non sono poi affatto positivi per quanto riguarda i guadagni delle aziende cinesi quotate nella Borsa dove si registrano gli alti e bassi della aziendale “costruzione socialista”. Sono calati – a detta del ministero delle Finanze di Pechino – i profitti (“socialisti”…) delle imprese di Stato; infine, fatto abbastanza insolito per lo sviluppo cinese, sarebbero decine di miliardi di dollari i capitali “stranieri” che si ritirano dal paese del “capital-socialismo”. Si sta diffondendo il fenomeno di “rilocalizzazione” (reshoring) industriale, col ritorno di molti capitali e industrie ai paesi d’origine…

Va altresì precisato che i dati (anche se ufficiali) non sono sempre affidabili poiché il governo cinese li manovra secondo le esigenze della situazione politica nazionale e internazionale; così pure le statistiche sono sottoposte a manipolate revisioni. Restando alle cifre del Pil, per esempio, non è chiaro quanto esso sia effettivamente grande; fra l’altro, secondo i differenti criteri di calcolo adottati, il Pil cinese potrebbe essere uguale alla metà di quello americano. Misurato in dollari, varrebbe addirittura un terzo di quello Usa. Si dovrebbe però aggiungere anche le cifre dell’economia in nero, molto sviluppata in Cina ma ufficialmente riconosciuta solo a bassi livelli. Nel complesso, vi sono sia sopravalutazioni sia sottovalutazioni di comodo, propagandisticamente diffuse da Pechino e dai soci in affari all’estero.

Debiti e passività contingenti

I debiti delle amministrazioni locali ammonterebbero – secondo alcune stime – a 15 trilioni di renmimbi (circa 2300 miliardi di dollari). Le cifre esatte dei debiti accumulati dai governi locali cinesi restano un mistero (Credit Swisse le valuta al 36% del Pil, cioè circa 3000 miliardi di dollari); sono comunque peggiorate da quando, fine 2012, il governo non accetta più dai governi locali lotti di terre in garanzia dei prestiti concessi. Risultato: i debiti non vengono pagati e i “passivi” aumentano.

Alcuni economisti occidentali (Nouriel Roubini) stimano un complessivo debito cinese pari a una cifra di 4.600 miliardi di dollari, molto più della metà del Pil.

Le autorità cinesi, ammettendo alcuni sopraggiunti e imprevisti ostacoli, parlano di un «riequilibrio della crescita», paradossalmente ottenuto proprio grazie alle Banche ombra che forniscono ancora crediti mentre la Banca Centrale Nazionale lamenta una crisi di liquidità a danno di piccole e medie imprese. I pericoli di una crisi bancaria sono sempre in agguato. E sorgono problemi anche per il tasso di disoccupazione, nonostante nel II° trimestre 2013 sarebbero stati “creati” 6,1 milioni di posti lavoro. Sul tutto, però, sovrasta la minaccia di licenziamenti nell’industria se la “crescita” continuasse a rallentare; inoltre più di 7 milioni di neolaureati si apprestano a cercare un’occupazione prevalentemente in un settore, il terziario, ormai diventato a sua volta asfittico. Il ricordo della crisi asiatica del 1998 sembra riproporsi, dietro l’angolo, con forti ripercussioni sulla stabilità sociale.

La China Investmen Corporation (CIC), il Fondo Sovrano più ricco del mondo, amministra – sotto stretto controllo di Pechino – 500 miliardi di dollari ed è alla prese con la necessità (socialista?) di rendere gli investimenti più remunerativi (nell’ultimo anno si sarebbero avute perdite del 4,3%) e quindi trovare in Usa capitali freschi da “movimentare”. Il CIC ha appena ottenuto dallo Stato 30 miliardi di dollari per aumentare le “scarse risorse finanziarie” e se non arriveranno sufficienti profitti, estratti dall’impiego di quelle somme aggiuntive, saranno guai. La concorrenza internazionale vede il primo Fondo sovrano FAFE (State Administration of Foreign Exchange) mettere in campo 3.400 miliardi di dollari e forti investimenti immobiliari.

Lo yuan (unità di conto mentre il renminbi è la moneta ufficiale) quarda nel frattempo ad una sua piena convertibilità, aspirando a diventare la nuova valuta di riserva dell’Asia, assieme a dollaro ed euro. Lo yuan in 10 anni ha guadagnato il 35% sul dollaro, il quale si scambiava ieri con 8,28 yuan e oggi (metà maggio) con 6,23. Così pure nei rapporti con lo yen. Valutazioni monetarie “in positivo” per Pechino, preoccupata a mantenere il flusso di capitali dall’estero. L’interesse è comune, per gli uni e per gli altri, capitalismo privato o statale, nazionale o straniero; tutti immersi nella realtà dominante del mercato globale e nella piena funzionalità ed efficienza (oggi traballante…) delle categorie del capitale: merce, denaro, salario e relativo sfruttamento della forza-lavoro per realizzare la maggior quantità possibile di plusvalore. Questo mentre su Repubblica-AffarieFinanza leggiamo che il tasso ponderato col costo del lavoro in Cina, Usa, Giappone e UE, considerando il cambio reale, vedrebbe lo yuan rafforzatosi del 50% in 10 anni.

Intanto i governi di Corea del Sud, Malaysia, Australia, Indonesia, Bielorussia, Argentina e Brasile hanno stipulato accordi bilaterali con Pechino, stabilendo la possibilità di utilizzare subito lo yuan come moneta di riferimento alternativa al dollaro. La Cina ha fatto valere le proprie posizioni al riguardo anche nella riunione del BRICS tenutasi a Durban nel marzo 2013, al termine della quale i Paesi membri hanno deciso di escludere il dollaro dai loro scambi, dando vita a un ente bancario concorrenziale alle istituzioni di Bretton Woods, controllate dagli Usa.

Condizioni di una società divisa in classi

Mentre la grande e media borghesia (concentrata prevalentemente nella fascia costiera e nelle aree metropolitane di Shanghai, Pechino e Canton) si riempie tasche e conti in banca, il proletariato cinese si trova in pessime condizioni di lavoro e di disaggio sociale. Nel cosiddetto “mondo del lavoro”, il numero degli scioperi è in crescita, soprattutto a causa del trasferimento di molte aziende in distretti “meno costosi” e con (di nuovo) un ribasso dei salari, mediamente di poco superiori a cifre paragonabili a 340 euro mensili. Solo in alcune imprese e settori vengono sbandierati alcuni aumenti salariali, ottenuti con agitazioni operaie ufficialmente disconosciute sia dalle autorità locali sia centrali. Questo avviene soprattutto nelle regioni industrializzate delle zone costiere, aree dove da tempo vi sono state notevoli dislocazioni di insediamenti produttivi; lo stesso per altre zone, specie interne, dove la manodopera è da sempre stata abbondante e a basso costo.

Se esiste uno strato di “aristocrazia operaia” in certe zone e distretti industriali, il suo numero è molto ristretto in rapporto alla enorme quantità di forza-lavoro presente ed operante fra i confini immensi della Cina, spesso in condizioni di vita miserevoli e sottoposta ad uno sfruttamento bestiale. Crescono quindi le proteste operaie, con scioperi, episodi di vere e proprie rivolte, e “incidenti”.

L’alta intensità di lavoro vivo presente in gran parte delle industrie cinesi, regge con difficoltà la concorrenza estera. Un generale aumento dei salari comporterebbe maggiore produttività: almeno un 6% in più all’anno, un incubo anche per il “social-capitalismo” cinese.

Cresce pure il numero di anziani presenti nel paese. Risulterebbero 185 milioni oltre i 60 anni, tutti “in condizioni di povertà, malattia e depressione”. Di essi, più di 40 milioni sopravvivono in media con meno di 520 dollari l’anno (meno 3.200 yuan all’anno - da Milano Finanza, 1 giugno 2013). L’indagine è stata condotta in Cina da una fondazione scientifica appoggiata dal Governo.

Non che negli altri Paesi (più sviluppati…), sotto il potere del capitalismo globale, le cose vadano meglio; ufficialmente persino negli Usa – secondo il Censure Bureau – il tasso di povertà per i “cittadini” oltre 65 anni di età, è dell’8,7% con notevoli percentuali di disabilità e depressione.

C’è poi da notare, ritornando in Cina ed a causa anche della “politica del figlio unico” (oggi si parla di una sua “revisione” per contrastare il progressivo invecchiamento della popolazione…) e della forte migrazione verso le città, che gli anziani sono abbandonati a se stessi e alle prese con i malanni fisici e mentali della vecchiaia; praticamente nelle zone rurali non hanno alcuna assistenza previdenziale (coperture pensionistiche e sanitarie), comunque del tutto insufficiente anche nelle città e nelle zone industrializzate. Questo nonostante 304 milioni di cinesi figurerebbero coperti da minime pensioni, quasi tutte però inadeguate (720 yuan all’anno).

Nonostante la disoccupazione in molte regioni della Cina sia in aumento, ci si lamenta (paradossalmente!) per la poca forza-lavoro dalla quale poter ottenere maggiori quote di plusvalore da destinare all’assistenza delle masse proletarie! Quanto ad intaccare le ricchezze della borghesia, beh, questo non sarebbe il “socialismo” che intende praticare il governo di Pechino! Così le finanze pubbliche non possono sostenere “oneri maggiori”, ma anzi sarebbero già in una zona di pre-allarme. Vi sarebbe infatti da sbrogliare una difficile situazione – la stessa in Occidente – consistente in quella “crisi di liquidità” che si concretizza nella difficoltà di concedere prestiti (poiché senza denaro non si andrebbe da nessuna parte…) da parte della Banca del Popolo. Alcuni sportelli bancari nel paese avrebbero chiuso ogni concessione o, se fanno prestiti, applicano condizioni molto severe. Così pure, e conseguentemente, anche le Banche ombra faticano nell’alimentare il mercato immobiliare e la speculazione. Ed il “settore ombra” manovra ben 2,3 mila miliardi di dollari, un terzo del Pil.

Chiaramente questa situazione riflette l’altra più generale (e determinante) difficoltà che si presenta anche in Cina nel “raccogliere” maggiori e necessarie quantità di plusvalore dai settori produttivi i quali a loro volta reclamerebbero più investimenti. I costi per questi finanziamenti sono in salita e sui loro “rendimenti” regna un incerto futuro: lo spiega una nota apparsa poco tempo fa su Repubblica-AffariFinanza, segnalando un forte aumento delle “accettazioni bancarie”, cioè garanzie a breve con le quali si possono saldare i conti anche mancando liquidità. Sulle loro ricevute si applica un tasso di sconto che è già salito fino al 9,3% nel tentativo di dissuadere dall’incasso immediato i possessori di titoli, prima della scadenza e rinunciando così al loro pieno valore.

Abbassandosi i rendimenti (ahi, quel saggio di profitto tendenzialmente in ribasso!) gli investimenti rallentano e uno “sviluppo” dei consumi interni si fa più che problematico. E comincia a manifestarsi l’incubo di una massiccia disoccupazione causata da un “rallentamento” della produzione di merci. La quale reclama investimenti “sani” e innovazioni industriali….

Dunque, una economia spacciata per “socialista a metà” ed in evidente “frenata”. Col “rallentamento” produttivo aumentano, a milioni, i disoccupati mentre si allontanano i sospirati “riequilibri dell’economia”. I tassi di crescita a due cifre sono finiti, e poiché anche il Fmi raccomanda “importanti riforme necessarie”, eccoci (da un rapporto per Barclays Capital del 27 giugno 2013) di fronte alla “nuova politica economica cinese”. Ovvero si ribattono i chiodi di una razionalizzazione dell’operato delle banche, mirante ad una integrazione coi mercati finanziari internazionali; un aumento dei prezzi dei servizi pubblici (dall’energia ai trasporti); smantellamento della monopolizzazione dei settori strategici di proprietà statale (in gioco potenti interessi economici e politici).

Fa il suo esordio in una proposta di governo anche la liberalizzazione dei tassi bancari, finora troppo bassi e poco remunerativi dei depositi, tanto da costituire un vero drenaggio di risorse dai risparmiatori alle banche e ai loro investitori “amici”. Dovrebbero, secondo gli “esperti” cinesi, liberare l’economia da tutti i lacciuoli che ne inceppano lo sviluppo. E nel tentativo di mantenersi sulla rotta di un giusto e sano “profitto socialista”, in alcune delle zone “speciali” (quelle capitalisticamente più avanzate, fra cui Shenzhen) si stanno appunto avviando ampie liberalizzazioni sia mercantili-commerciali che finanziarie, facilitando gli investimenti di capitali e i movimenti affaristici per le Banche estere. Con lo yuan che va allargando la sua convertibilità con le altre monete attraverso la liberalizzazione dei tassi di interesse. Va detto che sono in relativa crescita anche gli investimenti di capitale cinese all’estero, specie in Europa dove la Cina è diventata il terzo investitore dopo Usa e Giappone, con un aumento del 60% rispetto al 2012.

Resta fra i principali obiettivi quello di ottenere la piena convertibilità del renminbi, approfittando delle difficoltà che appesantiscono il dollaro, anche se al momento la Cina stessa si vede ancora costretta a sostenere il debito Usa. Di certo una moneta più forte significa anche metter le mani su molte materie prime (petrolio in primis) a prezzi più allettanti. Infine è il momento di avventurarsi nel mercato finanziario mondiale: non soltanto buoni del Tesoro (americani) o azioni, ma anche l’acquisizione di aziende, terreni e immobili all’estero.

La «costruzione di una società moderna, armoniosa e creativa» ha come via obbligata il libero mercato: una pietra miliare, dopo l’ingresso nel Wto. La rotta e le sue coordinate sono per tutti obbligate, con una navigazione sulle onde in tempesta dell’oceano capitalista. Soprattutto oggi, quando i mercati scricchiolano sotto i colpi della crisi. Ed il «grande urto per il cambiamento» mette in gioco enormi interessi, coinvolgendo Banche, Imprese statali e private, oltre a quel gruppo, in aumento, di ricchi “capital-socialisti”.

Il costo del lavoro e la produttività

Il costo del lavoro è una categoria economica di fondamentale importanza anche per il “socialismo cinese”. Secondo informazioni circolanti fra gli stessi economisti di Pechino – in veste di «rappresentati scientifici della ricchezza» come Marx qualificava tutti quelli presenti nella borghese società – quel costo in Cina, e sempre considerando i bassi livelli in cui si trovava agli inizi, sarebbe in aumento fino ultimamente ad una stima del 15% annuo. Dati ufficiali…

Sul salario medio mensile (tutto compreso) degli operai cinesi, circolano varie cifre fra le quali quella attorno agli 820 dollari. Su Corriereconomia (11/11/2013) si leggeva di un reddito pro-capite annuale, per chi lavora in città, di circa 24.560 yuan (3mila euro). Il reddito medio pro-capite di tutti i cinesi, ormai 1,4 miliardi fra tanti poveri e pochi ricchi…, risulterebbe poi di 6.188 dollari annui. Altri numeri: secondo l’Ufficio Nazionale di statistica cinese, i redditi medi urbani sarebbero di circa 4.000 dollari l’anno mentre quelli rurali non superano i 1.300. Circola un altro dato, questa volta pari a un reddito annuo medio pro capite di circa 2.500 dollari. E non mancano punte di ricchezza eclatanti: basti dire – a conferma della “via al socialismo cinese” – che in Parlamento siedono 83 miliardari. Al servizio del popolo, nel quale 128 milioni (numero ufficiale) di individui vivono sotto il livello di povertà (366 dollari l’anno). I miliardari cinesi (in dollari) erano, una decina di anni fa, solo 15; nel 2011 erano 251 (Hurun Report, 24-9-2012). La Cina contende agli imperialisti Usa il primato fra i paesi più diseguali del mondo!

Per dare uno “slancio socialista” al Pil, il tentativo sarebbe quello di far aumentare con qualche ritocco salariale i consumi interni che – sempre secondo dati ufficiali – non avrebbero mai superato il 35% del Pil. Un “peso” che si tenterebbe di portare al 45-46% (The Economist, 2013) o addirittura al 48%. Quanto al livello degli investimenti, data l’arretratezza della Cina nelle infrastrutture, vi sarebbe spazio per una loro crescita (sempre da un punto di vista e per finalità del tutto capitalistiche). Restano insufficienti gli sviluppi di servizi quali sanità, educazione, finanza; assorbirebbero al presente solo il 34% della forza lavoro totale rispetto all’81% negli Usa (Xu Qiyuan, 2013). Un dato, quello riguardante gli Usa, che spiega la ormai disperata ricerca da parte di Washington per accaparrarsi quote aggiuntive di plusvalore, da strappare ovunque sia possibile sfruttare direttamente o indirettamente forza-lavoro e in ogni angolo del mondo, per mantenere in vita i servizi del famoso terzo settore, purtroppo (per il capitale) improduttivi di plusvalore. Si tratta – sia chiaro – della sola strada percorribile per il capitalismo, nella sua fase imperialistica, in tutti i Paese e Continenti; strada lungo la quale anche la Cina sta marciando a tappe forzate.

Cercando di raggiungere cifre e percentuali americane (almeno quelle riferite al passato di una super-potenza oggi a sua volta in difficoltà), si cerca di ottenere anche in Cina la maggiore estorsione possibile di plusvalore dalla forza-lavoro produttiva. Soprattutto alzando il basso livello tecnologico in favore di un aumento del plusvalore relativo, visto che l’estorsione di plusvalore assoluto comincia ad incontrare limiti. Ma saranno inevitabili le dirette conseguenze che il capitalismo più avanzato ben conosce, cominciando dalla caduta del saggio medio di profitto.

A proposito dei costi determinanti la “competitività” manifatturiera, secondo la Boston Consulting Group, quelli cinesi dal 2004 al 2014 si sono via via avvicinati a quelli americani. Da una competitività cinese pari a +14% rispetto agli Usa (costi lavoro, energia, produttività e tassi di cambio), oggi siamo al solo +4%. Ed ecco che, pure in Cina, sta prendendo l’avvio un processo di delocalizzazione di alcune aziende industriali le quali si sposterebbero là dove (come nel Vietnam del Sud, Laos, Bangladesh e altri paesi del Sud Est Asiatico) vi sono più bassi costi del lavoro e quindi situazioni economicamente vantaggiose per gli investimenti di capitale. Alcune merci del made in China cominciano a non essere più tanto convenienti se prodotte in loco (anche a causa di una rivalutazione progressiva della moneta cinese). Qualche capitalista, fin qui “ospitato” dal Governo di Pechino, cerca altri lidi…

Occupazione – Disoccupazione

Le ambiguità, reticenze, occultazioni e manipolazioni adottate da Pechino sono poco affidabili nel verificare gli andamenti dell’economia e le condizioni della società cinese. Lo stesso accade per quanto riguarda i conteggi della occupazione-disoccupazione presente in Cina. Con dati ufficiali che escludono fra l’altro alcune categorie di uomini e donne pur senza lavoro né salario; viene inoltre statisticamente ignorata la sempre più numerosa “sottoclasse urbana” composta da lavoratori provenienti dalle campagne e “cittadini caduti in miseria”.

Aumentando la produttività del lavoro, con cicli di accumulazione più dinamici, il numero di operai in rapporto alla popolazione totale tende ad abbassarsi e la massa dei disoccupati non può che aumentare specie nei settori produttivi. E senza un salario (spacciato per “reddito”), il proletariato urbano, e soprattutto quello delle zone agricole, non può “consumare” merci dando modo al capitale di realizzare il plusvalore in esse contenuto.

I centri di una produzione spinta ad alti livelli di automatizzazione, con macchine a ciclo avanzato e moderna tecnologia, sono in aumento, sia pure accanto ad un ancora notevole numero di attività industriali basate sull’utilizzo di molta manodopera. Nel primo caso si richiede una quantità di capitale sempre maggiore in confronto ad un calo del vivo lavoro utilizzato. Questo vale anche per i settori impiegatizi dell’amministrazione pubblica e privata, dove l’espulsione di milioni di addetti a seguito della introduzione dei sistemi informatizzati sta diventando una realtà.

Indubbiamente va pure tenuto conto che non solo la crisi mondiale si fa sentire anche in Cina, ma che altresì sono aumentati gli spazi di manovra per rivendicazioni salariali e condizioni di lavoro migliori. Sia i salari che certi “benefici” hanno avuto un avanzamento, specie in alcune zone e imprese industriali: si parla di una media del +10% annuo dagli inizi del 2000. Questo mentre, in Occidente, i salari restavano pressoché fermi.

L’emigrazione dei contadini

Ancora nel 1978, l’80% dei cinesi era composto da contadini sparsi in milioni di villaggi. Ora sarebbero meno del 50%; nell’ultimo decennio sono stati cancellati 900mila villaggi rurali ed oggi ne rimangono solo dodicimila. Dal 1990 al 2008 sono stati strappati dalle loro terre di origine 148 milioni di contadini: sono quindi calcolati in centinaia di milioni (oltre 250) i cinesi che fino ad oggi dalle zone agricole si sono “trasferiti” nelle città e nelle zone più industrializzate, verso le fabbriche della costa oceanica. E fra i motivi di questa vera e propria fuga dalle campagne vi è stato il sequestro (ufficialmente ammesso) della terra o la demolizione della casa a danno di 64 milioni di famiglie contadine. Il che spiega anche il dilagare della corruzione nel commercio dei terreni confiscati, sotto l’arbitrio del controllo esercitato dai funzionari locali e indirizzato a speculative manovre (e affari) di privatizzazione.

Lo sviluppo industriale delle zone costiere e del corridoio Pechino-Tianjing al nord, e nello Guangdong al sud, ha originato l’imponente emigrazione dalle zone centrali e occidentali del paese; un flusso di uomini e donne destinato a durare ancora per i prossimi decenni, con spostamenti entro il 2030 previsti ad oltre 150 milioni di persone.

Tornando ai consumi interni, sono almeno 600 milioni i cinesi esclusi dalla condizione di “clienti” fissi, senza una disponibilità di denaro tale da assorbire parte degli aumenti di produzione mercantile e garantire così profitti adeguati ai capitalisti manifatturieri. Parliamo di un proletariato che viene sfruttato in modo bestiale, tenuto in condizioni inumane, pagato alla giornata (fino a 10/12 ore di lavoro), anche con lavoro notturno e privato di minimi “diritti”. Senza registrazione urbana, inoltre, non si può accedere al… welfare (“hukou”, servizi sociali) dai quali sarebbero esclusi circa 300 milioni di neo-urbanizzati. (Seguiamo uno studio recente della Università Tsinghua di Pechino.) Ed è così che un operaio proveniente da zone rurali e stabilitosi a Shenzhen non usufruisce di alcuna assistenza sanitaria, previdenza, alloggio pubblico, scuola per i figli…

Basterà ricordare come esempio gli stabilimenti della tanto chiacchierata Foxconn, la fabbrica dei suicidi(1), il colosso taiwanese dell'elettronica che assemblea prodotti per Apple, Sony e Nokia; oppure lo stabilimento di Zhengzhou, nello Henan. Da notare che nella zona della provincia di Guangdong sono in vigore particolari vantaggi per le aziende: esenzione fiscale, terreni a basso prezzo, facili procedure per le esportazioni di merci. Nei cantieri edili ai margini dei grandi conglomerati urbani del Sud, il Delta del Fiume delle Perle, è imperante la filosofia economica predicata al seguito della globalizzazione da parte delle multinazionali, dal Fmi e dal Wto. Pechino vi si è adeguata perfettamente e gli operai-contadini sono finiti nelle fauci del Dragone cinese al servizio del capitale e del suo sviluppo mondiale.

Dal 2002 la Cina è diventata il primo produttore mondiale di decine di prodotti, non tutti certamente utili, che il “consumismo” ha imposto sui mercati di tutto il mondo: lettori dvd, macchine fotografiche, abiti, frigoriferi, condizionatori, motocicli, eccetera. Nel 2006 i prodotti tecnologici rappresentavano il 56% delle esportazioni complessive; l'export di tecnologia avanzata cinese si trova al secondo posto dopo quello statunitense. Non solo: nel 2007 la Cina aveva superato il Giappone diventando il secondo investitore mondiale di capitali in sviluppo e ricerca.

E così si è ampliato in molte zone della Cina il fenomeno dei mega-dormitori-prigione nei quali viene stipata la inesauribile manodopera sottopagata. Soltanto nel campus di Longhua, Shenzhen, sempre della Foxconn, si parla di una presenza di 430mila operai od aspiranti tali. Per loro «non c'è futuro come lavoratore in città, ma non ha alcun senso tornare al villaggio» dal quale sono arrivati. Protagonisti: i nongmingong, i contadini migranti verso le mega-aree urbane anche interne della Cina, e che non potranno più ritornare alla loro terra. Si tratta di almeno 200 milioni di operai ex contadini i quali, a partire dalla metà degli anni '90, hanno abbandonato le campagne per trasferirsi nelle città costiere della Cina a sperimentare il lavoro salariato, in un processo di proletarizzazione che viene però definito “incompiuto”. Secondo la ONG Human Rights, in Cina sarebbero 180 milioni gli individui occupati, in parte giovani donne sfruttate con salari cinque volte inferiori a quello minimo. Aumentano al ritmo di circa 10 milioni in più all’anno e sono esclusi da protezioni sociali, cure sanitarie, istruzione. Questi migranti sono in maggior parte analfabeti, considerati “sottocittadini” e senza “certificati di residenza”. Sono dei “fuori classe”, secondo la Accademia cinese delle scienze sociali; sottoposti ad una specie di apartheid sociale, che li esclude anche dal sindacato ufficiale cinese, l’ACFTU (All-China Federation of Trade Unions). Per questo si creano dei “collettivi sindacali” in contrapposizione al Sindacato ufficiale; piccoli gruppi di lavoro, collettivi non governativi con base sui luoghi di lavoro, prevalentemente a Shenzhen, Canton e Pechino. Operano fra molte difficoltà cercando di trovare un linguaggio comune per far valere le proprie istanze, lottando contro lo stesso sindacato, con fiammate improvvise di rabbia che sfociano anche in qualche pestaggio tra lavoratori e sindacalisti.

In quel caso, Pechino non parla di “proteste” bensì di “incidenti di massa”, temendo l’allargarsi pericoloso di “disordini sociali” che, col solo ruolo “consultivo” riconosciutogli dal Governo, il sindacato non riuscirebbe a contenere. E i funzionari sindacali sono costretti ad intervenire, sì, ma per ristabilire l’ordine in fabbrica.

Si tratta di un vasto serbatoio di manodopera a basso costo. «A parità di lavoro, un mingong guadagna meno di un operaio, lavora di più e non ha gli stessi diritti», dichiara Lu Xueyi, presidente della Associazione cinese di sociologia. Risultato: nella città-vetrina del capitalismo cinese, Shenzhen, il 70% dei lavoratori è costituito da mingong provenienti dalle campagne interne del paese: lo stesso per il 35% della forza-lavoro del Guangdong, la provincia più ricca della Cina (capoluogo Canton), dove chi lavora ha un “reddito” mensile al di sotto dei 1000 yuan, rispetto a quello medio di 1675 yuan per gli operai con permesso di residenza.

La loro emarginazione sociale e il loro isolamento sono anche il risultato di una discriminazione in atto addirittura fra gli stessi migranti, a seconda delle province da cui provengono e dal dialetto che parlano. Questi mingong (contadini migranti) subiscono ogni tipo di vessazione, costretti persino a pagare maggiori imposte. Ed a proposito di norme sul lavoro, va detto che gran parte delle imprese cinesi si guarda bene dall’applicare le poche regole esistenti: una inchiesta governativa del 2007 segnalava “infrazioni” da parte dell’80% delle imprese esaminate. Niente contratti di lavoro né indennità di alcun tipo né cure mediche né contributi pensionistici, oltre a salari al di sotto del minimo per sopravvivere. (De Rambures, 2013) (2)

Va pure aggiunta la notevole diffusione in Cina del lavoro minorile e – come abbiamo visto sopra – la proibizione di organizzazioni sindacali indipendenti, che non siano cioè strettamente ossequienti a svolgere compiti di controllo e di repressione delle proteste sui luoghi di lavoro. Sono quindi costituzionalmente illegali gli scioperi (il diritto di sciopero è stato abolito nel 1982) e le agitazioni, di cui per altro si ha qualche notizia, contro licenziamenti e insopportabili condizioni di lavoro, bassi salari e orari di lavoro massacranti. La Federazione nazionale dei sindacati cinesi (Zhonghua quanguo zonggonghui) è assoggettata alle decisione dei vertici dello Stato e svolge un ruolo sostanzialmente “consultivo”. E mentre “il mercato regola l’occupazione e il governo la stimola”, il sindacato sorveglia affinché tutto vada a buon fine… per il “profitto socialista”.

Milioni di lavoratori che sono in condizioni riconducibili ad una vera e propria disoccupazione, vengono poi considerati e definiti come «rassegnati, pensionati interni o anticipati, in ferie lunghe», eccetera. Addirittura sono ritenute persone fortunate alle quali – si dice – viene mantenuto un posto di lavoro (in pochi casi con un caritatevole sussidio) per un domani che nessuno sa quando verrà.

Con altre appropriate manipolazioni di calcolo (mentre si amplia il fenomeno della cosiddetta “disoccupazione nascosta” (yinxing shiye), una vera e propria realtà parallela, si ottengono tassi di disoccupazione urbana inferiori alla realtà, a meno del 5%, con un numero complessivo dei disoccupati che si afferma essere attorno ai 9/10 milioni. Quella statisticamente dichiarata come “disoccupazione urbana registrata” (chengzhen dengji shiye renshu) conteggia soltanto chi ha una residenza che non sia agricola; le persone in età compresa tra i 16 anni e i 60 anni ma con… voglia di lavorare; quelle registrate presso gli appositi uffici. Gli altri non figurano come disoccupati, compresi centinaia di migliaia di proletari e contadini anziani, deboli, feriti, malati e disabili, oppure alle prese con gravi difficoltà in famiglia.

Sono quindi esclusi tutti i disoccupati nelle zone agricole, i lavoratori migranti (nongmingong) che abbiano qualche lavoro anche se per periodi molto brevi, i neolaureati e infine i lavoratori “scaricati” dalle imprese di Stato. Si è valutato che il tasso di disoccupazione tra i laureati sia del 30%, mentre quello tra i diplomati delle scuole professionali del 60%.

Si arriva a questo punto ad introdurre la categoria dei lavoratori xiagang, e soltanto i xiagang più recenti vengono riclassificati come comuni “disoccupati”. Il termine letteralmente significa «sceso dal posto di lavoro» e indicherebbe i lavoratori licenziati dalle imprese di Stato. Sarebbero, secondo le fonti cinesi, quei «lavoratori che a causa della situazione produttiva ed operativa delle loro unità hanno lasciato il posto di lavoro (di loro spontanea volontà! – ndr) ma mantengono ancora un rapporto lavorativo con i datori di lavoro originari». In parole povere, vengono fatti figurare come dipendenti tenuti all’esterno delle aziende in attesa di rientrarvi, sempre se i profitti dell’azienda lo consentiranno o se questa non è già fallita! Lo stesso vale per i versamenti dei contributi ai fondi di previdenza sociale ed a servizi quali – nel migliore dei casi – un minimo di cure mediche, conservazione dell’alloggio, frequentazione della mensa in fabbrica, ecc.

La realtà è quindi quella del formarsi di una “sottoclasse urbana” del proletariato cinese, assieme ai lavoratori migranti e ai poveri che si aggirano nelle periferie o per il vasto territorio cinese. Riguardo al numero effettivo dei lavoratori xiagang, esso di certo supera abbondantemente i 10 milioni (erano 9 milioni 900 mila persone nel 1997 quando le “privatizzazioni” industriali cominciarono ad estendersi). Vengono poi applicati altri collegati criteri di frazionamento, ovvero la esclusione dei lavoratori che si rifiutano di entrare a far parte di burocratici “centri di rioccupazione”; inoltre quelli che hanno firmato accordi riguardanti un particolare trattamento previdenziale e altre amenità del genere (compresa la mancanza di qualche certificato o la sua presentazione in ritardo…). Con abbondanti dosi di retorica e di demagogia, si esaltano nel contempo effimeri “progetti per la rioccupazione” e promesse di “assorbimento interno” dei lavoratori in esubero, sotto l’insegna di una “ottimizzazione di utilizzo delle risorse umane”. Esistono quindi numerose categorie di lavoratori sostanzialmente riconducibili alla disoccupazione che però vengono etichettate con differenti definizioni, quali “riassegnazione, pensionamento interno o anticipato, ferie lunghe”, oppure, fra le più originali: “i due non si cercano, fermare il salario, mantenere il posto”, eccetera.

A proposito dei sussidi di sopravvivenza, là dove sono concessi essi vengono immediatamente sospesi se il lavoratore rifiuta per due volte un qualsiasi lavoro che gli viene eventualmente offerto dal “mercato del lavoro”, dove sono dominanti tutti i soprusi e le discriminazioni immaginabili. E sulle bandiere del “nazional-socialismo” cinese sta scritto che «i lavoratori scelgono autonomamente il proprio mestiere, il mercato regola l’occupazione, il governo la stimola»!

Fra i “migranti” in cerca di un lavoro salariato per sopravvivere, sono sempre più numerosi i giovani; fra di essi molti studenti delle scuole professionali, al massimo 18 anni, i quali devono lavorare dai 6 ai 12 mesi come apprendisti in una fabbrica.

Alcune di queste informazioni sono tratte dalla rivista Mondo cinese di aprile/giugno 2008, dove sono citate molte fonti quali libri, articoli, documenti. Dal giugno 2010 è però diventata titolare della rivista la Fondazione Italia-Cina, dalla quale filtrano notizie d’altro tipo…

E’ dalla rivista citata (2008) che si apprende come la disoccupazione delle zone rurali possa essere suddivisa in quattro principali “tipologie”: 1) contadini con terreni espropriati; 2) insegnanti licenziati dopo la “razionalizzazione” amministrativa; 3) lavoratori licenziati da imprese nei comuni e nei villaggi; 4) migranti che rientrano ai loro villaggi dopo una esperienza urbana negativa. Questi ultimi già nel 2003 erano stimati ad oltre un milione e mezzo. Fonti più “ufficializzate” dicono che i vasti fenomeni di questa mobilità forzata sarebbero stati in parte assorbiti, ampliando le grandi dislocazioni dei lavoratori a livello geografico e settoriale, e risolvendo la maggior parte dei problemi dipendenti dalle nuove condizioni di lavoro di vita. Ma ci si guarda bene dal dire “in quale modo”…

Da notare che anche nelle singole fabbriche avviene una continua rotazione (flessibilità e precarizzazione…) dei lavoratori impiegati nei processi produttivi. Secondo le medesime fonti, negli ultimi anni la produzione delle merci cinesi sarebbe aumentata mediamente del 10% all'anno e la produttività industriale del 9%. Va tuttavia osservato come i dati riguardanti gli aumenti della produttività industriale sopra citati, possano apparire in parte contraddittori: se la produttività e la produzione salgono più o meno della medesima percentuale, non dovrebbe salire l'occupazione, ma il fatto è spiegato dall'incremento enorme degli investimenti per impianti e infrastrutture, passati dal 35% al 50% del PIL negli ultimi trent'anni (cioè a partire dal decollo economico cinese): sono questi lavori nelle infrastrutture che hanno fino ad oggi assorbito un gran numero di operai.

Così pure gigantesco è il fenomeno della urbanizzazione, che ha già riguardato la costruzione di un'area in totale pari a quella dell'intero Piemonte soltanto nel periodo dal 2006 al 2010, e con otto volte il numero degli abitanti presenti nella regione italiana. Secondo l_'Economist_, un miliardo di cinesi sarà urbanizzato entro il 2030, con città mediamente di 20 milioni di abitanti, mentre già oggi si hanno almeno 50 città con più di un milione di abitanti. La municipalità di Chongqing ha raggiunto 38 milioni di abitanti e cresce di mezzo milione al mese. Il tasso di urbanizzazione (forzata) è oggi in Cina ufficialmente del 53%. Il Governo annuncia che entro vent’anni nelle metropoli sarà stipato il 75% della intera popolazione cinese. L’obiettivo è quello di concentrare nelle città una massa di consumatori costanti di merci.

Una crescita da caos e da effetti ambientali ed inquinanti disastrosi. E si ingigantiscono le strutture amministrative e tutte quelle sfere (scolarizzazione a parte) che rappresentano lo sciupio sociale del capitalismo. Intanto, però, i consumi privati sono in diminuzione rispetto al Pil. La legge della miseria relativa crescente è dunque valida ovunque e sempre.

Imprese statali

Fino a qualche anno fa, era un dato piuttosto evidente quello riguardante la inefficienza industriale delle imprese statali, sia dal punto di vista qualitativo dei loro prodotti e della produttività del lavoro sia per i margini di profitto. Occorreva quindi, per garantire una “giusta remunerazione” al capitale impiegato, procedere alla instaurazione di un sistema imprenditoriale moderno, altrimenti la via capitalistica al “socialismo” cinese sarebbe naufragata in partenza. La prima misura adottata fu quella di abbandonare le piccole imprese, meglio gestite dai privati…, e mantenere in funzione solo le grandi. Nel 1997 la nuova linea politica adottata dal XV° Congresso del Partito comunista iniziava la privatizzazione o la bancarotta e la chiusura delle imprese statali di piccole dimensioni.

Per rendersi conto dell’entità delle somme di capitale in ballo, nel 2011 le compagnie di proprietà statale hanno intascato utili netti pari a 160 miliardi di dollari, ma hanno sborsato in dividendi solo 10 miliardi. (Peterson Institute for International Economics citato in Wall Street Journal, “China Tackles Income Divide”, 5/2/2013).

Nella seconda metà degli anni Novanta furono a migliaia i fallimenti, le fusioni e ristrutturazioni industriali decise dai vertici dello Stato, con milioni di lavoratori lasciati per strada. Vere e proprie ondate di esuberi.

Riportiamo alcuni dati, in parte ufficiali. Tra il 1978 e il 2004 le imprese statali chiuse sono state all’incirca 40.000; i lavoratori licenziati tra il 1996 e il 2001 sono stati 53 milioni (Fishman, 2005). Altre ondate di licenziamenti hanno seguito la crisi del 2008; si parla fra l’altro di 35 milioni di persone costrette ad abbandonare le province costiere (dove si produce gran parte delle merci esportate verso i paesi più “sviluppati”) ed a far ritorno nelle campagne. Parte di essi hanno trovato un altro lavoro, ma comunque la dislocazione geografica dei settori produttivi è stata molto rilevante.

Altri dati, questi tutti “ufficiali”: nel 1993, inizio delle “riforme”, risultavano occupate nel settore statale e in quello “collettivo” circa 141milioni300mila persone; di queste, entro il 2006, più di 72milioni350mila furono praticamente licenziate. Negli altri settori, privati, e nel medesimo periodo l’occupazione sarebbe aumentata da 5milioni360mila posti di lavoro a 42milioni640mila. Mancano all’appello circa 30 milioni di persone precedentemente licenziate nel settore statale e non riassorbite da alcuna altra parte. Un esercizio di prestidigitazione del “social-capitalismo”, poiché la disoccupazione ufficiale in quel periodo risulterebbe aumentata solo di poche centinaia di migliaia di persone, attestandosi attorno al 3%!

Concludiamo questa panoramica del “nazional-socialismo” di Pechino constatando che il Dragone cinese sta sputando più fumo che fiamme. Con preoccupanti colpi di tosse.

Davide Casartelli

(1) La Foxconn, specializzatasi nella produzione di componenti elettronici, la metà di quelli mondialmente prodotti, concentra nei suoi 30 stabilimenti circa 400mila dipendenti. Sottoposti a ritmi produttivi massacranti: nel solo 2010 i lavoratori migranti che si sono suicidati sono stati 18, (giovani fra i 17 e i 25 anni d’età). La giornata di lavoro dura quasi sempre almeno 12 ore; la disciplina è assoluta, di tipo militare. Le pause di “riposo” si trascorrono in dormitori aziendali collettivi: una brandina e una tenda.

(2) Recentemente alla Yue Yuen Industrial Holdings Limited di Guangzhou migliaia di operai sono scesi in sciopero per settimane per i mancati versamenti dei contributi sociali (pensioni, assicurazioni malattie). Un problema molto diffuso – afferma il China Labour Bulletin di Homg Kong: «Vi sono casi in cui le società pagano una piccola parte degli stipendi, mentre altre non pagano nulla. Molte fabbriche stanno chiudendo, si trasferiscono o cambiano proprietà…». Ovunque interviene la polizia antisommossa, con bastoni e scudi.

Sabato, April 2, 2016

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.