Ciò che resta di Castro

Con l'avvenuta scomparsa di Castro, si riaccendono le luci dei mass media su personaggi e accadimenti di oltre mezzo secolo di storia, con i consueti accostamenti ad una realtà spesso artefatta e scissa in due versioni ideologicamente contrapposte. La prima incentrata sulla figura del “Lider Maximo”, il “rivoluzionario eroico e sincero, alfiere della liberazione del Terzo Mondo”; la seconda fondata sul personaggio di uno “spietato dittatore calpestatore di diritti umani”. Ma sugli interessi imperialistici che le due versioni nascondono con interpretazioni assecondanti il proprio tornaconto, il buio non si dirada; si tace e per l’occasione si riprendono le contrastanti considerazioni sull’operato del “fu” guerrigliero cubano. Valutazioni che, sia positivamente sia negativamente, danno per scontata la sua qualificazione ideologico-politica come “comunista”, tanto formalmente quanto sostanzialmente, e così viene presentata la caratterizzazione politico-economica del sistema “creato” a Cuba, a seguito quindi di quella che tutti proclamano essere stata una rivoluzione comunista. Nulla di più falso in tutto questo. E lo dimostra chiaramente, persino superficialmente, la persistente peculiarità capitalista e borghese dello Stato dominante a Cuba, dove la sua natura, la sua struttura (con la fondamentale presenza di tutte le categorie economiche marxiste che definiscono il capitalismo), viene spacciata come il risultato di una “Rivoluzione che si perfeziona e che viene resa strategicamente viva” giorno dopo giorno…. Mostrando, appunto, i suoi contenuti capitalistici e le sue forme borghesi.

La profonda crisi che sta rodendo il capitalismo, in ogni paese e continente, costringe i vari governi borghesi a rivedere relazioni politiche e rapporti commerciali. I paesi più deboli (come Cuba) hanno perso gran parte del sostegno fin qui goduto da parte di chi era interessato a farlo: l’Urss, prima della sua implosione, e poi, sempre in riferimento a Cuba, il Venezuela del “petroliere” Chavez. Accade lo stesso per il Brasile, mentre la Cina, ideologicamente (ma soprattutto commercialmente) avvicinatasi all’Avana al posto dei russi, comincia ad avere anch’essa non pochi problemi. Una situazione preoccupante per Cuba, costretta a porre come inevitabile un’apertura verso gli odiati Usa, a loro volta più che “bisognosi” di aprire porte e finestre su nuovi sbocchi sia in merci sia in capitali. Da anni soffia aria di “nuovi accordi storici” non solo con Cuba ma anche con altri “nemici” di un tempo, sorvolando sul fatto che gli Usa sono pur sempre a tutt’oggi il primo fornitore alimentare di Cuba e fra i principali soci in affari commerciali.

La scomparsa fisica, ridottasi da tempo a valore solo simbolico, del “Lider Màximo del popolo” potrebbe avere qualche effetto positivo sul momentaneo disgelo in atto fra Cuba e gli Usa, ma una incognita resta l’incomoda presenza del nuovo presidente americano. E l’alternarsi di episodi di momentanea distensione politica sono poi sempre soggetti a possibili interruzioni a seguito di un aggravarsi di esplosive tensioni socio-economico-politiche, nell’instabile e incontrollabile situazione economica e finanziaria internazionale.

Andando a ritroso nel tempo, va ricordato che la “ribellione” militarmente organizzata da Castro contro Batista e il suo “comitato d’affari” a quei tempi in carica, non fu alle origini anti-statunitense. Si trattava soltanto di mettere un freno alla dilagante, esagerata e non più controllabile corruzione nazionale in atto, che rischiava di travolgere tutto e tutti. Castro, alla guida dei guerriglieri che calarono sull’Avana cavalcando il malcontento quasi generale, pose fine alla dittatura sanguinosa di Batista, non disdegnando un aiuto finanziario di parte dei borghesi (cubani e americani) che preferivano liberarsi dello scomodo e corrotto rappresentante ancora al potere. Castro rischiava di accendere fuochi difficili da controllare e doveva quindi usare una certa “prudenza politica”; lo dimostrò pretendendo l’immediata deposizione delle armi da parte di studenti e lavoratori sia dei campi sia dell’industria.

D’altra parte era difficile convincere la maggior parte dei cubani a mantenere stretti rapporti di amicizia e collaborazione con un governo, quello americano, che da perfetto gestore di interessi imperialistici saccheggiava da decenni l’economia cubana. Contribuendo, come aveva sempre fatto, a mantenere l’insopportabile persistere di relazioni di tipo “feudale” che, a cominciare dal settore agrario, reclamavano quanto meno una espropriazione dei capitalisti cubano-americani che spadroneggiavano nelle piantagioni. Saranno quindi sostituiti dallo Stato, garante del mantenimento, sempre, di rapporti capitalistici sia nel settore agricolo sia in quello industriale. Naturalmente anche in forma privata, se l’economia del Paese ne traeva vantaggio…

Va pure detto che alcuni strati della borghesia americana erano addirittura favorevoli a Castro; democratici e repubblicani si contendevano però il titolo di “estirpatori del pericolo comunista” che poteva covare all’interno o all’esterno degli Usa, proprio nei Caraibi, e quindi Castro doveva essere tenuto sotto stretta osservazione, benché lo stesso dichiarasse in più occasioni di non essere affatto comunista (solo nel dicembre 1961 si proclamerà marxista-leninista), facendo nel contempo l’occhiolino a possibili crediti della Banca Mondiale e all'Import-Export Bank. Inoltre, non soltanto i rapporti fra Castro e il Psp (Partido Socialista Popular) non erano particolarmente idilliaci, ma Castro – allora intervistato – parlava di quella cubana come di una rivoluzione “umanista”, un “passo in avanti” per rimettere ordine in un sempre più profondo disastro economico-sociale. Sotto sotto, temeva anche lui l’inasprirsi di una vera e propria lotta di classe, con la classe operaia e non solo il contadiname in posizione predominante.

Conquistato il Palazzo del Governo, anche la legge di riforma agraria (non più rinviabile per la esplosiva condizione del proletariato agricolo) venne varata da Castro con contenuti meno radicali delle riforme da tempo attuate nei paesi capitalistici avanzati e negli stessi Usa. Sorsero poi a Cuba le cooperative agricole, ma soltanto quando le proprietà terriere nordamericane furono del tutto confiscate si fecero assillanti le preoccupazioni Usa per il concretizzarsi di una “influenza comunista” e in particolare – questo uno dei timori principali – da parte della Russia, l’altro polo imperialistico che puntava a controllare Stati e zone strategiche, specie se vicine ai confini americani.

Le confische attuate dal nuovo Governo cubano erano comunque indennizzate con buoni del tesoro ventennali a interesse del 4%. Ed a proposito delle vendite di zucchero all’Urss, queste già avvenivano anche quando era Batista a gestire i traffici. Prima di arrivare comunque ad una completa nazionalizzazione delle proprietà americane nell’isola, gli Usa per primi avevano messo in chiaro il loro atteggiamento politico verso Cuba: Eisenhower sospese tutte le relazioni economiche con Cuba e Kennedy addirittura si pronunciò a favore di un intervento militare contro il “sovversivismo” cubano.. A quel punto Castro passò in pieno alla fase delle espropriazioni e nazionalizzazioni (imprese, banche, multinazionali, fra cui Coca Cola e Westinghouse). L’entusiasmo e l’appoggio popolare a Castro aumentò: ora si propagandava l’avvento di una rivoluzione che ancor più di prima si poteva spacciare per “socialista”, in formato nazionalista, contro gli americani imperialisti che, per di più, fallirono clamorosamente l’invasione della Baia dei Porci (1961), gestita dalla mafia italo americana. L’applauso, e l’aiuto, dei russi era a quel punto scontato e contraccambiato dal “popolo” cubano festante, mentre gli Usa ebbero la conferma della presenza di un vicino poco disponibile ad accettare i loro comandi.

A quel punto Castro cominciò a guardarsi attorno ed a gonfiare il petto, sognando la conquista di una propria centralità geopolitica, fino a partecipare a specifiche e strombazzate “missioni militari cubane” (consulenze degli apparati cubani militari e di intelligence) in America Latina, Terzo Mondo, Algeria, Guinea Bissau, ex Congo Belga, Angola, Nicaragua. Con spese militari dapprima sostenute dall’Urss e poi – con il suo venir meno - direttamente da Cuba, la quale finirà così con l’aggravare le sue già preoccupanti difficoltà economico-finanziarie., anche se in cambio riceveva barili di petrolio a prezzi scontati…

Questo non significa negare, a seguito del più ottuso pensiero dominante nella borghesia maggiormente legata agli interessi Usa, qualche “beneficio” concesso alle plebi cubane, soprattutto se si guarda al confronto col precedente regime: nei primi dieci anni del governo Castro il numero degli ospedali da 44 passò a 221; un servizio medico gratuito si diffuse assieme alla pubblica istruzione; l’analfabetismo fu eliminato. Alcuni miglioramenti in campo sociale superarono indubbiamente quelli ottenuti... dai regimi di Pinochet in Cile e della Giunta militare in Argentina. Il popolo cubano (nella sua comune accezione interclassista) complessivamente vide un miglioramento delle proprie condizioni di vita rispetto ai precedenti governi e fu convinto di essere “guidato umanamente” (secondo quel che pensava il suo capo alle origini), e quindi accettava regole statali che imponevano ai proletari di lavorare, duramente sì, ma per il benessere collettivo e l’indipendenza “democratica” del paese. Inevitabilmente, opporsi a quel regime significava essere etichettato come “sovversivo”, rischiando anche la fucilazione.

Castro si destreggiava così, non disdegnando pure un abbraccio a Kadar, il macellaio della rivoluzione ungherese, e una dichiarazione contro la protesta degli studenti in Cina. La definì “un problema interno cinese. Le immagini non sono arrivate qui … Conosciamo tuttavia la versione ufficiale del governo cinese e non abbiamo ragioni per dubitare delle loro spiegazioni”. Così Fidel, intervistato da G. Minà.

Nel contempo, Castro non poteva (visti i reali contenuti e le concrete caratteristiche del sistema economico dominante a Cuba!) fare a meno della presenza di capitale straniero (con le joint ventures, dove il capitale, si sa, non olet…) e soprattutto in settori come quelli del turismo, nichel, combustibili, telefonia, industria alimentare, siderurgia, meccanica e servizi. Anzi, i finanziamenti furono accettati per il bene economico dell’isola… L’importante – si ripeteva – era mantenere viva la “prospettiva rivoluzionaria”, saldamente nelle mani di Fidel… Il quale cercava di approfittare delle dispute e tensioni inter-imperialiste, inserendosi nei movimenti di “indipendenza nazionale” che si accendevano e si spegnevano specie nel continente sud americano... e attorno ai pozzi petroliferi. Abbiamo detto del sostegno cubano a governi e guerriglie ideologicamente affini nei paesi figuranti come sottosviluppati. Fino a quando il collasso dell’Urss e la fine dei suoi sussidi oscurarono quegli scenari.

Oggi si sta allontanando il ricordo dell’assalto al potere dei “barbudos” di Castro (quasi sessant’anni fa) e quello del disastroso tentativo di sbarco degli anticastristi, mentre il blocco economico praticato dagli Usa non è più sostenibile per ambo le parti. La borghesia nord-americana (compresa quella mafiosa) fiuta una ripresa a tutto campo di una proficua gestione dei propri interessi, troppo disturbati da un capitalismo statale che, per di più, aveva cercato aiuto proprio al concorrente imperialismo russo del “socialismo in un solo paese”, cercando di volgere a suo favore uno dei tanti contrasti che accompagnarono la “guerra fredda”.

Rimaneva sempre ben saldo, dietro una valanga di retorica propaganda, il contenuto interclassista del regime, per il quale le cause di una tanto sofferta miseria e oppressione erano ricondotte solo all’imperialismo di Washington e non del capitalismo in genere, che continuava a gravare sull’isola con le sue leggi di movimento e con le relazioni sociali derivanti dallo sfruttamento del lavoro salariato. Altro che “sacrifici necessari per il socialismo”!

Basti accennare ai più recenti tentativi per riorganizzare Stato e Governo nel tentativo di evitare un tracollo economico pericoloso, con misure del tipo: aumento delle imposte, salari legati al rendimento, maggiori utili dalle imprese pubbliche, maggiori spazi a imprese private, industriali e commerciali. Lo sfruttamento del proletariato, come ogni “programma” capitalistico, sarà intensificato poiché la “produttività” deve aumentare, e i salari diretti e indiretti (compresi i servizi di ogni genere) non dovranno essere … eccessivi! Con i necessari licenziamenti degli “esuberi”, a cominciare dalle industrie statali, approvati dal sindacato cubano che sentenzia l’impossibilità di “mantenere imprese con organici gonfiati e perdite che ostacolano l’economia, (…) generano cattive abitudini e deformano la condotta dei lavoratori”. Non solo, ma – lo diceva il leader cubano della CTC (il sindacato cubano) – “i licenziati potranno svolgere attività private che gli fruttano molto di più”!

Dulcis in fundo, poteva mancare un ufficiale “ritorno” all’oppio della religione? Ed eccoci agli ultimi episodi dell’intesa nata fra Castro e papa Bergoglio, il quale a sua volta ha espresso “sentimenti di speciale considerazione e rispetto” al vecchio “guerrigliero”. Il processo di “riavvicinamento” tra Cuba e gli Usa ha nel papa il suo prestigioso mediatore, il quale da una ufficiale riapertura al capitale d’Occidente avrà la possibilità di trarre a sua volta non pochi vantaggi.

Con una messa nella Plaza de la Revolucion all’Avana, davanti ad una gigantografia del Che, un altro miracolo si era intanto compiuto (con visita papale all'infermo Fidel), nel nome della misericordia divina e del “nazional-socialismo” di marca cubana. Finalmente un abbraccio della Chiesa universale con la quale Castro – dopo gli incontri con Wojtyla e con Ratzinger – aveva avuto modo, attraverso alcune sue esperienze personali (così aveva confidato), di “apprezzare molti aspetti del pensiero”, quello papale… La medesima folgorazione sembra aver colpito il fratello Raul, il quale al pari di Fidel fu studente dai gesuiti, e che ultimamente ha affermato: “Se il Papa continua così, tornerò alla Chiesa cattolica”. In coro: Amen!

DC

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Martedì, November 29, 2016