È guerra

Nella notte notte tra il 6/7 aprile il presidente americano Trump, senza l'assenso del Pentagono, senza che l'ONU finisse la sua indagine per verificare se la strage di 72 civili nel paese siriano di Khan Sheikhun, fosse da imputare ad Assad o ad un effetto “collaterale”, ha dato ordine di lanciare 59 missili contro la base aerea siriana da cui sarebbero partiti i raid chimici. Aeroporto distrutto, rifornimenti di petrolio e di armi saltati in aria e almeno 5 morti tra i militari di Assad.

Il decisionismo di Trump avrebbe come prima giustificazione l'orrore subito alla vista dei venti bambini morti nell'operazione incriminata, in una sorta di impeto vendicativo scaturito all'interno di un animo particolarmente pietoso e timorato di dio. Poi però vengono fuori, a mezze parole, altri motivi che con l'umanitarismo hanno poco a che fare. Sempre il presidente americano si è pesantemente lamentato con il suo predecessore Obama accusandolo di non aver avuto gli attributi per portare a compimento la missione militare contro il dittatore Assad. Un po' come dire, “ora tocca a me fare quello che tu non hai saputo fare prima”. In seconda battuta emerge un altro motivo. Quest'ultimo sarebbe la difesa degli interessi americani, che la prosecuzione della crisi siriana metterebbero a rischio. Rischio dovuto alla “selvaggia” migrazione di siriani verso gli Usa con il rischio di importare terroristi oltre che di dare spazio a “ladri” di posti di lavoro.

Niente di tutto questo, ovviamente. La drastica presa di posizione di Trump ha ben altre radici, interne e internazionali. Quelle interne risiedono nel fatto che, con il più basso indice di gradimento che un neo eletto presidente americano abbia mai avuto, occorreva che facesse qualcosa di “straordinario” per dare credibilità alle sue “sparate” vocali.

Per di più, il tanto strombazzato superamento della crisi economica lascia dubbi e pesanti perplessità. L'economia Usa si è mossa ma a ritmi bassi, troppo bassi per le aspettative facilmente suscitate e per i numeri che l'accompagnano. Il debito pubblico di 19200 miliardi di dollari è pari al 105% del Pil. Era di 18992 miliardi nel 2015 dopo anni di Quantitative Easing. Mentre era “soltanto” di 9267 miliardi nel 2007 agli esordi della crisi che, non dimentichiamolo, è partita proprio dalle contraddizioni economiche e finanziarie degli Usa. Il debito federale è salito al 145%. La ripresa economica, o presunta tale, sconta inoltre un fortissimo decentramento produttivo, interi settori come il manifatturiero e il siderurgico sono da anni nelle mani di Cina e Giappone. La concorrenza tedesca nel metalmeccanico (automobilistico) è a livelli altissimi. Il deficit nella bilancia dei pagamenti con l'estero ha raggiunto il record storico di 500 miliardi di dollari. I milioni di posti di lavoro, peraltro creati dall'amministrazione Obama, sono fasulli perché basati su statistiche improbabili in base alle quali basta lavorare 15 giorni all'anno per essere considerato occupato. In aggiunta i nuovi posti sono molto spesso al nero, o con contratti temporanei a brevissimo termine e sottopagati. Negli Usa del “dopo crisi” si avverte un pesante malcontento. Non a caso 90 milioni di aventi diritto al voto nelle ultime elezioni presidenziali hanno pensato bene di starsene a casa perché non più in grado di illudersi che qualsiasi classe dirigente, di destra o di sinistra, potesse dare anche una parziale soluzione ai loro gravi problemi economici e sociali. Il 50% di quei 90 milioni vive sotto la soglia di povertà, non ha un lavoro fisso da anni, sopravvive con i buoni pasto, non ha nessuna copertura sanitaria. Tutti fattori che prima o poi potrebbero scoppiare all'interno del paese capitalisticamente più avanzato del mondo. Per cui un richiamo alla necessità di “difendersi”, di promettere mari e monti al popolo americano, sorretto da un'azione di forza che desse degno seguito alle parole ci può stare nelle strategie della conservazione.

Sullo scenario internazionale Trump ha capito che rimanere a guardare, come in parte ha fatto l'amministrazione precedente, poteva arrecare danni consistenti all'imperialismo Usa, che vedeva ingigantire a dismisura gli imperialismi concorrenti. A partire dalla questione commerciale, nella quale il neo presidente ha minacciato di stracciare tutti i trattati internazionali come il NAFTA con Canada e Messico, il TPP e il TTIP, per non parlare della Cina accusata di concorrenza sleale e minacciata a sua volta di subire l'imposizione di pesanti tasse doganali al pari dell'Europa, (leggi Germania), per recuperare un impossibile terreno all'interno del deficit della Bilancia commerciale con l'estero. Ma ciò che al momento maggiormente preme alla nuova amministrazione americana è il ritorno, forte e visibile, del braccio armato dell'imperialismo americano in una delle aree più calde dello scacchiere internazionale, il Medio oriente, la Siria e l'agibilità nel Mediterraneo.

La “questione Assad” è irrilevante, se legata solo alla figura dittatoriale o meno del personaggio, il vero problema per Trump è di impedire alla Russia di sostenere il regime del “dittatore di Damasco” e con esso la possibilità di Putin di mantenere la sua flotta commerciale e, soprattutto, militare nei porti siriani di Lattakia e Tartus. Gli Usa vogliono il controllo commerciale e militare di tutti i mari. In teoria la Usa Navy è in grado di interdire navigazione e attracco a porti strategici a chiunque, attraverso l'indiscussa superiorità della sua marina militare. La III, la IV, la V, la VI e VII flotta sono presenti rispettivamente nell'Atlantico, nel Mediterraneo, nell'Indiano e nel Pacifico da cui passa il 90% del traffico commerciale mondiale. Normalmente sono gli ammiragli Nora Tyson, Sean Buk e Kevin Donegan a stabilire l'accesso alla rotte internazionali di navigazione, accesso che può benissimo essere negato o revocato con la forza qualora l'imperialismo americano lo ritenesse opportuno. Per cui concedere all'avversario russo mano libera nella questione siriana , significherebbe rischiare di avere nel Mediterraneo una concorrenza navale di primo livello e di enorme disturbo per le strategie del Pentagono, quel Ministero della difesa a cui Trump ha aumentato il bilancio di un buon 10% (52 miliardi di dollari circa) in funzione di operazioni belliche immediate e per un programma di riarmo a breve scadenza.

Non meraviglia, dunque, l'operazione siriana, in piena notte, all'improvviso, ma precedentemente pianificata, senza il consenso del Congresso, dell'ONU e senza che una qualsiasi Commissione d'Inchiesta di diritto internazionale facesse luce sull'uso di materiale chimico. E' un monito a chi di dovere. Alla Russia per l'egemonia militare nel Mediterraneo, Alla Cina perché tenga a freno la Corea del Nord e il suo “estroverso” presidente Kim Jong Un, “altrimenti ci pensiamo noi”. All'Iran, che prende direttamente parte alla guerra contro l'Isis, cercando di occupare una spazio imperialistico d'area sia in campo territoriale che petrolifero contro l'alleato saudita. Al Fronte sciita che è andato costituendosi durante questa crisi bellica che dura ormai da sei anni. Agli Hezbollah libanesi, all'asse sciita Iracheno-iraniano che difende Assad sotto la guida dei russi che, oltretutto, combattono in Ucraina dopo essersi impossessati dalla penisola di Crimea. Ai talebani, ai quali Trump ha dedicato l’esperimento del lancio del più potente ordigno bellico non nucleare mai progettato e mai esploso dalla seconda guerra mondiale. Dietro a tutto questo c'è la solita guerra dei “tubi”, il recente e precario progetto russo turco del Turkish Stream, i gasdotti russi e azeri verso l'Europa e verso l'Asia, la lotta per il prezzo del greggio e il controllo delle vie di commercializzazione del gas asiatico.

Certamente l'arrogante e rozzo protagonismo di Trump potrebbe stupire, ma non più di tanto, se si prendono in considerazione i fattori che sinteticamente abbiamo messo sotto la lente d'ingrandimento: La crisi che fa sentire ancora le sua nefaste conseguenze. Gli imperialismi che si mobilitano con una velocità e determinazione preoccupanti. L'uso della forza indiscriminato e il rischio che il tutto si trasformi in una carneficina generalizzata su più terreni di scontro, quelli più sensibili da un punto di vista strategico, sia in termini economici che in termini di posizionamento militare. Di fronte ad una simile prospettiva che già in parte è realtà, alla denuncia della guerra, allo scoramento per i massacri di inermi che queste guerre producono, alla barbarie di un mondo capitalistico in crisi permanente, e per questo più feroce e famelico di sempre, va aggiunto un tragico appello alle masse di tutto il mondo. Se questo è l'imminente avvenire per l'umanità, se l'imbarbarimento delle società non può portare che alla guerra, alla distruzione di tutto e di tutti in nome della conservazione di un sistema economico e sociale come quello capitalistico che di tutto questo è causa prima, allora che sia guerra alla guerra, lotta al capitalismo per un mondo che non abbia più bisogno di sfruttamento, di crisi, di guerre e di milioni di morti per sopravvivere. Solo un processo rivoluzionario può fermare la guerra e con essa distruggere il sistema economico che la sorregge. Solo un altro tipo di organizzazione della produzione e della distribuzione della ricchezza sociale può e deve essere la garanzia che una simile barbarie non si ripeta periodicamente con tragica puntualità.

FD
Venerdì, April 7, 2017