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Home ›I cento giorni di Trump
Un paio di considerazioni veloci sulle decisioni prese da Trump in termini di politica internazionale e fiscalità interna. In altre occasioni approfondiremo gli argomenti più importanti, in questo caso ci limitiamo a segnalare gli aspetti più salienti.
Quando Trump si è presentato alle elezioni presidenziali ha esordito dicendo che era uomo del fare, non un politico di professione. Che era contro l'establishment, che avrebbe riportato gli Usa al ruolo che compete alla più grande potenza capitalistica del mondo, contro tutto e contro tutti e, nello stile del più perfetto populista, che avrebbe difeso gli interessi delle classi più povere.
Detto fatto, si fa per dire. Appena è salito alla Casa Bianca si è immediatamente circondato di personaggi provenienti dal mondo militare, ha assunto come esperti, ministri e collaboratori, uomini della finanza, banchieri e imprenditori di alto livello, ovvero dal reddito miliardario. Ha pescato cioè nel centro di quell'establishment che aveva denunciato come luogo di parassitismo economico e sociale.
Sul rilanciabile ruolo degli Usa a grande potenza planetaria ha invece confermato le promesse. Nel giro di nemmeno tre mesi il neo presidente ha minacciato Cina ed Europa di concorrenza sleale, di adire a misure drastiche, come la tassazione sulle merci d'importazione, con lo scopo dichiarato di snellire il deficit nella bilancia dei pagamenti con l'estero, ridando all'economia americana quel primato produttivo che ormai ha perso da quattro decenni. Detto ma non fatto. E' un progetto buttato li con poche speranze di essere realizzato. E' un segnale più orientato alla disastrosa situazione interna (il deficit commerciale ha raggiunto alla fine del 2016 la cifra record di 500 miliardi di dollari) che un vero obiettivo, ma l'arroganza c'è e il messaggio è arrivato a chi di dovere, Germania e Cina innanzitutto.
Perché le parole e le minacce non fossero prese come espressioni vocali gettate nelle spire del primo vento passeggero, Trump ha fatto stanziare il 10% in più rispetto agli anni precedenti (52 miliardi di dollari) al Ministero della difesa perché si è grande potenza solo se si ha la forza militare per esercitarla. Per cui via ai finanziamenti alla ricerca militare, al rinnovamento dell'arsenale bellico, nucleare compreso, e all'annullamento dei trattati con la Russia sul contenimento delle armi nucleari. Il tutto finanziato dalle spese per “l'odiato Obama Care” che il presidente vuole assolutamente cancellare.
Anche in questo caso detto e parzialmente fatto, perlomeno su scala prevalentemente “dimostrativa”. Fatto per quanto riguarda l'incremento dei finanziamenti al Pentagono, quasi per lo smantellamento dell'Obama Care che deve essere ancora portato a compimento. In Iraq ha inviato un contingente di mille uomini a sostegno del governo sciita nel tentativo di ridare vita al ruolo di potenza d'area che con il governo Obama si era offuscato a quelle latitudini. Dopo i presunti bombardamenti con armi chimiche in Siria da parte del governo di Assad, Trump ha immediatamente ordinato una serie di raid aerei come monito al governo alawita e al suo alleato russo. In Afghanistan ha ritenuto opportuno rifar sentire la voce dell'imperialismo americano, dopo anni di silenzio assoluto, sperimentando l'uso della più potente bomba non nucleare mai usata nella storia, contro i talebani, colpevoli di aver rotto una vecchia alleanza politico-militare. Un'ultima, per il momento, dimostrazione di forza è l'invio di una portaerei e di un sommergibile nucleare nelle acque della Corea del Nord, quale messaggio di avvertimento al nipotino di Kim il Sung e alla “solita” Cina perché capisca che la ricreazione è finita e che da questo momento si fa sul serio.
“America first” è il messaggio lanciato al mondo intero. Al momento siamo solo alle dimostrazioni di forza, a esibizioni muscolari, ma l'aria che tira nel bel mezzo di una crisi economica non ancora superata non porta nulla di buono.
“America first” anche all'interno dei confini dell'impero. Anche se, in questo caso, le ricette e i cerotti riguardano i soliti deficit che l'economia americana si trascina da decenni. Oltre al citato deficit commerciale si sono ingigantiti quello pubblico e quello federale la cui somma supera il 250% del Pil. Una disoccupazione che è ben al di sopra di quella dichiarata e un processo di pauperizzazione che non cessa di aumentare (quasi 50 milioni di cittadini americani vivono sotto la sogli di povertà).
La soluzione del neo presidente? Semplice. Rilanciare l'economia reale, diventare competitivi con le buone (investimenti ad alta tecnologia) o con le cattive(tassazione e protezionismo) sul mercato internazionale. Più produzione, più occupazione, più competitività e più profitti. A corollario, per favorire le imprese, meno tasse alla produzione di merci e meno aliquote fiscali sui redditi da investimento produttivo. Nel primo caso si passerebbe dall'attuale tassazione del 35% al 15. Nel secondo dal 39 al 35%
Detto e fatto? No. Innanzitutto perché l'idea di Trump deve essere approvata dal Congresso e non è detto che passi. Poi perché il progetto presenta non poche falle. La prima e più evidente è quella relativa al convincere solo con una detassazione, anche se consistente, una massa enorme di capitali che da anni si è data alla speculazione proprio perché i profitti e i saggi del profitto sono troppo scarsi, a ritornare nella economia reale. Per quelli che già ci sono la detassazione sarebbe una grande boccata d'ossigeno ma che con un dollaro alto, per richiamare capitali dai quattro angoli del mondo, vanificherebbe buona parte dei vantaggi della detassazione stessa. Senza dimenticare di come la manovra, calcolata tra al minimo di due mila e cinquecento miliardi di dollari che non entrerebbero più nelle Casse dello Stato, finirebbe per pesare su di un debito pubblico già ampiamente debordante. Che poi il presunto rilancio economico crei nuovi posti di lavoro, più reddito e maggiore domanda per far girare la ruota capitalistica dell'economia nazionale, è tutto da verificare. Primo perché i futuribili investimenti sarebbero ad alto contenuto tecnologico con la creazione di pochi posti di lavoro e la cancellazione di buona parte di quelli che ci sono. Secondo perché i salari dovrebbero essere compatibili con i nuovi ingenti investimenti, ovvero il più bassi possibile, contraendo e non dilatando la domanda proletaria interna.
Per cui la detassazione, sfrondata dagli inutili orpelli propagandistici, si risolverebbe sì in un aiuto alle imprese e un vantaggio fiscale per i ricchi imprenditori come lui, ma sarebbe la solita minestra per il lavoro dipendente, per i proletari che dovranno essere il perno della manovra in termini di maggiore sfruttamento e minore occupazione, e futura carne da cannone se il presidente dovesse pensare di rendere grande l'America anche a suon di guerre non solo minacciate.
FDBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #05-06
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