Per la sovranità popolare e nazionale - Richiami populistici e nazionalistici

Per la sovranità popolare e nazionale - Richiami populistici e nazionalistici

Ci sono voci (nel “popolo”… o meglio in gruppetti che si fregiano, alcuni, persino del titolo abusato di “antagonisti” non si capisce bene a cosa), che dietro le loro fasulle etichette sognano – in funzione di mediazione – lo sviluppo di un conflitto sociale (democraticamente svolto) al quale seguirebbe un non meglio chiarito processo di riorganizzazione delle “forze classiste anti sistema”. Partecipi, nel frattempo e in prima fila, a riti referendari come quello ultimo per una riforma del Senato, con relativo baccano attorno ai risultati ottenuti e dovuti – si è detto – alla “grande partecipazione popolare”, madre di una vittoria altrettanto “popolare”. Il NO referendario (oggi per altro già finito in soffitta…), avrebbe così respinto (“miracolo”, esclamavano i “comunisti” de il manifesto!) il “tentativo di stravolgere la Costituzione”, sempre tralasciando il fatto che più stravolta di così non si potrebbe…

Un nuovo faro si sarebbe acceso in Italia, e alla sua luce tutte le forze “coerentemente anticapitaliste” dovrebbero (secondo queste sirene mediterranee) al più presto “costruire un fronte politico e sociale che saldi le lotte contro le controriforme sociali degli ultimi trent’anni, incrociando il conflitto di classe con i conflitti generati dalle nuove forme di esclusione che colpiscono larghi strati di classe media. Dovrebbero inoltre lavorare alla costruzione di un sindacalismo sociale in grado di restituire rappresentanza agli interessi delle classi subordinate abbandonate da un sindacalismo confederale sempre più complice delle élite dominanti”. E’ un discorso che viene pronunciato con voce altisonante anche da chi vanta una propria carta d’identità, a suo tempo rilasciata “a sinistra”.

Sta di fatto che, fra gli starnazzatori di vario piumaggio, si finisce con l’agitare la medesima bandiera: rafforzamento dello Stato e delle sue istituzioni al servizio del Paese nel nome – appunto – della “sovranità popolare e nazionale”. Se c’è disaccordo, a parole, esso sarebbe riconducibile solo al tipo di “buona politica” da praticare, adatta a mantenere il presente traballante “stato di cose”, tutt’al più imbellettato con la promessa di una qualche riforma sul cui contenuto regna però quasi sempre il buio. All’insegna di “qui lo dico e qui lo nego”…

Passata la sbornia referendaria e conclusisi i canti (stonati) esaltanti la “messa in sicurezza della Costituzione formale”, solo in pochi nostalgici del tempo che fu è rimasta l’illusione politica del “popolo” (milioni di cittadini…) che avrebbe “sventato uno dei più insidiosi attacchi alla democrazia del Paese”.

In fondo, anche un “padre della Patria” come Togliatti considerava Camera e Senato «entrambe emanazione della sovranità popolare e democraticamente espresse dal popolo», con tutta la loro ampiezza e complessità di rappresentanza popolare, voluta appunto dalla Costituzione. Una Costituzione che anche il suddetto “padre della Patria”, Togliatti, riteneva dovesse essere, manco a dirlo, «popolare»; seguendo

una linea di condotta conseguentemente democratica (…) che permetta alla sovranità popolare di manifestarsi e di dare la propria impronta a tutta la vita della Nazione.

Dal discorso all’Assemblea Costituente, 11 marzo 1947

Ecco dunque ritornare di moda il recupero della “sovranità nazionale” mentre si scoprono i sepolcri in cui giacciono i “disattesi” valori costituzionali: vanno recuperati – recita il coro “popolare” – assieme alle “regole di una sana governance”… Rinascerà allora quella “economia civile” di cui parla la Costituzione (un pozzo senza fine di saggezza politica ad uso e consumo borghese!) che farà avanzare storicamente la società, allargherà gli spazi di libertà, eguaglianza e fraternità. Previa “valorizzazione” del lavoro salariato, “fonte di ricchezza” per il popolo e la nazione!

Circolerebbe di nuovo qua e là, rinforzato dal NO referendario, quello spirito nazionale che dettò le formule costituzionali e che ora, con il lancio di milioni di schede cartacee contro il fronte dei SI’, avrebbe salvato la democrazia riportando il “popolo” ad una partecipazione nella vita politica della società. Questo il succo dei vari (farneticanti) proclami diffusi da chi altro non fa che sostenere il più a lungo possibile l’ordine di questo assetto sociale, semmai con qualche ritocco di facciata… L’importante sarebbe scongiurare qualsiasi richiamo diretto a quella classe, il proletariato, che nel “popolo” della società borghese subisce tutti gli effetti drammatici della crisi in cui versa il capitalismo. Questo perché la situazione potrebbe sfuggire di mano, spingendo proprio “quella” classe a rispondere al compito storico di organizzarsi come forza motrice di una rivoluzione politica ed economica che ponga fine al suo sfruttamento e alla sua oppressione, oltre a quelli della intera umanità!

La nozione di popolo in Marx

Ed ecco riaffiorare, più o meno apertamente, il richiamo al popolo senza alcuna differenza e contrapposizione di classi al suo interno, con l’intenzione di convincere una parte di queste “moltitudini” a sostenere il carro traballante della democrazia borghese, quella che un Lenin definiva come il miglior involucro politico del capitalismo. E la borghesia, attraverso le bandiere del populismo, diffonde l’idea della inesistenza di ogni divisione di classe, tra sfruttatori e sfruttati (l’unica suddivisione sarebbe quella tra cittadini onesti e meno onesti…). Ignorata la sostanza dei rapporti di produzione capitalistici, si convalida il dominio di classe in una uniformità nazionale, sotto la quale – Marx lo scriveva in La guerra civile in Francia – vi è sempre il «carattere internazionale del dominio di classe». Quindi, in definitiva, il populismo rivela la sua funzione ideologica: nascondere l’antagonismo di classe proponendo il mito della “democrazia diretta” al servizio degli interessi generali del popolo. Una natura politica decisamente reazionaria.

A ben vedere, lo spirito nazionale sopra citato si regge a fatica: se poi guardiamo a chi lo invoca, possiamo constatare il suo fiato corto. E dietro le quinte del palcoscenico sul quale suonano le bande stonate dei pifferai democratici e costituzionali, troviamo personaggi intenti a spolverare le consunte ricette (ormai illeggibili) di una vecchia illusione attorno alla possibilità di una “regolamentazione” del mercato che i più “antagonisti” si spingono a immaginare all’interno di un capitalismo "sociale". Nel senso di poterlo sottoporre ad una gestione statale che consenta l’attuazione di "riforme” da definirsi progressive ovvero che possano spingersi fino a una mediazione tra le leggi del profitto e dei bisogni sociali del “popolo”... Insomma, un graduale e attento dosaggio di ipotetici "cambiamenti e alternative" grazie ad alleanze, più o meno da “blocco storico” come lo pensava un Gramsci, sviluppabili con gli alambicchi delle alchimie elettorali e parlamentari. Sotto sotto si guarda con nostalgia alle precedenti tramontate fasi storiche le quali, in confronto agli attuali collassi che sta subendo la sopravvivenza del capitale, appaiono come tempi d’oro.

Leggiamo sempre da Sinistra in rete (il tema del “populismo” va di moda) un articolo di A. Barile il quale trova “pregevole” il libro di C. Formenti (La variante populista, del quale già abbiamo scritto) con specifico riferimento alla “questione della sovranità nazionale” la quale sarebbe stata affrontata “di petto” dal suddetto Formenti (1). Questo, commenta il Barile, pur “rimanendo al contempo saldamente nell’alveo della sinistra”. Un “letto” frequentato – purtroppo – da cani e porci... e dal quale ci teniamo ben lontani, preferendo la nuda terra!

Tornando ai fantasmi della “sovranità nazionale” sopra nominata, c’è apertamente (si cita Rottamare Maastricht edito da Derive Approdi) anche chi la ritiene un “terreno corposo e vitale per una ripresa di potere democratico”: un pensiero che conferma la forte diffusione di sostanze stupefacenti attorno a noi… Oltre al fatto che – lo sottolinea anche il Barile – “tutti i populismi” – di destra, di sinistra e naturalmente “di centro” come sarebbe persino il M5S! – trovano un loro “programma comune nella lotta per il recupero di pezzi di sovranità nazionale ceduti a entità sovranazionali”… Con un codazzo di variopinti gruppi di intellettuali che accusano l’Ue di “svuotare del tutto lo Stato nazionale dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale”...

Poiché a subire ai giorni nostri un progressivo processo di impoverimento non è soltanto il proletariato vero e proprio, ma anche una parte delle classi medie (impoverimento ben previsto da Marx, checché ne dicano i suoi denigratori, a seguito delle crisi capitalistiche!), la prospettiva di una possibile unione “oggettiva”, dai caratteri non più classisti ma “popolari”, sarebbe di colpo balzata in primo piano. Forse accomunando “ambizioni, destini e orizzonti” degli uni e degli altri, proletari e ceti medi, ovvero quel 99% che dovrebbe comporre (idealisticamente) i “movimenti occupy”? Lo stesso Barile scrive tuttavia che in quel 99%

c’è tutto e il contrario di tutto, un calderone informe (…) una popolazione impoverita dalla crisi che chiede disperatamente strumenti per resistere al suo impoverimento.

Ebbene, e nonostante quando detto – ecco il succo finale del discorso –, chi meglio in definitiva, per esercitare una prassi populista, sarebbe ”in grado di dare voce all’impoverimento sociale” facendo gli interessi di “questo magma sociale” al quale pure la nuova “sinistra” deve fare riferimento? Altrimenti – così la pensa il Barile – di “cosa parliamo”… Si apra quindi la giostra dei pretendenti “capi popolo”!

A questo punto, e preso atto dell’avanzare di quel “populismo” (vedi pure i risultati elettorali negli Usa e quelli referendari in Gran Bretagna e in Italia), la cosiddetta “sinistra” – apertamente in crisi di… identità (anche se i dati anagrafici borghesi le appartengono di diritto!) – non trova altro da fare (politicamente) se non reclamare (in alternativa al formarsi di una “internazionale nera”) una “ri-nazionalizzazione” degli Stati europei. La ricetta-Barile è semplice: si ritorni a “ragionare di sovranità”: sarà pure – lo si ammette – un “terreno viscido, paludoso e imputridito, ma è quello su cui oggi avviene la lotta”. Qui il Barile non perde l’occasione per precisare che sarà anche una lotta solo a parole e a livello elettorale, ma “almeno” si supera – udite bene! – la “irrilevanza dei principi, nobile ma improduttiva”… Una “prassi” che da tempo è abitudinaria, specie nei salotti borghesi dove si organizza la pubblica opinione e dove i principi si commerciano secondo il vento che tira nel bel mondo in cui siamo costretti a soggiornare.

Un lungo passo indietro (di ben un secolo, almeno) e si ritorni dunque a “dibattere sulla questione nazionale, sul ruolo nazionale del proletariato, sull’alleanza possibile tra classi in funzione antimperialista”, come fu, appunto, nel passato. Che altro si potrebbe fare? Le citazioni sono dello stesso Barile e riguardano ciò che Marx scriveva nel 1847. Precisamente, e un po’ diversamente:

"Le chimere della repubblica europea della pace eterna sotto l’organizzazione politica sono diventate ridicole proprio come le frasi sulla unione dei popoli sotto l’egida della libertà generale del commercio (…) L’unione e la fratellanza delle nazioni sono una vuota frase che oggi è sulla bocca di tutti i partiti, in particolare dei libero-scambisti borghesi. Indubbiamente esiste una certa fratellanza tra le classi borghesi di tutte le nazioni: è la fratellanza degli oppressori contro gli oppressi, degli sfruttatori contro gli sfruttati. (Marx)

Qualche decennio più tardi, Engels scriveva a Kautsky:

Il movimento internazionale del proletariato è a priori possibile solo in nazioni indipendenti (…) Per poter lottare bisogna prima avere un terreno di lotta, aria e luce e un margine di manovra, altrimenti tutto è chiacchiera (…) E’ solo essendo nazionali che essi (il riferimento è qui ad irlandesi e polacchi -- nda) possono essere meglio internazionali.

Qui Barile ha un sobbalzo: ecco il nostro “terreno di lotta”; ce ne dobbiamo riappropriare (e poi saremmo noi gli “ottocenteschi”!) dal momento che la UE ce lo ha sottratto da sotto i piedi. Dunque, un ritorno della “sovranità nazionale”, che non sia però un ritorno allo status quo ante: qui si fa sul serio e si punta a “rappresentare la voce degli esclusi”.

Ed anche Barile ci offre un esempio “luminoso” (oggi però le luci si sono spente) e dal cilindro estrae un “socialismo del XXI secolo”. Sarebbe quello di “un continente che ha messo in moto un processo verso un tipo di sovranità che prevede il protagonismo delle masse subalterne: l’America Latina”… Il popolo avanza, dunque, per la conquista della

rappresentanza politica di poter decidere sullo sviluppo sociale ed economico dei territori entro cui viene fatta valere giuridicamente tale rappresentanza.

Da non credere, ma riportiamo testualmente!

Si brucino dunque i Trattati europei e si rompano i vincoli imposti ai vari Stati in un “orizzonte economico” che ci impedirebbe di sperimentare sul corpo agonizzante del capitalismo un’altra “ricetta economica”! – così Barile incita il “popolo”. Dove si vada a parare da parte di questi personaggi, è presto detto: col recupero della “sovranità politica dello Stato" si potrà “applicare concretamente” un po’ di politica keynesiana. Non solo, ma – altra ciliegina sulla torta – questo sarebbe

un importante passo in avanti nella lotta alle destre e ai populismi regressivi (non a quelli “progressisti” -- ndr) che egemonizzano il discorso politico...

Appendice - Il popolo e il proletariato

Tempo fa, ancora nel sito Sinistra in rete, è apparso un saggio di Isabelle Garo, filosofa francese (La nozione di popolo in Marx, tra proletariato e nazione), dove ci si richiama (direi correttamente) a quella costruzione della «categoria politica di proletariato» -- da Marx effettuata --

proprio in contrapposizione a quella classica di popolo, eccessivamente inglobante e soprattutto omogeneizzante, la quale, inoltre, occulterebbe i conflitti di classe. In tal senso, la nozione di popolo sarebbe chimerica, foriera di pericolose illusioni laddove politicamente strumentalizzata.

Ed a proposito dell’antagonismo ineludibile esistente fra i due concetti, popolo e proletariato, val la pena di trascrivere quanto la stessa Garo ricorda:

Il sostantivo “proletariato” appare nel 1832 a indicare l’insieme dei lavoratori poveri, la cui miseria viene percepita come risultato dell’egoismo delle classi dirigenti. È la tesi difesa da colui che lo utilizza per primo, Antoine Vidal, nel primo giornale operaio francese, L’écho de la fabrique. È in riferimento diretto alla rivolta dei canut (operai tessitori della seta, n.t.d.) lionesi del 1831 che egli inventa il termine nel 1832. A detta di Vidal, “la classe proletaria” è al contempo la più utile alla società e la più disprezzata.
In un secondo tempo viene trasposto in tedesco, nel 1842, dall’economista Lorenz von Stein, studioso delle correnti socialiste, in particolare quelle francesi, pur essendo ostile al comunismo. In seguito viene ripreso dal giovane hegeliano Moses Hess, all’epoca vicino a Engels e Marx, tutti e tre comunisti dichiarati. Lo si ritrova nel 1843, negli scritti di Marx, nei quali acquisisce un senso nuovo e un’importanza teorica centrale. Una ridefinizione, quella marxiana, che si articola in tre tappe.
1. Dapprima il termine compare alla fine del 1843, in conclusione della critica apportata dal giovane Marx alla filosofia hegeliana del diritto. Nell’introduzione da lui redatta per il manoscritto di Kreuznach, nel quale viene affrontata la critica della concezione hegeliana dello stato, viene designato il soggetto sociale protagonista dell’emancipazione generale della società civile moderna. Il proletariato, in quanto classe che “subisce l’ingiustizia di per sé”, non può che “conquistare nuovamente se stessa soltanto riconquistando completamente l’uomo”. (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, in K. Marx e F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, 1971, p. 70).
2. Ne L’ideologia tedesca (1845) e in seguito nel Manifesto del partito comunista (1848), Marx e Engels affermano il ruolo di motore della storia giocato dalle lotte di classe e definiscono l’antagonismo moderno che contrappone il proletariato e la borghesia. Si precisa in tal modo un’analisi nella quale si era inizialmente impegnato Engels nel suo studio La situazione della classe operaia in Inghilterra. Il proletariato si distingue per il posto occupato in un modo di produzione e nei rapporti sociali corrispondenti. Esso costituisce, allo stesso tempo, la classe che produce la ricchezza senza possedere i mezzi di produzione, e quella chiamata, proprio in ragione di questo fatto, alla trasformazione radicale del capitalismo.
3. Infine, nel Capitale e nel vasto insieme dei manoscritti preparatori, la scoperta del plusvalore e della sua origine: la frazione di tempo di lavoro non pagata della quale si appropria il capitalista, consente a Marx di precisare tale nozione e di esporne la dimensione dialettica. Il proletariato non è innanzitutto povero, bensì espropriato della ricchezza sociale da lui prodotta. In conseguenza di ciò, la sua unità e la sua identità di classe si costruiscono in contraddizione col carattere privato dell’appropriazione borghese, prefigurando il comunismo. Ma, d’altra parte, il proletariato subisce una forma di concorrenza tra i suoi membri, concorrenza favorita dalla classe capitalistica e che costituisce un potente ostacolo alla sua presa di coscienza unitaria e al suo ruolo rivoluzionario.
Marx utilizza il concetto di proletariato collegandolo a un nuovo tipo di rivoluzione, più avanzata, che può essere qualificata come anticapitalista o comunista, e che radicalizza quella precedente, popolare.

Il proletariato rappresenta dunque tendenzialmente – per le condizioni che subisce e per le esigenze politiche e sociali che porta con sé – l’umanità stessa; diventa un rappresentante universale di tutte le sofferenze, lo sfruttamento e le persecuzioni che si diffondono nel mondo totalmente dominato e oppresso dal capitale. E il proletariato – scrive ancora la Garo –

si distingue in quanto classe offensiva capace di organizzarsi politicamente, anche se proprio per questa sua dimensione universale la rivoluzione a venire non è, e non sarà, una semplice rivoluzione politica.

Una possibilità che – la parola è ora a Marx in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione – risiede

nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, una classe che sia la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che, per la sua sofferenza universale, possieda un carattere universale (…) che non possa più appellarsi a un titolo storico, bensì al titolo umano (…), una sfera, infine, che non possa emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole di conseguenza tutte, e che sia, in una parola, la perdita completa dell’uomo e possa quindi conquistare nuovamente se stessa soltanto riconquistando completamente l’uomo. Questa decomposizione della società, in quanto classe particolare, è il proletariato.

(1) Un Formenti che, come abbiamo già scritto, guarda con simpatia – per la loro maggiore e attuale efficacia – alle “rivolte populiste”: sarebbero conseguenti ad una avvenuta dispersione del lavoro (diciamo pure ad una diminuzione dello stesso e del relativo salario), con una paralisi della lotta di classe in campo sindacale e politico, lasciando il posto ad una più generica lotta di cittadinanza con possibilità (?) di nuovi sbocchi politici.

Qui, secondo altri commentatori del libro di Formenti, ritenuto “denso di tensioni concettuali”, meglio si contrasterebbero i movimenti dinamici del capitale, dando vita a situazioni con conflitti tra nuovi soggetti. Vi fanno capolino anche le “moltitudini” di Negri. Specie alla periferia, dove si resiste alla modernizzazione e una gran massa di diseredati reclama la propria emancipazione... Insomma, la lotta di classe sarebbe invecchiata, anzi scomparsa, ed avrebbe oggi la sua forma (“storicamente determinata”…) nel populismo, un campo in cui condurre una battaglia per ottenere una “egemonia finalizzata a trasformare il populismo stesso in una direzione coerentemente anticapitalista e socialista”… Con un Formenti che accarezza la possibilità di uno stato popolare nel quale dovrebbe trovare spazio la democrazia diretta e consiliare. Sarebbe lo sbocco di una sovranità popolare (e nazionale): vedi le eclatanti vicende ed esperienze nei paesi dell’America Latina, approdati anche loro (dopo la Cina) al “nazional-capitalismo-socialista”….

Mercoledì, November 22, 2017