Gramsci e i Consigli Operai a Torino

Apriamo questa analisi critica del giovanile entusiasmo col quale Gramsci accolse e fece proprio il movimento dei Consigli di Fabbrica a Torino (dove era giunto nel 1911), trascrivendo un brano tratto da un suo editoriale pubblicato sull'Ordine nuovo del 5 giugno 1920:

Il periodo attuale è rivoluzionario perché la classe operaia tende con tutte le sue forze, con tutta la sua volontà, a fondare il suo Stato. Ecco perché noi diciamo che la nascita dei Consigli operai di fabbrica rappresenta un grandioso evento storico, rappresenta l'inizio di una nuova era nella storia del genere umano.

Vi traspare quello spirito di tipo filosofico col quale Gramsci interpretava la sua personale visione di un possibile autogoverno delle classi lavoratrici inserite nel mondo della produzione capitalistica. Specificatamente nella fabbrica, e da lì proiettando nella società, attraverso le sue sovrastrutture politiche e culturali, la idealistica visione di un nuovo ordine sociale conseguente ad una più razionale organizzazione e gestione della produzione.

Con la sua teorizzazione dei Consigli operai sul modello torinese, confusi oltretutto coi Soviet russi, Gramsci cadeva fra le braccia di concezioni spontaneiste e immediatiste. Subalterna erano sia la presenza e sia il ruolo fondamentale del partito rivoluzionario, col suo determinante contributo organizzativo, con la sua funzione centralizzatrice e di direzione unitaria delle lotte operaie oltre ogni limite aziendale e locale.

I Consigli operai, idealizzati da Gramsci nel primo dopoguerra in Italia, miravano sostanzialmente ad una cogestione del sistema capitalistico, ivi comprese finalità – in seguito e chiaramente dichiarate dallo stesso Gramsci – di tipo “produttivistico”. Nel 1916 (Sotto la Mole - Einaudi 1960) Gramsci scriveva: «il socialismo è problema essenzialmente di produzione intensa». E sull’Ordine Nuovo, fondato nel 1919, si dichiarava favorevole ad una «forma di ‘americanismo’ accetta alle masse operaie» poiché il «nemico principale» era la «tradizione della civiltà europea».

Riguardo al complesso sistema economico imperante, non si dichiarava chiaramente – negli scritti di Gramsci – la necessità di una sua sia pur successiva rottura, bensì si palesava soltanto una sua “correzione” passando quasi attraverso una “collaborazione di classe” con quella che era la realtà economica capitalista e sociale borghese. All’America Gramsci guardava come ad un quadro nel quale si disegnavano avanzate basi per il passaggio ad una società diversa da quella europea sulla quale pesava la «cappa di piombo delle tradizioni storiche e culturali». (L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, pag. 25)

Nel periodo giovanile, Gramsci era soprattutto attratto da un Sorel, dalle sue personali concezioni morali e intellettuali della lotta di classe, e ad esse Gramsci si ispirò appunto nei primi tempi del suo impegno politico. Cioè quando anche un Croce, nella sua Introduzione alle Considerazioni sulla violenza (1907) di Sorel, e poi in altri suoi scritti, avrebbe a sua volta animato in Gramsci il sorgere di quei miti ideologici che lo stesso Croce inseguiva, scrivendo di un moto proletario all’interno di un

auspicato delinearsi di una forma progressiva della società umana per virtù di una nuova classe sociale che entra nel campo della lotta… (1).

Sorel e il Gramsci dei Consigli riponevano entrambi fiducia in una «spontanea emanazione della massa», con il Consiglio di fabbrica che, nel pensiero di Gramsci, diventava modello della Stato proletario, con la previsione del formarsi di istituzioni proletarie già all’interno della società borghese e prima della conquista del potere. Si pensava quindi all’autogoverno dei produttori, con lo sguardo rivolto ai «problemi reali della fabbrica, della nazione, dello Stato» (Togliatti, Gramsci, pag. 210). Il «nuovo ordine socialista» veniva quindi da Gramsci accostato ad un costante richiamo per un aumento della produttività industriale delle merci.

Gramsci (e non solo in quegli anni ma anche in seguito nei Quaderni scritti in carcere) riempiva di… «pregnanza politica» queste sue esaltazioni produttivistiche nell’ambito della «costruzione» di una nuova e più razionale economia. Quindi guardando ad un «nuovo produttivismo», un nuovo «americanismo» (quello che allora si stava diffondendo negli Usa) da far accettare agli operai italiani per rispondere «alle nuove e più moderne esigenze». (Autarchia finanziaria dell’industriaQuaderni, pag. 2156)

Gramsci e Gobetti

Anche la lotta politica assumeva nel pensiero di Gramsci un prevalente stampo etico, in questo condiviso – sempre nel periodo giovanile – dal liberale Gobetti, in ottimi rapporti di amicizia con Gramsci (mentre a Gobetti era profondamente invisa la personalità di Bordiga…). Un Gramsci, dunque, che divagherà in seguito attorno ad una «costruzione tattica» fondata sulla illusoria speranza di

un nuovo orientamento politico di determinate masse contadine cattoliche, che vogliono lottare contro il fascismo accanto al proletariato rivoluzionario.

l’Unità, 2 luglio 1925

Un Gramsci fiducioso che «un certo numero di intellettuali non sarebbe completamente alieno da collaborare col proletariato rivoluzionario».

Gobetti, nel medesimo periodo, entusiasticamente inneggiava al «popolo che chiede il potere e diventa Stato»: era quella – a suo dire – l’espressione di una «disperata volontà di elevazione» che dava, sempre al popolo, una forte «carica libertaria». E giudicava poi l’attività degli ordinovisti come l’espressione di «uno spirito di governo»; uno spirito costruttivo, espresso da una nuova «classe di governo, una forza sana e buona, autonoma e padrona di sé». (Così rimarcava e approvava Togliatti su L’Ordine Nuovo, settembre 1921)

Organizzazione e disciplina produttivistica

Gramsci concepiva il potere operaio, a livello sia industriale sia statale, come il risultato di una evolutiva formazione di coscienza e di cultura; soprattutto insisteva sulla padronanza da parte operaia del processo di produzione, in particolare riguardo alla sua organizzazione e ai risultati qualitativi e quantitativi finali delle merci prodotte. Considerava l’operaio come concretamente inserito in un processo produttivo mercantile dove sarebbe stato sufficiente che

la massa operaia si preparasse effettivamente all'acquisto della completa padronanza di se stessa, e il primo passo su questa via sta nel suo più saldo disciplinarsi, nell'officina, in modo autonomo, spontaneo e libero. Né si può negare che la disciplina che col nuovo sistema verrà instaurata condurrà a un miglioramento della produzione.

Con la sua “spontaneità rivoluzionaria”. E Gramsci assegnava al Consiglio una “forza” consistente

nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa operaia; è la stessa coscienza della massa operaia che vuole emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di iniziativa nella creazione della storia.

Scritti politici – Editori Riuniti, 1973

Gramsci era colpito dall'organizzazione (per lui già razionalmente avanzata) dell'apparato produttivo torinese; si trattava soltanto di affidarne la gestione al proletariato, un proletariato che per Gramsci tale era solo se lavorava disciplinato in fabbrica, così potendo conquistare gradualmente l’apparato produttivo e la sua gestione, l’anticamera – sempre per Gramsci – della conquista dello Stato. Fino ad affermare:

Ecco perché noi diciamo che la nascita dei Consigli operai di fabbrica rappresenta un grandioso evento storico, rappresenta l'inizio di una nuova era nella storia del genere umano.

Il consiglio di fabbrica, giugno 1920

Insomma, Gramsci vedeva la valorizzazione della fabbrica, con un’alta disciplina produttivistica, come primo passo verso la

organizzazione di un’economia programmatica (…) col passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica.

Per Gramsci

la classe operaia è identificata con la fabbrica, si è identificata con la produzione: il proletariato non può vivere senza lavorare, e senza lavorare metodicamente.

Ordine Nuovo – 21 febbraio 1920

Facciamo dunque – questo in definitiva diceva Gramsci – che il proletario, sentendosi «cellula di un corpo organizzato, unificato e coeso», lavori con «ordine, metodo, precisione» e avverta la necessità che «tutto il mondo sia solo come una immensa fabbrica» ben organizzata. Ed è in questa fase del suo pensiero, che Gramsci anticipa i primi accenni di quella sua idea di una “egemonia” «la quale nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e della ideologia». (Più avanti Gramsci scoprirà come indispensabile la figura dell’intellettuale organico per dare una sostanza culturale – ma non solo – a questa egemonia.)

Con il movimento dei Consigli torinesi si sarebbe dovuto formare – sempre s’intende per la visione spiritualistica e volontarista di Gramsci – «un apparato egemonico, in quanto (il movimento) crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, un fatto filosofico». (La filosofia di B. Croce e il materialismo storico, pag. 39)

Per Gramsci, il nuovo tipo di proletario – creato dal suo pensiero – sarebbe stato «il campione del comunismo, e la forza rivoluzionaria che incarna la missione di rigenerare la società degli uomini; è un fondatore di nuovi Stati». E guardando ad una Torino, sede della Fiat, come «fucina della rivoluzione comunista», concludeva: più le industrie «sono meglio specificate e organizzate» (capitalisticamente…), e più saranno «rivoluzionarie d’avanguardia»… Questa sarebbe stata – per Gramsci – la «nuova concezione del mondo che avanza».

L’Ordine Nuovo indicava fra i compiti principali del Consiglio di fabbrica quelli rivolti a fare in modo che

l’operaio entri a far parte come produttore per il controllo sulla produzione e la elaborazione dei piani di lavoro. (...) In una fabbrica, gli operai sono produttori in quanto collaborano, ordinati in un modo determinato esattamente dalla tecnica industriale che (in un certo senso) è indipendente dal modo di appropriazione dei valori prodotti, alla preparazione dell’oggetto fabbricato.

L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, pag. 624

E’ la produzione – continuava Gramsci – che fa vivere e sviluppare una società; bisogna quindi produrre e poi distribuire non più in modo iniquo… Sul “come” questo andava fatto, silenzio. E proseguiva: solo se la classe operaia («gli apostoli salariati…») ama il lavoro e ama la macchina, essa potrà diventare addirittura «padrona della società». Col suo «eroismo produttivo», la classe operaia ha bisogno di «uno sforzo eroico di produttività» perché si infonda in lei «nuova vita e nuova virtù di sviluppo». Conclusione, anche se non espressa: aumentare la produzione di merci!

Questo era un obiettivo di quella “filosofia della prassi” che Gramsci cominciava ad elaborare guardando, quasi con malcelata ammirazione, i capannoni della Fiat a Torino. E questo quando Marx aveva chiaramente affermato che «la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo della attività che si è avuto finora, e sopprime il lavoro». Ed era stato sempre Marx a scrivere che

Per la produzione in massa di questa coscienza comunista, quanto per il successo della cosa in sé stessa, è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione; che quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società.

Sindacato e Soviet

In realtà, la differenza fra i due organismi – il Sindacato e il Soviet – era tale da renderli incompatibili l’uno con l’altro. Il loro contrasto si annunciava aperto e dichiarato: il primo si dovrebbe muovere nell’ambito di una lotta puramente difensiva e rivendicativa (almeno così era nei primi decenni della sua esistenza non ancora “istituzionalizzata”); il secondo ha come obiettivo della propria lotta la conquista del potere con funzioni sia legislative sia esecutive, sotto la direzione del partito rivoluzionario.

Il Soviet punta ad una soluzione politica della lotta fra lavoratori e capitalisti, non per impadronirsi della gestione del capitale, bensì per distruggerlo. Il Soviet non può quindi che formarsi e attivarsi in una fase di scontro aperto e dichiarato con il capitale e la classe borghese, con l’obiettivo di radicale superamento delle condizioni di vita imposte al proletariato dalle necessità di sopravvivenza del sistema economico dominante. La trasformazione di questo, sia come modo sia come insieme dei suoi rapporti di produzione, deve essere preceduta da una totale rivoluzione politica. Prima della conquista delle fabbriche, è necessaria quella del potere; quindi, niente di sindacale nell’agire del Soviet, ma – in stretto collegamento col Partito – una sua funzione quale indispensabile strumento per la lotta indirizzata a strappare il potere ai capitalisti. Il suo altrettanto importante contributo per la trasformazione economica (dal capitalismo al socialismo) sarà il passo successivo che si compirà con la rottura di ogni legame di tipo aziendale e di gestione privata industriale.

Inteso come futuro organo del potere di classe, sarà attraverso la rete dei Soviet che il proletariato eserciterà la propria dittatura: il semi-Stato operaio altro non sarà che la sintesi centralizzata della rete dei Soviet, i cui compiti saranno di natura politica ed economica ed entrambe rivoluzionarie, trasformatrici. Fermo restando l’assunto per il quale la dittatura del proletariato è guidata politicamente dal Partito [non esercitata dal partito: attenzione!], questi però non sarà mai assolutizzato come unico strumento di potere e forma dello stesso. La sola e insostituibile condizione sarà che all’interno dei Soviet sia attivo l’operare del Partito di classe per l’introduzione negli organismi proletari del programma comunista, facendosi garante della sua fedele applicazione. Il Partito, dunque, come guida rivoluzionaria sia nella conquista del potere sia della fase di transizione al socialismo, fino alla completa estinzione del semi-Stato operaio.

Una “dignità”… produttivistica

Al contrario, la visione di Gramsci si incentrava innanzitutto sull’assunzione – da parte del Consiglio di fabbrica – di una approfondita conoscenza dei cicli produttivi aziendali, tale da sostituire gli operai ai capitalisti nella gestione delle fabbriche. Era questo il «carattere realizzatore» che avrebbe dato al «massimalismo un contenuto concreto», ed al proletariato – a quel punto, secondo Gramsci, collocatosi in una «posizione di vantaggio» – «quel senso di dignità che noi (gli “ordinovisti” – ndr) consideriamo un elemento essenziale della sua personalità ed anche (e soprattutto – aggiungiamo noi, ancora una volta!) della sua capacità a produrre…».

Siamo al cospetto di una visione comune ad un certo gradualismo riformista propugnatore di una politica accettabile dalla cosiddetta “sinistra” borghese; spacciato fra gli operai come via al socialismo attraverso una «partecipazione aziendalistica» da parte di un organismo fondamentalmente sindacale. Il quale si proporrebbe di razionalizzare i processi capitalistici di produzione. La prospettiva sarebbe quella di un idilliaco connubio tra iniziativa privata e intervento statale, magari attraverso una pianificazione quale tentativo di effettuare scelte che possano evitare gli squilibri e le disarmonie sempre più predominanti nel sistema capitalista.

Nel 1926, Gramsci ancora attribuiva ai compagni dell’Ordine Nuovo a Torino il merito di aver concretamente posto «la questione della egemonia del proletariato»; la necessità cioè di «creare un sistema di alleanze di classi che gli permetta (al proletariato) di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice». A latere ricompariva anche la «quistione contadina» (e «agraria in generale»), oltre alla «quistione meridionale e la quistione vaticana».

Ancora una volta, Gramsci offriva come una prospettiva rivoluzionaria quella consistente nel «considerare la situazione internazionale nel suo aspetto nazionale», quindi facendosi carico di quelle che riteneva «esigenze di carattere nazionale»… culminanti col riconoscimento del lavoro come forza produttiva, sì, ma incorporata ad un capitale… razionalizzato.

Il commissario di fabbrica

Era nella figura del “commissario” di fabbrica – sempre secondo quanto sosteneva Gramsci a proposito dei Consigli di Fabbrica – che si identificava un soggetto idoneo allo studio di un miglioramento tecnico dei processi di produzione e di lavorazione, avanzando proposte di innovazione e accelerazione della produzione stessa. Produzione di merci con sfruttamento del lavoro salariato. E qui aggiungiamo subito che gli spazi tra capitale e lavoro, tra salario e plusvalore, erano molto scarsi per le necessità dell’accumulazione capitalistica (e lo sono maggiormente oggi, non certo per i lavoratori supersfruttati), tali da annullare sul nascere le illusioni rivendicazioniste con le quali il riformismo (quello ufficiale) alimenta la sua opera di addomesticamento della classe operaia.

Scriveva Gramsci:

A norma delle suddette ragioni i commissari dovranno studiare le innovazioni tecniche interne proposte dalla direzione e non pronunciarsi, se non dopo averle discusse con i compagni, invitando ad accettarle se esse, pur riconoscendo il temporaneo danno degli operai, importino pure sacrifici da parte dell’industriale ed assicurino di riuscire utili ai processi di produzione.

Testuale!

L’occupazione delle fabbriche

Va qui ricordato che persino durante il clamoroso episodio dell’occupazione delle fabbriche a Torino (settembre 1920), alla domanda di un operaio: “dobbiamo lavorare o continuare lo sciopero bianco?”, Gramsci rispondeva seccamente che la domanda era improponibile poiché per la prima volta i Consigli avevano l’occasione di dirigere la produzione e perciò dovevano farlo dimostrando di saper produrre meglio dei capitalisti…

In uno dei suoi articoli (Ordine Nuovo - settembre 1921) Gramsci ripeteva, quasi compiaciuto:

Nel periodo successivo all’occupazione – in cui il controllo operaio e il potere dei consigli di fabbrica raggiunsero il massimo dell’efficienza – la produzione della Fiat fu tale, per quantità e qualità, da superare di gran lunga la produzione del periodo bellico, da 48 vetture quotidiane si passò alle 70 vetture quotidiane. I signori industriali giocarono una carta suprema su queste nuove condizioni create alla produzione dal potere dei consigli di fabbrica: essi proposero alle maestranze un progetto di cottimo collettivo_ (…) _Ma gli industriali, una volta introdotto il cottimo collettivo, passano all’offensiva contro i consigli e i gruppi comunisti.

Un trionfo, per nulla mascherato, di quell’«economicismo» che in seguito Gramsci attribuirà agli altri! Da notare che persino un Terracini arrivava a sostenere, allora, che i comunisti dovevano creare le «condizioni spirituali» per la rivoluzione...

Quando poi nelle fabbriche finì l’occupazione degli operai e si ristabilì l’ordine voluto dai capitalisti privati, la produzione di auto subirà un crollo e arriverà a sole 15 auto giornaliere, con in più qualche problema di qualità. Era però stato raggiunto l’obiettivo borghese di mettere in ginocchio gli operai costringendoli ad una rigida ubbidienza e al più assoluto silenzio sia sindacale sia politico, caso mai qualcuno avesse mantenuto pericolosi grilli “estremisti” nelle testa. Per il momento, anche l’illusione gramsciana di gestire (meglio) la produzione capitalistica da parte degli operai (esaltandoli per un maggior numero di auto prodotte…), non aveva rassicurato a sufficienza gli interessi di una borghesia che guardava con una certa apprensione quel che stava accadendo in Russia.

E mentre il capitalismo continuava a tenere saldamente il potere politico ed economico (e lo Stato era ben presente con tutte le sue strutture e casematte, coercitive innanzitutto, in efficiente attività) nelle sue mani, Gramsci valutava più importante, al posto della costruzione e del rafforzamento del partito di classe in quel periodo ancora rappresentato dal Psi, il consolidamento di strumenti nella sostanza corporativi come i Consigli di Fabbrica così come erano stati da lui stesso concepiti. Proprio quando Lenin – nel 1920 – ammoniva:

Il capitalismo, se lo si considera sul piano mondiale, continua ad essere più forte del potere dei Soviet, non solo militarmente, ma anche dal punto di vista economico. È da questa considerazione fondamentale che si deve partire senza mai dimenticarla.

Consigli e Stato “socialista”

In quella fase (primi anni immediatamente successivi all’Ottobre 1917) e nonostante ciò che stava accadendo in Russia, Gramsci riteneva dunque i Consigli di Fabbrica (modello torinese) in grado di diventare le strutture embrionali di uno Stato socialista. Si trattava solo di organizzare e sviluppare le forze produttive come se si trattasse di cellule (con funzioni sia economiche sia politiche) di una futura democrazia socialista. In seguito, il suo pensiero si allargherà anche al di fuori della fabbrica ed entrerà nel contesto generale della società borghese, fino ad elaborare il concetto di una lunga “guerra di posizione” per la conquista delle “casematte” della società civile. Soltanto in una fase successiva si sarebbe potuto dare il via ad una “guerra di movimento” in campo aperto.

L’idea di Gramsci era in definitiva quella basata sulla creazione di uno Stato nuovo all’interno della organizzazione operaia e tecnico-produttiva della fabbrica, con la tendenza a ritenere un possibile collegamento del processo spontaneo della rivoluzione allo sviluppo dei Consigli, limitando così (ancora una volta) l’importante ruolo politico dirigente del partito. I comunisti – come scriveva Togliatti, Tattica nuova, L’Ordine Nuovo, 13/3/1920 – dovevano solo fare gli «educatori dell'autogoverno dei produttori». Niente altro…

L’intimità produttiva della fabbrica

Era fin dagli anni più giovanili che Gramsci accarezzava il sogno di poter «gettare le basi del processo rivoluzionario nella intimità della vita produttiva». (L’Ordine Nuovo, 13 settembre 1919) Era nella fabbrica, dove non esisteva «libertà per l’operaio né democrazia» (ibidem, 5 giugno 1920), che si doveva secondo Gramsci iniziare il processo rivoluzionario. Prioritario diventava allora il compito spettante ai Consigli i quali in Italia avrebbero dovuto svilupparsi in tutte le regioni cominciando a porsi la questione del controllo dei processi produttivi, ossia «raggiungere lo scopo di organizzare tutto il popolo lavoratore nelle sedi di lavoro e di produzione». (ibidem, 2/31 gennaio 1920) I Consigli, dunque, come punta avanzata del movimento operaio, fino al punto di orientare la condotta politica del partito (socialista) a scala nazionale.

Non eravamo in presenza di personali divagazioni attorno a possibili sviluppi del movimento operaia, bensì al lancio – da parte di Gramsci – di una specifica idea che avrebbe dovuto illuminare una nuova via politica lungo la quale gli operai («forze sane e buone») avrebbero potuto con la loro volontà creare una nuova «classe di governo» (Togliatti – L’Ordine Nuovo, 2 settembre 1921). Una linea politica che – è ancora Togliatti a scriverlo sul Grido del popolo – 1917/1918 – si indirizzava verso il «bene generale», per «creare la nazione dei produttori cooperanti in una unità organica al bene comune». (vedi in Togliatti, Opere, I° vol. - pagg. 6-13). Un «bene comune» condiviso da Gramsci che a tal fine esaltava l’incanalarsi della «coscienza dei produttori» attraverso l’esperienza ordinovista dalla quale sarebbe scaturito un «nuovo produttivismo», guardando ad un “americanismo” riformato dai proletari stessi i quali – chiodo fisso! – dovevano appoggiare «l’introduzione di nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività…». Un richiamo che a volte diventava quasi “ossessivo” in Gramsci. (L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1920 – Per un rinnovamento del Partito Socialista)

Direzione autonoma

Era infatti soprattutto Gramsci a sostenere che proprio nella fabbrica, all’interno della produzione industriale (sempre di merci…), la classe operaia poteva dimostrare la sua superiorità e autonomia rispetto al capitalista (non al capitalismo!): perché allora non puntare al controllo e alla direzione complessiva di tutto l’intero processo produttivo? Fino – scriveva Gramsci – a «modificare» non solo la fabbrica ma anche la società e lo Stato. Ecco un brano significativo (L’Ordine Nuovo, 46/47 - Sindacalismo e consigli, 8 novembre 1919):

L’operaio è produttore, perché ha acquistato coscienza della sua funzione nel processo produttivo, in tutti i suoi gradi, dalla fabbrica alla nazione, al mondo; allora egli sente la classe, e diventa comunista, poiché la proprietà privata non è funzione della produttività, e diventa rivoluzionario perché concepisce il capitalista, il privato proprietario, come un punto morto, come un ingombro, che bisogna eliminare. Allora concepisce lo ‘Stato’, concepisce una organizzazione complessa della società, una forma concreta della società, perché essa non è che la forma del gigantesco apparato di produzione.

Attraverso i Consigli – secondo Gramsci – si sarebbe realizzata la possibilità di fare acquisire alla classe operaia «la coscienza della sua unità organica» fino ad «unitariamente opporsi al capitalismo». La classe operaia si sarebbe resa conto «in prima istanza delle nuove posizioni che nel campo della produzione occupa». Questo la farebbe «consapevole del suo valore attuale, della sua reale funzione, della sua responsabilità del suo avvenire». Addirittura, concludeva Gramsci, «acquista la psicologia e il carattere di classe dominante». E così «instaura la sua dittatura»… (L’Ordine Nuovo – 14 febbraio 1920)

Anche nel carcere fascista, Gramsci ritornerà a battere il chiodo:

Gli operai sono stati [nei primi anni Venti – ndr] i portatori delle nuove e più moderne esigenze industriali [ripresa della produttività – ndr] e, a modo loro, le affermarono strenuamente… [per una funzione egemonica nella società? – ndr].

Quaderni, pag. 2156

Astrattezza politica

Guardando ai risultati ottenuti in quegli anni, con l’insuccesso dell’iniziativa intrapresa a Torino, Gramsci dovette ammettere in seguito la mancanza di un conseguente radicamento nella classe, non solo, ma riconobbe che era stata del tutto trascurata la «costituzione di un centro autonomo direttivo, (…) di una frazione cercando di organizzarla in tutta Italia». Nessuna concretezza politica, dunque, ma soltanto un susseguirsi di riflessioni, orientamenti e ipotesi personali prospettando uno sviluppo economico e sociale di ispirazione vagamente socialista. L’incremento della produzione diventava l’obiettivo «nazional-popolare» principale, centrato su una organizzazione culturale e politica della classe operaia. Il tutto si inseriva in «una strategia e una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo e il novembre 1917». (Gramsci, lettera a Bordiga – febbraio 1924). Strategia e tattica che da Gramsci furono del tutto stravolte, togliendo loro ogni finalità concretamente rivoluzionaria contro il capitalismo.

Le critiche di Bordiga

Bordiga criticò fin dagli inizi, all’epoca dei Consigli, questa “idea” di Gramsci; riteneva una «cosa insensata parlare di controllo operaio prima che il potere politico fosse nelle mani dello Stato proletario». Il processo ipotizzato da Gramsci mirava invece a fare «dirigente nazionale» – perdurando il capitalismo – la classe operaia, in funzione egemonica sulla media e piccola borghesia. Un proletariato produttore, dunque, sempre salariato ma ciononostante non più servo del capitale… Per Gramsci la soluzione “rivoluzionaria” era intesa come «la riforma intellettuale e morale» delle relazioni fra struttura economica e sovrastruttura (ideologia, istituzioni, politica, ecc.).

Gli rispondeva Bordiga:

È grave errore credere che trasportando nell’ambiente produttivo attuale, tra i salariati del capitalismo, le strutture formali che si pensa potranno formarsi per la gestione della produzione comunista, si determino forze di per se stesse e per intrinseca virtù rivoluzionarie. (…) Al punto in cui siamo, quando cioè lo stato del proletariato è ancora un’aspirazione programmatica, il problema fondamentale è quello della conquista del potere da parte del proletariato, o meglio ancora del proletariato comunista, cioè dei lavoratori organizzati in partito politico di classe e decisi ad attuare la forma storica del potere rivoluzionario, la dittatura del proletariato.

Bordiga, La costituzione dei consigli operai – Il Soviet, 1° febbraio 1920

Il controllo operaio sulla produzione non è concepibile che quando il potere è passato nelle mani del proletariato ... (Tale controllo...) non può costituire la questione centrale (...) il partito è l'organo specifico della conquista politica del potere (…). Compito dei comunisti è utilizzare ANCHE la tendenza proletaria alla conquista del controllo; dirigendola contro (...) lo Stato del capitalismo (…).

Lo sciopero di Torino, Il Soviet, 2/05/1920

Bordiga sarà dunque rigorosamente chiaro e preciso: in presenza del potere borghese i consigli operai non possono essere che organismi entro i quali il partito comunista opera quale unico strumento della lotta di classe del proletariato per la conquista del potere politico. E’ funzione del partito quella di essere il motore della rivoluzione.

Sostenere, come i compagni dell’Ordine Nuovo di Torino, che i consigli operai prima ancora della caduta della borghesia sono già organi non solo di lotta politica, ma di allestimento economico-tecnico del sistema comunista, è poi un puro e semplice ritorno al gradualismo socialista: questo, si chiami riformismo o sindacalismo, è definito dall’errore che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico. Quando la protezione statale borghese è in piedi ancora, il consiglio di fabbrica non controlla nulla (…).

Il “marxismo” della Seconda Internazionale

Non vanno trascurati nelle visioni attorno alle quali ruotavano i pensieri di Gramsci, i cascami idealistici che l’interpretazione del marxismo da parte della Seconda Internazionale aveva qua e là diffuso nel movimento operaio: a cominciare da certe deformazioni (di malcelato positivismo) che sfociavano – nell’attesa (questa dovuta a storture meccanicistiche) del “crollo” del capitalismo, a seguito della “pienezza dei tempi”, come diceva Kautsky – nella attuazione di ideali e politiche di tipo riformistico. Compresa proprio quella pianificazione entro la quale permangono tutti i rapporti di produzione capitalistici (esempio estremo sarà poi lo staliniano “socialismo in un solo paese”) con gli schermi ideologici del controllo operaio – in pratica attraverso lo… Stato! – sulla produzione di merci. La quale rimane una produzione basata sul capitale e sulla sua valorizzazione attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato, e come tale con una rigorosa logica e precisi limiti. Come scriveva Marx,

Il vero ostacolo della produzione capitalistica è il capitale stesso. Esso [lo leggiamo nei Grundrisse] pone il lavoro necessario solo in quanto e nella misura in cui è pluslavoro e questo a sua volta è realizzabile come plusvalore. Il capitale pone dunque il pluslavoro come condizione del lavoro necessario, e il plusvalore come limite del lavoro oggettualizzato, del valore in generale.

In effetti, solo se c’è plusvalore, allora ci sarà lavoro necessario (cioè salario). Dirà Marx che

il capitale limita dunque il lavoro e la creazione di valore, e lo fa per la stessa ragione e nella misura in cui esso crea pluslavoro e plusvalore. Esso dunque pone, per sua natura, un ostacolo al valore e alla creazione di valore, il quale contraddice la sua tendenza ad espanderli oltre ogni limite. Ma proprio perché da una parte esso pone un suo specifico ostacolo, e dall’altra parte tende a superare ogni ostacolo, esso è la contraddizione vivente.

Tramonto di una ipotesi

L'esperienza dei Consigli sarà messa in disparte da Gramsci (pur rimanendo sempre presente al fondo dei suoi pensieri) al Convegno della Frazione comunista di Imola (novembre 1920), dove svaniva pubblicamente l’ipotesi ordinovista dei Consigli (modello Fiat a Torino) quali organi del potere proletario (2), tali, cioè, da esercitare una funzione “egemone” attribuita a lavoratori che occupano la fabbrica continuando a produrre merci non si sa per chi o per che cosa. Mancando il partito rivoluzionario della classe, di quale potere i Consigli potevano essere gli organi? Tuttavia però Gramsci ancora pochi mesi prima scriveva (L'Ordine Nuovo, n. 21 – ottobre 1919)

Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. L'esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia.

Il “testimone” nelle mani del Pci

Vedremo nei decenni successivi del secondo dopoguerra come gli epigoni di Gramsci esaspereranno a loro volta i contenuti degli elementi sovrastrutturali presenti nel pensiero di Gramsci, con il rifiuto e la drastica condanna di quella che definivano (attribuendola alla Sinistra italiana e al suo presunto settarismo) una «visione meccanica del rapporto tra la base economica e la sovrastruttura». Loro, con l’insegnamento di Gramsci, anteponevano la riforma intellettuale e morale a quella (considerandola pur anch’essa una successiva riforma) della struttura. La strada giusta sarebbe cominciata dalla prima riforma (di tipo… spirituale!) per poi, un domani, cominciare a mutare (solo giuridicamente) i rapporti di proprietà e quelli politici tra le classi… Una egemonia innanzitutto da costruirsi sul terreno ideale e morale, come momento decisivo e prioritario per conquistare una funzione dirigente sempre più larga e approfondita del… capitalismo etichettato come “socialista”.

La cosiddetta “piattaforma unitaria”, che il Pci presenterà nel 1945/’46 dopo la “Liberazione”, procedette su questa strada ideologicamente tracciata, imprigionando il proletariato nelle maglie della rete della “democrazia borghese progressista”, spacciata come un “terreno organico” per conquiste e avanzate del movimento operaio e per la “costruzione del socialismo nazionale” (la “via italiana al socialismo di Togliatti “ – 1947). Fino poi sbandierare la necessità della pluralità non soltanto delle forze politiche ma anche delle istituzioni statali (10° Congresso del Pci – 1962): al seguito della italica Costituzione, l’unica fra tutte quelle europee, che si proietterebbe in avanti, aprendo la strada al… socialismo! E si esaltava Gramsci, il maestro, il quale aveva dichiarato di puntare al «massimo livello della scienza moderna, cioè al livello del marxismo depurato da tutti gli elementi estranei, al livello della coscienza di classe»…

Economia nazionale

Pur riconoscendo non poche forzature usate da Togliatti nel manipolare il pensiero di Gramsci, è interessante (e significativo) quello che Gramsci scriveva in merito ad una organizzazione dell’economia nazionale seguendo i concetti, distinti, del “pubblico” e del “privato” (da La costruzione del partito comunista, 1923-’24 – Torino 1971, pag. 34). E nelle esternazioni gramsciane va ricordata la sua valutazione nei riguardi del fascismo il quale non poteva conquistare lo Stato – sempre secondo Gramsci – poiché

come in tutti i paesi capitalistici, conquistare lo stato significa avere la capacità di superare i capitalisti nel governo delle forze produttive del paese. Ciò può essere fatto dalla classe operaia, non può essere fatto dalla piccola borghesia che non ha nessuna funzione essenziale nel campo produttivo, che nella fabbrica, come categoria industriale, esercita una funzione prevalentemente poliziesca, non produttiva. La piccola borghesia può conquistare lo Stato solo alleandosi con la classe operaia, solo accettando il programma della classe operaia…

Affermazioni che evidenziano ancora una volta quanto il pensiero di Gramsci fosse attratto dai compiti di una costruzione e direzione politica (anche se dichiaratamente non… interclassista, come invece la interpreterà Togliatti) nella quale si sarebbero potuti inserire «nuovi gruppi sociali», quelli dei produttori (i salariati), ritenendo che la loro coscienza si stesse affermando storicamente. Ed ecco Gramsci che, di nuovo, al vecchio “blocco storico” borghese (rafforzatosi attorno ai rapporti di produzione e di proprietà dominanti) contrapponeva un «nuovo corso storico», con un parziale richiamo a quella rivoluzione russa che aveva portato direttamente al potere i “produttori”.

Quanto alla “proprietà” dei mezzi di produzione, ma a questo proposito Gramsci si manteneva nel vago, essa era vista in «in funzione della produttività» e avrebbe dovuto affiancare e poi superare – diventando tutt’al più “proprietà pubblica” – quella proprietà privata che a tale funzione non si dedicherebbe affatto nei regimi borghesi...

Nonostante tutto, Gramsci rimase soggettivamente attaccato, almeno negli anni Venti, alla prospettiva rivoluzionaria, benché viziata dalle tare che abbiamo cercato di evidenziare e dall'adesione al corso degenerativo dell'Internazionale comunista, di cui fu il veicolo in Italia. Ma i suoi epigoni andarono ancora più in là, approdando all'aperto tradimento di quella classe che dicevano di rappresentare, appoggiandosi teoricamente al nome di Gramsci stesso, e spesso non a torto.

Opere di Gramsci

La costruzione del partito comunista 1923-1926, Einaudi 1971

Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975

La città futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi 1982

L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana e A. Santucci, Einaudi 1982

Lettere dal carcere 1926-1937, a cura di A. Santucci, Sellerio 1996

DC

(1) Una “coscienza teoretica”. _Abbiamo già avuto modo di approfondire il rapporto culturale esistente fra Gramsci con la sua “filosofia della prassi” e Croce con il suo dichiarato; un rapporto che si approfondiva nel tentativo di assegnare una “egemonia culturale” alla classe operaia, seguendo il corso di un movimento storico che avrebbe visto (sempre in una prospettiva idealistica) lo sviluppo della coscienza e della volontà degli uomini. Una «coscienza teoretica di essere creatrice di valor storici e istituzionali, di fondatrice di Stati…». (Gramsci,_ Quaderni, – Torino 1975, pag. 328).

Questa idealizzazione veniva formalmente respinta – come scrisse Togliatti nel suo Gramsci, 1967, pag. 209 – mascherandola dietro una rivalutazione di aspetti sovrastrutturali, volontaristici, etico-politici, abbondantemente presenti nella storia delle idee. Si trattava in questo caso di una specifica «idea forza» che illuminava una particolare ottica politica; con la volontà degli operai come forza politica; con gli operai («forze sane e buone») che creavano una nuova «classe di governo» (Togliatti – L’Ordine Nuovo, 2 settembre 1921). Ed a cosa si sarebbe finalizzata questa politica? Era ancora un Togliatti che scriveva (Grido del popolo – 1917/1918) attorno ad un interesse del partito dei lavoratori per il «bene generale», per «creare la nazione dei produttori cooperanti in una unità organica al bene comune». (Togliatti, Opere, I° vol. - pagg. 6-13)

Questa «coscienza dei produttori» (tanto esaltata da Gramsci e che si sarebbe dovuta incanalare verso il «bene comune») si doveva nutrire della esperienza ordinovista per puntare ad un «nuovo produttivismo», guardando ad un “americanismo” riformato dai proletari stessi i quali – chiodo fisso! – dovevano appoggiare «l’introduzione di nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività…». Un richiamo, questo, che a volte diventava quasi “ossessivo” in Gramsci. (L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1920 – Per un rinnovamento del Partito Socialista)

(2) Quando nel giugno 1970 Bordiga fu intervistato da Edek Osser, non negò che fin dai primi incontri con Gramsci fosse rimasto “impressionato dalla sua non comune intelligenza”; erano però già manifesti i dissensi fra il Soviet di Napoli, diretto da Bordiga, e L’Ordine Nuovo di Torino. Il Soviet era stato fondato a Napoli nel dicembre 1918 quale organo della Frazione comunista astensionista, per la quale era di fondamentale importanza dedicarsi interamente al progetto rivoluzionario. E nella polemica apertasi con Gramsci a proposito dei Consigli, Bordiga precisava chiaramente che non si trattava di “prendere la fabbrica” per gestirla economicamente e tecnicamente, bensì “prendere il potere” e instaurare la dittatura politica del proletariato.

Alla costituzione nell’autunno 1920 a Imola della Frazione Comunista del Partito Socialista Italiano, dopo aver sciolto la Frazione astensionista, tutti i partecipanti fecero proprie le delibere del Secondo Congresso della Terza internazionale.

Per una più approfondita analisi critica degli accadimenti del periodo, vedi: Imola e Livorno, la fase della costruzione del partito, dal libro di Onorato Damen, Gramsci tra marxismo e idealismo. Edizioni Prometeo.

Venerdì, June 1, 2018

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.