Me ne frego!

Forse Hegel non ha mai detto che la storia si ripete sempre due volte, ma la celebre integrazione di Marx, cioè che la seconda volta si presenta come farsa, continua a stuzzicare la riflessione su quanto accade nel variopinto mondo del politicantismo borghese. Certo, sarebbe eccessivo prendere alla lettera sempre e comunque la “battuta”, ma è anche vero che a volte la tentazione di trovare somiglianze con altre epoche storiche è forte, di fronte agli spettacoli, sconci, che il personale politico borghese non smette di offrirci. Il “governo del cambiamento” si presta bene a questa tentazione, in particolare in queste giornate convulse (fine settembre-primi di ottobre) di presentazione della manovra finanziaria, che dovrebbe finalmente mettere in pratica il libro dei sogni, vale a dire le promesse elettorali con cui i due partiti della coalizione hanno conquistato la maggioranza in Parlamento e, pare, la crescita ulteriore del consenso tra la “gente”.

Non è nostra intenzione, qui, analizzare la manovra, anche perché, mancando dati specifici, è banalmente impossibile. Al momento, non si può far altro che registrare quanto era scontato, vale a dire l'opposizione degli organismi dirigenti dell'Unione Europea a una legge finanziaria che non solo non riduce il deficit, ma lo alza ben al di là del livello che lo stesso ministro dell'economia aveva posto come limite (forse) tollerabile da Bruxelles. Com'è noto, ricorrere al deficit, anzi aumentarlo, significa spendere senza avere il denaro necessario, con la convinzione – cioè l'illusione – che a forza di fare debiti si creerà nuova ricchezza, con la quale ripagare i creditori. Stiamo indubbiamente semplificando per comodità di discorso, questo però, nella sostanza, è quello che pensano non solo i due “lider maximi” vicepresidenti del consiglio, ma fior di economisti laureati nonché le vispe terese del circo Barnum riformista, sovranista e, recentissima versione, “patriottico di sinistra”. Tra parentesi, su questa genìa di marca stalinista, stendiamo un velo pietoso, non volendo, per educazione, esplicitare la natura di quale altro materiale sarebbe meglio usare per coprirne l'indecenza di falsi sinistri e veri destri. Chiusa la parentesi, quella teoria economica apparirebbe strana anche a un bambino, figuriamoci quindi a chi controlla l'economia, per cui sta bene attento a che qualcuno, per incompetenza, cialtroneria e avventurismo politico non ne danneggi il meccanismo, già pericolosamente sotto sforzo a causa della crisi. Crisi che, lo ripetiamo per l'ennesima volta, è ben lontana dall'essere passata e in Italia più che in altri paesi, per una serie di motivi tra cui, non ultimo un debito pubblico oltre il 130% del Pil e che non smette di crescere. Se il presidente di Confindustria si è fatto scappare esplicite – e per questo insolite – parole di apprezzamento per la Lega (poi corrette), forse perché una parte del padronato vota il partito ex (?) padano, le espressioni usate da alcuni pezzi grossi del capitalismo italiano sul governo sono state di tutt'altro tono. Se si usasse il termine “imbufaliti” contro i due super vice primi ministri, non si sbaglierebbe di molto, anzi, nemmeno un po', stando almeno alle voci emerse al convegno della Federazione dei Cavalieri del Lavoro, tenutosi a Torino il 29 settembre. Il Sole 24 ore (30 settembre) non dice se c'erano operai tra i cavalieri e, in ogni caso, ammesso che fossero presenti, o sono stati muti o hanno detto cose irrilevanti, perché il giornale della Confindustria riposta solo i commenti dei suddetti pezzi grossi, unanimemente concordi nello stroncare senza pietà la manovra e, soprattutto, il cosiddetto reddito di cittadinanza. Quest'ultima misura, in particolare, è condannata senza appello, perché considerata assistenzialismo allo stato puro, spesa improduttiva, perciò uno sperpero vergognoso di denaro pubblico, che dovrebbe essere usato in tutt'altro modo. Essi, i capitalisti, dicono per lo sviluppo, per gli investimenti, il che significa dirottati nelle loro tasche e non in quelle dei poveracci, di quelli che i giornali di area centro-destra (quindi anche Lega) con eleganza signorile chiamano “fannulloni”. «Un disastro», «apprendisti stregoni», «chiacchiere da bar», «la negazione assoluta della strada maestra che il Paese dovrebbe prendere»: così si sono variamente espressi i “piani alti” del capitalismo italiano. Non molto incoraggiante per chi si è improvvisamente ritrovato ai vertici dello stato, strumento politico esclusivo della borghesia e non degli “italiani”. Ma, e qui ritorniamo a Hegel (nonché a Marx), non è la prima volta che delle perfette nullità sono state sbalzate in alto perché erano da quelle parti quando la marea della storia è passata di là. La chiacchiera, la spavalderia, il cinismo, la demagogia sono le armi con cui cercano di restare sulla cresta dell'onda e finché questa non si sgonfia, se la possono “cavare” anche egregiamente per anni.

La recita da vicepremier è appena cominciata, non è dunque possibile prevedere per quanto tempo andrà in scena lo spettacolo; ma certo, lo stile dei due primi attori si è già delineato. Uno stile che ricorda altri personaggi, altri tempi. Salvini, in particolare, assume, anzi, accentua sempre di più una postura e un linguaggio che, se partoriti dal Vate per definizione (quel gran c... di D'Annunzio), furono sviluppati fino all'apoteosi dal Duce del fascismo Benito Mussolini. Questi personaggi raggiunsero vette quasi ineguagliabili nell'arte di fare fumo per nascondere un arrosto inesistente e adesso il loro pargoletto padano (idealmente parlando) ci prova a raccoglierne l'eredità, linguistica sicuramente, ma, per certi aspetti, non solo quella. I poteri forti, l'Unione Europea, sono contro il popolo? ME NE FREGO!, io vado avanti lo stesso, il che è l'equivalente del virile motto mussoliniano NOI TIREREMO DIRITTO! Ci manca solo un NOI SPEZZEREMO LE RENI ALLO SPREAD!, ossia alla cricca non demo-pluto-giudaica, ma cosmopolita-elitaria di Francoforte, e la storia, sotto debita forma di farsa, è qui che si ripete. Una farsa però che, naturalmente, costerà cara a chi vive di lavoro salariato, a chi si arrabatta tra sottoccupazione, disoccupazione, pensioni sempre più magre. Denunciare strumentalmente un aspetto del capitalismo per salvare il capitalismo nel suo insieme è una costante che si ritrova spesso nei riformatori sociali, nei “salvatori della patria”, negli “eletti dal popolo”, ma né il rispetto delle regole della UE né il loro rifiuto (parziale o totale) in nome di un capitalismo più giusto e più nazionale sposteranno di una virgola la condizione delle masse salariate, “garantite” o precarie. Né il freddo linguaggio degli “eurocrati” né quello fiammeggiante dei ciarlatani populisti possono risolvere la crisi e cambiare dunque in meglio le condizioni di esistenza del proletariato. Anzi, che i primi continuino a imporsi o che i secondi prendano il sopravvento (poco probabile, a meno di un precipitare drammatico degli eventi), per il proletariato le cose non possono che peggiorare. Se la crisi non passa – e le prospettive vanno in direzione opposta – sarà sempre il capitale che detterà gli stessi compiti a “europeisti” e “sovranisti”.

CB
Giovedì, October 4, 2018