L'aggressivo imperialismo turco rischia di incendiare il Mediterraneo e non solo

La profondità della crisi economica mondiale sta esasperando sia le fibrillazioni degli imperialismi che le condizioni di vita del proletariato internazionale. Le guerre guerreggiate, direttamente o per procura, aumentano di giorno in giorno. Dalla Siria al Nagorno Karabakh la faglia dell'aggressione imperialistica si allunga tragicamente. Se non interviene una forte, determinata frattura rivoluzionaria mondiale, rischiamo di cadere in un prossimo, devastante, conflitto generalizzato.

È dall'agosto di quest'anno che Ankara si è mossa arrogantemente nella direzione del sud-est del Mediterraneo. Nelle acque di Cipro e nel canale tra Cipro e Creta si sono scoperti giacimenti di gas e petrolio e la Turchia, non solo vuol essere della partita per il loro sfruttamento, ma sta giocando duro e in modo scorretto, mobilitando le sue navi da guerra nella zona, rivendicando il diritto di rivedere i vecchi confini marittimi e facendo la voce grossa con la Grecia sino a minacciarla di aggressione. In termini semplici, la Turchia rivendica le isole del Dodecanneso, in modo particolare Castello-rizzo (presenza di petrolio), che gli accordi di Losanna del 1923 e quelli successivi di Parigi del 1947, assegnavano ad Atene. Pretende di estendere le sua giurisdizione marittima ben al di là delle 12 miglia attuali e di rientrare subito in possesso delle suddette 21 isole del Dodecanneso perse dopo il disfacimento dell'impero ottomano. Contemporaneamente manda la nave da ricognizione Oruc Reis, scortata da quattro navi da guerra, nell'area marittima di Cipro, pronta ad iniziare le trivellazioni, senza accordi preventivi e in aperto contrasto con le potenze concorrenti che, allarmate, hanno immediatamente dato vita ad un “consorzio” anti-turco composto da Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Cipro e Malta, con l'intenzione di dissuadere la Turchia di portare a termine il suo piano imperialistico. Per tutti in palio ci sono le materie prime energetiche dell'est del Mediterraneo, il loro sfruttamento, la rendita che ne deriva e il controllo delle vie di trasporto dalle quali dipendono, sia il ruolo strategico di chi le gestisce, che le remunerative tasse della loro via di commercializzazione.

Erdogan non si è limitato a queste ultime mosse. Già nel novembre del 2019 aveva stipulato un accordo con il governo di Tripoli per lo sfruttamento del petrolio, spiazzando le aspettative di Francia e Italia. Quest'ultimi imperialismi d'area mediterranea sono da sempre i maggiori interpreti della contesa spartizione dell'oro nero di Gheddafi. Arrivando sino al punto, (in questo caso specifico la Francia con la collaborazione inglese e il supporto americano), di abbattere nel 2011 il regime del rais libico, aprendo di fatto la crisi del più importante produttore di petrolio del nord Africa, che dura ancora adesso. Erdogan, non a caso, in nome delle offese alla religione islamica recentemente ripartite secondo lui presenti nella recente caricatura di Charlie Hebdo , ha intensificato il suo attacco nei confronti del governo di Parigi, infiammando le piazze turche, quelle pakistane, marocchine e, più in generale, asiatiche, proponendosi, nei fatti, come la nuova guida vendicatrice del sunnismo di marca turca, appuntandosi sul petto la medaglia del “suprematismo islamico” contro l'occidente “corrotto e corruttore”. In precedenza, con i medesimi intendimenti aveva trasformato la chiesa di Santa Sofia in moschea, per ribadire il suo ruolo di leader nel campo musulmano. Contemporaneamente alle tensioni con la Grecia e Cipro, Erdogan ha stabilito un accordo con Putin sui destini della Libia, pur essendo, formalmente, schierato sul fronte opposto: Ankara con Serraj e Mosca con Haftar. Cose di poco conto se in palio c'è l'esautorazione della concorrenza e la possibilità di mettersi d'accordo per controllare e sfruttare il primo produttore di petrolio del Mediterraneo. Non solo, se l'accordo funzionasse, la spartizione della Libia comporterebbe l'agibilità navale commerciale e militare di Mosca e di Ankara che, per opposti e contrapposti motivi, ne trarrebbero notevoli vantaggi nei rapporti interimperialistici con gli esclusi da questa partita. La risposta dell'imperialismo americano non si è fatta attendere. Il 15/9/ 2020 Washington dà vita formalmente ad una Coalizione con gli Emiri del Golfo, con gli Al Khalifa del Baharain e con Israele. La Coalizione a guida americana nasce con il triplice scopo di contrapporsi alle ambizioni russe nel Mediterraneo, dopo la “vittoria” di Mosca in Siria e l'intrusione in Libia, di mitigare l'aggressività turca e, non da ultimo, di impedire l'ingresso nel Mediterraneo all'Iran, alleato di Mosca, pericoloso concorrente nonché atavico nemico.

All'interno di questa Coalizione si sono cementati alcuni rapporti di natura militare e di Intelligence. Gli Emirati concedono basi militari agli Usa e quest'ultimi vendono armi sofisticate agli Emiri. Abu Dabi e Dubai inoltre impiegano all'interno dei propri Servizi funzionari della NSA (National Security Agency) ed elementi dei Servizi segreti israeliani. Contro l'accordo Russia-Turchia sui destini delle ZEE ( zone economiche esclusive), si è dunque costituita la Coalizione a guida americana, che, così facendo, ha fatto sì che sul cadavere energetico della Libia si siano costituiti ben due stormi di avvoltoi pronti a gettarsi su quanto resta da spolpare della inerme preda.

Le propensioni imperialistiche della Turchia non si limitano al Mediterraneo

Erdogan ha iniziato a a dare sostanza al suo obiettivo di essere forza egemone nel Mediterraneo (Siria, dove ancora arma e difende le forze jihadiste, resti dell'Isis compresi, con il triplice scopo di mantenere libero il nord-est della Siria dalla presenza curda del Rojava e di continuare ad essere una spina nel fianco del regime di Bashar el Assad) e, sempre in chiave mediterranea, avere a disposizione una carta da giocare sul tavolo dell'egemonia marittima contro tutti gli avversari, anche se, dal Portogallo a Cipro, passando dalla bellicosa Francia, sono tanti, se non troppi i nemici per un singolo imperialismo dai piedi di argilla. Ha poi continuato con la Libia, dando vita al recente accordo con la Russia, e vuole far sentire il suo peso militare e religioso anche nella strategica zona del Golfo.

Già nel 2011, all'epoca delle “primavere arabe”, Erdogan si era proposto come faro del sunnismo, entrando progressivamente in contrasto con Arabia saudita ed Emirati. Il presunto raggiungimento di una sua leadership sunnita nel Golfo gli avrebbe consentito la possibilità di avere voce in capitolo nelle questioni petrolifere e di essere, in qualche modo, partecipe nelle decisioni sulle quantità di petrolio da estrarre e da proporre sul mercato, contribuendo a condizionarne il prezzo e discriminando tatticamente i possibili acquirenti, pur non facendo parte dell'OPEC. Il gioco non gli è ancora riuscito, ma la sua perseveranza continua. In compenso è entrato in rotta di collisione con l'Arabia saudita e gli Emirati, fatta eccezione per la stretta alleanza con il Qatar e l'astensione tattica dell'Oman. Il progetto era troppo ambizioso e inevitabilmente le smanie di protagonismo di Erdogan lo hanno spinto Erdogan oltre i suoi limiti. Ciò non toglie la pericolosità del personaggio, che a giustificazione delle sue intenzioni ha attribuito a Ben Zayid dell'Abu Dabi e agli altri Emiri del Golfo la corresponsabilità nell'organizzazione del fallito colpo di stato in Turchia del 15/7/2016. L'anno seguente l'Arabia saudita e gli Emirati hanno imposto ad al Thani del Qatar di rompere i suoi rapporti con la Turchia e di cessare di finanziare le “campagne militari” turche in Siria. Dietro le frizioni tra Doa e Abu Dabi c'era e c'è anche il tentativo sia degli Emirati che della Turchia, con la partecipazione dell'alleato Qatar, di proporsi quali punti di passaggio della via della seta cinese nel suo lungo percorso verso la conquista commerciale dell'Europa.

In questo contesto si inseriscono una serie di pressioni economiche e militari tra la Turchia e i soliti Emirati per la gestione dei porti del Corno d'Africa (Somalia Eritrea e Sudan) nonché della Libia e della Tunisia. Il che, data l'estrema volatilità del mercato imperialistico, non impedisce che, in futuro, le alleanze cambino e i fronti si confondano a seconda degli interessi tattici del momento, scenario all'interno del quale la Turchia si è sempre espressa con estrema disinvoltura.

In egual misura va letta l'intrusione militare di Ankara nell'ennesima guerra del Nagorno Karabakh tra Armenia e l'Azerbaigian. Mentre la Russia ha immediatamente preso le difese dell'Armenia, proponendo una soluzione negoziale, la Turchia ha foraggiato, sempre con i soldi del Qatar, la struttura militare dell'Azerbaigian, aggiungendoci la presenza di “esperti” turchi a fianco dei militari azeri. Mosca è intervenuta diplomaticamente nel tentativo di rinsaldare i rapporti con una delle “sue” ex repubbliche caucasiche. La Turchia, scendendo pesantemente sul piede di guerra, ha il dichiarato obiettivo di rompere l'isolamento in cui è caduta. Ha l'assoluta necessità di sostenere una potenza petrolifera dalla cui alleanza spera di ricavarne un vantaggio economico (petrolio e gas a prezzi di favore) e di essere presente militarmente nel mar Caspio che, dopo il Golfo Persico, è il bacino asiatico da cui dipartono importanti vie di commercializzazione del petrolio siberiano, sia russo che di quello kazako che è a sud della Siberia. Con l'aggiunta che la presenza turca in quel bacino darebbe molto fastidio all'acerrimo nemico iraniano che ne controlla la parte meridionale. Non da ultimo, lo scontro contro la confinante Armenia è l'ennesimo tentativo di cancellare la presenza curda da quella terra, non per fare un favore a Yerevan, ma per eliminarla definitivamente dai monti meridionali del Caucaso, quale monito alla comunità curda interna, al suo partito PKK, al fine di smantellare il “sogno” di una autonomia politica e, soprattutto, della nascita di uno stato curdo in terra di Turchia.

In conclusione, l'iperattivismo imperialistico di Erdogan lo porta dalla Siria e dalla Libia nel Mediterraneo, al Mar nero dove è di casa, al Golfo Persico sino al Caspio, in una concatenazione di avvenimenti bellici in cerca di petrolio, di controllo delle sue vie commerciali attraverso la presenza militare nei quattro bacini marittimi legati direttamente o per via mediata alla tanto remunerativa rendita petrolifera e alla sua enorme valenza strategica. Ruolo da grande potenza si dovrebbe dire. Ma la Turchia di Erdogan, patologie e ambizioni politiche del suo conduttore a parte, non ne sarebbe economicamente in grado, se non ci fosse l'aiuto finanziario dell'alleato Qatar.

Il disastro dell'economia di Ankara

Uno dei tanti obiettivi che ingombrano l'agenda politica di Erdogan è quello di riconquistare il gradimento di una parte del suo elettorato che alle ultime elezioni (31/3/2019) gli ha voltato le spalle. In quella occasione Erdogan ha perso le municipalità delle più importanti città della Turchia, che sono passate all'opposizione moderata, come quella rappresentata dai Partiti democratici tollerati dall'impianto costituzionale monocratico di Erdogan. Ha persino tentato un approccio con Abdullah Oçalan per una tregua con il suo partito (PKK). Nonostante questo, ha perso anche a Istanbul, dove aveva iniziato la sua carriera politica come sindaco. E' stato sconfitto anche nella capitale Ankara, a Smirne e Antalya. Gli è rimasta attaccata solo la parte più retriva e bigotta del suo vecchio elettorato, sparso nelle campagne, dove domina il più ottuso rigorismo sunnita. In previsione delle prossime elezioni, che non può permettersi il lusso di perdere se non vuole scomparire dalla scena politica, si sta muovendo in termini imperialistici esasperati, tentando di recuperare sul terreno nazionalistico (revanscismo contro la Grecia, mobilitazione militare ai quattro angoli del mondo, quale simbolo di esibizione di potenza), quanto perso in precedenza in termini di credibilità interna, persino in qualche angolo della sua potente organizzazione partitica. Si è alleato ai partiti religiosi più conservatori per rilanciare lo slogan che il “sunnismo è turco” e che lui ne è la guida indiscussa. Ma c'è anche un nemico interno che si chiama crisi economica e che ha allontanato una parte consistente della borghesia cittadina, dei ceti medi e di una parte dello stesso proletariato. Quello della sua rielezione è un problema di difficile soluzione, data la situazione internazionale, falcidiata dalla pandemia e dalla mancanza di capitali che possano andare agli investimenti produttivi nel tentativo di invertire il segno negativo di una economia nazionale che fa acqua da tutte le parti. Un motivo in più per gettare sabbia negli occhi alla opposizione democratica e, in prospettiva, ad un proletariato oggi fermo, ma che potrebbe alzare la testa da un momento all'altro. Erdogan spera che il “fumo” del primato sunnita, l'agitarsi imperialisticamente in cerca di petrolio, l'esasperato nazionalismo che pervade ogni sua mossa, possano fungere da panacea di tutti i mali interni, quello economico compreso. Le cose però non sembrano assecondare i desideri del capo carismatico, anzi gli si rivoltano contro, perlomeno quelle di ordine economico.

L'economia turca appena uscita da una pesantissima crisi valutaria (2018). che ha messo letteralmente in ginocchio l'intero sistema creditizio, si è scontrata con l'attuale crisi indotta dalla pandemia, che ha messo in risalto le ataviche debolezze di una economia priva di materie prime, di tecnologia avanzata, di un impianto industriale degno di questo nome e con spese esorbitanti in campo militare. Come dire “tanti muscoli ma poca forza che sia in grado di sorreggerla”.

La crisi, in cifre, è impietosa ed è direttamente proporzionale all'agitarsi imperialistico di Ankara, nell'affannosa ricerca di una soluzione ai guai economici e politici interni.

Ad agosto 2020 l'inflazione è salita al'11,3%, quando nello stesso mese dell'anno precedente era già del 8,6%. Questo ha reso le poche esportazioni ancora meno competitive, comprimendole del'11%. Inoltre l'inflazione a due cifre ha contratto i consumi interni, soprattutto i beni di prima necessità - alimentari, vestiario ecc. - del 6%, pesando in modo particolare sulle categorie sociali più deboli, come gli impiegati, gli operai e pensionati.

La disoccupazione è prevista al 17% per la fine dell'anno in corso, per il 2021 non ci sono previsioni ufficiali (il governo tace) ma tutto fa pensare ad un drastico aumento.

La lira turca ha avuto un crollo del 17% nei confronti del dollaro, il che avrebbe dovuto, almeno in parte, favorire le esportazioni. Invece, come abbiamo visto, le esportazioni sono calate del 11% e le importazioni di beni di prima necessità sono aumentate del 7%.

Secondo uno studio della KOC Universitesi, il PIL calerà dall'attuale -5% al -17%, con relativa chiusura di piccole e medie imprese ed un conseguente aumento della disoccupazione, mentre il debito pubblico passerà dal 31% del 2019 al 40,5% della fine del 2020. Poco rispetto ad altri paesi capitalistici, ma un balzo troppo lungo e pericoloso per una economia così fragile.

Il governo pensa di ricorrere ai ripari inscenando una severa stretta monetaria contro l'inflazione che avrà, probabilmente, come effetto principale quello di alzare il costo del denaro e di rendere più difficili gli investimenti, con tutte le ricadute del caso sulla traballante economia.

Sulla scia della crisi valutaria 2018, mai superata ma solo ingigantita dall'attuale crisi pandemica, ci sono giacenti presso le banche turche 22 miliardi di $ sotto forma di prestiti ricevuti ma diventati inesigibili, in corrispondenza di miliardi di prestiti alle imprese, altrettanto inesigibili, a causa di chiusure definitive o di bilanci in passivo, che fanno pensare alla costituzione di una Turk Bad Bank che dia una boccata d'ossigeno all'intero dell'intero sistema creditizio. In aggiunta ci sarebbero ben 169 miliardi di $ da restituire al “munifico” Qatar, con tanto di interessi da pagare. Nota di colore: il ministro del tesoro, ovvero il responsabile delle finanze turche, è Albayrak, genero di Erdogan, da cui prende ordini senza discutere, altrimenti finirebbe la carriera di “Homo economicus” e forse di marito della figlia del boss.

Il debito estero è salito a 172 miliardi di $ al netto dei 169 che la Turchia deve al Qatar. Cifra destinata al rialzo viste i fondamentali dell'economia turca e la sua necessità di reperire capitali dall'estero per non sprofondare completamente nel baratro più nero della recessione. Il turismo ha perso 34,5 miliardi di $ (2019) e per la fine del 2020 si dovrà aggiungere almeno un'altra decina di miliardi di introiti mancati.

Le riserve valutarie si sono ridotte a 25 miliardi di $ dai 75 che erano prima della crisi valutaria del 2018 e la fuga dei capitali esteri e nazionali è diventata una emorragia incontenibile, che sta annichilendo sia l'intera economia reale che quella finanziaria e dando la spinta ai pochi capitali rimasti di imboccare la strada della speculazione che, a sua volta, finisce per peggiorare ulteriormente le cose.

E' così che la fame di capitali sta facendo bianche le notti di Erdogan e del suo ministro delle finanze Albayrak. La spasmodica ricerca di prestiti per risanare le finanze dello Stato, per ripianare il debito estero e quello pubblico ha riscosso al momento solo pochi successi. Rifiutandosi di ricorrere al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, Erdogan si è rivolto in primis agli Stati uniti. Per il momento Trump non ha dato segni di risposta all'inaffidabile alleato che, pur essendo membro della NATO e quindi alleato degli Usa, ha avuto percorsi tortuosi e contraddittori tali da rendere improbabile (anche se non impossibile) un salvifico prestito in moneta sonante da parte degli Usa. In seconda battuta Erdogan si è rivolto alla Cina, che ha ovviamente risposto positivamente (l'entità del prestito non è data di conoscere), nella speranza di entrambi che la Turchia possa diventare uno dei punti nodali della “via della seta”, con vantaggi economici e strategici sia per Pechino che per Ankara. Alla Turchia non sembra vero di iniziare ad avere la liquidità necessaria per rattoppare le sue più grosse falle economiche e per continuare ad alimentare i suoi sogni di grandezza nel Mediterraneo e, come abbiamo visto prima, non solo. Per l'imperialismo cinese il prestito concesso è una sorta di assicurazione al suo ambizioso progetto economico e strategico.

Ma non basta. Erdogan si è anche rivolto al solito Al Thani (Qatar) che, per le ragioni che abbiamo precedentemente visto, non solo non ha fatto pressioni per la restituzione del precedente prestito di 169 miliardi di $, ma ne ha concessi altri 15. Potenza della rendita petrolifera che fa grandi anche gli imperialismi più piccoli.

In conclusione, per l'aspirante restauratore dell'Impero ottomano, se gli obiettivi sono quelli che abbiamo descritto, l'affannosa ricerca di capitali è la condizione necessaria per tentare di realizzarli con l'uso della forza, con la stipula di accordi interimperialistici, con alleanze contraddittorie quanto strumentali. Un gioco a rischio elevato che, in una fase di crisi come questa, rischia di fungere da aratro operante in un campo disseminato di mine. La sua presenza militare in Siria a fianco degli islamismi di vario genere. L'accordo con la Russia per la spartizione del petrolio libico. La minaccia di aggressione nei confronti di Cipro e della Grecia. Gli scontri commerciali e militari con gli Emirati per la supremazia politica in Somalia, Eritrea e Sudan. L'intervento militare nella guerra del Nagorno Karabakh a sostegno dell'Azerbaigian e contro l'Armenia spalleggiata dalla Russia sono i fatti che rendono pericoloso l'ambizioso gioco d'azzardo di Erdogan.

Rifiutato dall'Europa, rotto l'accordo militare con Israele, in lotta con molti paesi all'interno della NATO, pressato dalle elezioni presidenziali e da una situazione economica interna disastrosa, non gli rimane che cercare, in qualsiasi modo, petrolio e gas nel Mediterraneo, proporsi come leadership del mondo musulmano sunnita e giocare la carta dello scontro frontale ovunque e con chiunque (o quasi), anche a costo di perdere la partita.

Le opposizioni interne con poca risposta di classe

La repressione è sempre stata una costante, durante i suoi mandati presidenziali. Ha preso però ad inasprirsi in due situazioni diverse ma dalle medesime conseguenze per gli oppositori. Il primo giro di vite è avvenuto dopo il fallito colpo di stato del 2016. In quella occasione “l'emergenza istituzionale” ha consentito di fare piazza pulita tra i partiti dell'opposizione e quelli legati alla popolazione curda con migliaia di arresti e qualche centinaia di morti. Il secondo è partito con la crisi del Coronavirus ed è tuttora in atto. Erdogan ha trasformato lo “stato di emergenza” in aperta repressione nei confronti di tutte quelle forze politiche che, in qualche misura, contestavano la sua gestione della crisi e lo stato di repressione in cui il regime aveva gettato la popolazione turca. Ad essere maggiormente colpiti dalla mannaia repressiva sono stati i giornalisti non schierati con il regime, avvocati, dissidenti politici, non necessariamente curdi, ed intellettuali della sinistra borghese. Erdogan, con il suo partito AKP, ha monopolizzato la politica della gestione sanitaria e degli aiuti alle fasce meno abbienti. Politica su cui ha puntato per la prossima elezione, sino al punto di non consentire nessuna critica al suo operato, perché lesiva della sua strategia strettamente legata al mantenimento del potere. Nonostante che un sondaggio del E.R. dell'Università di Istanbul lo sbugiardasse, tratteggiando un quadro drammatico per le classi meno abbienti: il 52% degli abitanti ha difficoltà ad acquistare beni di prima necessità, compresi quelli alimentari. Il 68% non riesce a pagare le tasse e le bollette del gas, acqua e luce. Il 42% ha in famiglia almeno un disoccupato. A questo va aggiunto, come abbiamo già riportato, l'aumento al 17% della disoccupazione e un potere d'acquisto dei salari e stipendi diminuito di circa il 25%. Per di più, il primo maggio di quest'anno un piccolo gruppo di manifestanti che ha violato il divieto di manifestazione è stato prima disciolto dalla polizia in assetto antisommossa, per poi vedersi blindare in carcere alcuni rappresentanti sindacali presenti alla piccola manifestazione. Il 15 maggio sono stati destituiti, con la falsa accusa di terrorismo, quattro sindaci regolarmente eletti. Il 22 maggio una vasta operazione di polizia nella città curda di Diyarbakir ha compiuto l'arresto di numerosi attivisti politici. Il 4 giugno sono stati prima sospesi e poi arrestati tre parlamentari dell’opposizione, Enis Berberoğlu (Chp), Musa Farisoğulları e Leyla Güven (Hdp, quest'ultima militante già detenuta nel 2018 a causa di una lunga protesta per indurre la polizia e la magistratura a cessare l’isolamento di Abdullah Öçalan). Altri rappresentanti dell'opposizione appartenenti al Hdp, come Figen Yüksekdağ e Selahattin Demirtaş si trovano in carcere senza processo e senza la possibilità di averlo in tempi brevi. Nella zona orientale del paese a maggioranza curda, gli arresti ai danni dei politici locali dell’Hdp si sono contati a migliaia.

Sul Bosforo il 4 giugno uno sparuto gruppo di manifestanti, mentre si recava presso l’ambasciata americana per denunciare la violenza della polizia, è stato violentemente disperso e 29 di loro arrestati.

In compenso Erdogan il 7 aprile ha fatto votare in parlamento una delibera con la quale, causa Covid, sono stati rilasciati 90 mila detenuti, tra cui molti mafiosi e delinquenti comuni, ma nessuno degli oppositori politici, come i sindaci legati al HDP (maggiore Partito dell'opposizione parlamentare), giornalisti, operai e sindacalisti che di quella sanatoria non hanno potuto usufruire. Questo è il quadro della opposizione interna, che va dalla sinistra borghese al movimento curdo, e della repressione violenta organizzata dal regime di Erdogan nei confronti di tutto e di tutti coloro che hanno osato fare una critica al suo operato. Sul terreno di una, seppur minima, risposta di classe siamo praticamente fermi. Il proletariato turco e quello di estrazione curda sono, per il momento, sotto il pesante tallone delle rispettive borghesie. Sotto quella turca al potere, in quanto parzialmente “affumicato” dalle aspirazioni imperialistiche di grande potenza di Erdogan. Sotto quella borghese democratica e conservatrice, anche se si dichiara di sinistra, che si muove soltanto sul terreno della difesa dei diritti civili e dei “sacri” valori democratici. Sotto quella curda incatenato alla speranza di un nazionalismo o di una autonomia politico-amministrativa che non hanno spazio in una fase storica di assoluto dominio imperialista. Al massimo, simili aspirazioni, (vedi la nascita del Kurdistan iracheno di Massud Barzani) sono la strumentale “realizzazione” di un nazionalismo infeudato con l'imperialismo che lo ha inventato (in questo caso quello americano) unicamente in funzione delle sue prospettive strategiche ed economiche. Una sorta di paese vassallo la cui formale indipendenza è strettamente vincolata agli interessi dell'imperialismo che l'ha favorita.

I proletariati turco e curdo dovrebbero abbandonare le bandiere delle loro rispettive borghesie e iniziare ad imboccare la strada della ripresa della lotta di classe, autonoma e opposta rispetto agli interessi dell'avversario di classe. I pur piccoli ma significativi episodi di lotta contro la dittatura di Erdogan, se si fermano all'antirepressione in nome della “riconquistabile” libertà democratica, rimangono comunque completamente all'interno del quadro capitalistico, senza andare a sfiorare il vero obiettivo delle masse, sfruttate nei perversi meccanismi della produzione capitalistica e turlupinate su quello ideologico. L'obiettivo del futuro muoversi delle masse proletarie non può essere soltanto un cambiamento di gestione del potere (dittatura-democrazia), ma deve avere come unico scopo il cambiamento nel modo di produrre e di distribuire la ricchezza. Le masse proletarie, una volta messe in movimento dalle ferite della crisi economica e dalle vessazioni di un regime repressivo, non devono limitarsi ad invocare la democrazia quale ambito sociale a cui aspirare. Un regime democratico altro non è che una delle tante versioni della gestione del rapporto capitale-forza lavoro sotto mentite spoglie. In un periodo di pesante crisi economica e di sconquasso sociale che coinvolgono i proletari di tutto il mondo, all'ordine del giorno non ci può essere un vero miglioramento economico da conquistare o una forma di gestione sociale più democratica a cui aspirare, ma c'è solo da opporsi all'uno e all'altra per una alternativa di costruzione sociale in cui si produca non per il profitto, non per gli interessi del capitale, ma per i bisogni dell'intera società. Una società nella quale a decidere quanto produrre, cosa produrre e a che costi sociali e ambientali produrre siano gli stessi produttori. Allora e solo allora sarà possibile una diversa distribuzione della ricchezza prodotta, senza crisi economiche affamanti e senza guerre necessarie al capitale per ricreare, con distruzioni devastanti, le condizioni per un nuovo ciclo di produzione, scopo imprescindibile della propria sopravvivenza. Ma per aspirare a questa organizzazione sociale occorre uscire in modo rivoluzionario dagli schemi borghesi, dalle sue Istituzioni, dalle sue perverse dinamiche politiche, per tranciare definitivamente l'iniquo rapporto tra capitale e lavoro, ovvero la madre di tutti i meccanismi di sfruttamento del proletariato e, contemporaneamente, di subordinazione sociale e ideologica. Occorre che le masse proletarie internazionali si organizzino in un proprio partito, fuori e contro qualsiasi forma di condizionamento borghese, il cui programma politico sia il comunismo e non una versione democratico-borghese del capitalismo o, peggio, un capitalismo di stato di staliniana memoria, contrabbandato per comunismo.

FD, 25 ottobre 2020
Domenica, November 1, 2020