A che punto siamo

Covid a parte, lo stato del capitalismo internazionale mostra di essere in una fase storica di profonda crisi strutturale. Lo sviluppo delle forze produttive, che consente di produrre di più a tempi inferiori e di abbassare il costo delle merci, invece di determinare più ricchezza da distribuire e più tempo libero per chi lavora, pone le condizioni per per una crescente disoccupazione e per un maggiore sfruttamento per chi ha ancora un posto di lavoro.

Inoltre, lo sviluppo delle forze produttive innesca la caduta del saggio del profitto. Ovvero più tecnologia viene immessa nei rapporti di produzione e più il capitale costante (macchinari e materie prime) aumenta rispetto alla forza lavoro impiegata, con il risultato di aumentare la massa dei profitti e di comprimere il saggio del profitto rispetto al capitale impiegato, con una serie di rovinose conseguenze che fanno della stessa caduta del saggio del profitto la più importante delle contraddizioni del capitalismo.

Se minore è il saggio del profitto, maggiori sono i problemi che i meccanismi della valorizzazione del capitale devono affrontare dando vita a squilibri del mercato, a crisi economiche, disastri finanziari sempre più frequenti e profondi. Solo negli ultimi cinquant’anni l’andamento della caduta del saggio ha determinato una serie di crisi che gli analisti borghesi si sono affrettati a definire finanziarie. Come a dire che la struttura economica di base, quella produttrice di merci e servizi, è sana e che solo l’ingordigia della speculazione crea crisi che altrimenti potrebbero essere evitate o contenute. Niente di più falso. E’ solo all’interno dei meccanismi dell’economia “reale” che si determinano tutti i fattori delle crisi di valorizzazione del capitale produttivo. Quando questi meccanismi si inceppano perché lo sviluppo delle forze produttive, il plusvalore relativo che ne è alla base, alzano la composizione organica del capitale innescando la caduta del saggio del profitto, parte dei capitali fuggono dalla produzione per trovare nella speculazione il “rimedio” alla non adeguata remunerazione del capitale investito. E’ a questo punto che si sposta la contraddizione del capitalismo dalla base economico-produttiva alla sfera speculativa che, a sua volta, esplode, creando crisi finanziarie che, ricadendo sulla base produttiva, la rendono ancora più debole sino ad aggravare la crisi di valorizzazione dello stesso capitale produttivo che le ha create.

Nella fase attuale dello “sviluppo” capitalistico mondiale, il ruolo del capitale fittizio, la geometrica crescita della speculazione è il segno tangibile che i saggi del profitto sono di gran lunga più bassi della metà del secolo scorso e sono destinati a diminuire ancora rendendo sempre più antistorico questa forma produttiva.

Detto questo, la prima conseguenza della decadenza del capitalismo è l’attacco alla forza lavoro. Attacco che si manifesta su più piani ma con la stessa intensità e violenza. Il primo attacco è all’occupazione. E’ nella logica del capitale investire più in macchinari e tecnologia che in forza lavoro. Anzi gli investimenti in tecnologia sono effettuati per risparmiare sul monte salari. Più macchine e meno operai che le mettono in azione, anche se questo è alla base della sua contraddizione più grande. Infatti Più capitale costante (macchinari tecnologicamente avanzati) e, in proporzione o in assoluto, meno capitale variabile, (forza lavoro) vanno a modificare la composizione organica del capitale che è alla base della caduta del saggio del profitto In aggiunta, l’attacco alla forza lavoro si sviluppa sul salario diretto e quello indiretto. Sulla diminuzione dello stato sociale, sulla decurtazione delle pensioni, sui tagli alla scuola e alla sanità e, quindi sulla qualità di vita del proletariato.

In secondo luogo, un saggio del profitto più basso spinge i capitali, come già detto, alla speculazione, con la conseguenza di indebolire ulteriormente il sistema economico sottraendogli capitali produttivi. Il dato impressionante che conferma questo fenomeno, è quello relativo all’esistenza di una “nube tossica”di capitale speculativo pari a 13 volte il prodotto mondiale lordo che, fuggita dalla produzione reale, aleggia nella speranza di investirsi speculativamente alla ricerca di quei saggi di profitto che la produzione di merci e servizi stenta a garantire . Non importa se si orienta sui “future” legati all’andamento del prezzo del petrolio o nel settore dei metalli preziosi o in qualsiasi altra direzione. Per il capitale speculativo tutto va bene, a condizione di ricavare un vantaggio economico immediato là dove quest’ultimo non viene più adeguatamente garantito nella produzione reale. E’ il gatto che si morde la coda. E’ la contraddizione che squassa il capitalismo maturo mettendolo perennemente in crisi. Questa contraddittoria situazione in cui versa il capitalismo è l’origine di tutti i guai economici e finanziari che si producono e, di conseguenza, per il proletariato internazionale e per la stessa salute del pianeta.

Sempre la crisi del saggio del profitto è alla base di un iper sfruttamento delle risorse naturali. Si va dalla deforestazione per lasciare campo libero alla lucrosa coltivazione della soia, di cereali transgenici, allo sfruttamento sempre più inquinante di combustibili fossili. Per non parlare degli allevamenti intensivi di suini e bovini che producono una quantità di gas metano pari a quello prodotto dall’intero parco automezzi a benzina dell’intero pianeta. La conseguenza è che le emissioni di CO2 e di altri gas inquinanti, nonché climalteranti, determinano “l’effetto serra”. I gas tossici sono altresì alla base delle piogge acide, concorrono all'innalzamento delle temperatura terrestre, al disgelo dei ghiacciai e di tutti quei fenomeni atmosferici che si propongono con frequenza e intensità mai viste. In compenso, le grandi potenze raggruppate nel G.20 e al summit di Glasgow non sono riuscite a mettersi d’accordo su come e quando mettere mano alla “questione” ambientale, perché in contrasto con la crisi di cui soffrono e con i costi che un simile programma prevede. Per cui parole, “buone” intenzioni ma pochi impegni sottoscritti, che comunque non sono vincolanti. Lo stesso accordo tra Cina e Usa sulla diminuzione dell’impiego del carbone come combustibile energetico non va al di la delle buone intenzioni, con il rischio che anche queste, con il passare del tempo, siano destinate a scomparire per rientrare nelle logiche e nelle compatibilità dei rispettivi capitalismi.

Il che (sempre la caduta del saggio) non può che essere alla base di sempre maggiori fibrillazioni imperialistiche. Le “belve capitalistiche “ più sono affamate (di profitti) più diventano aggressive. Là dove ci sono interessi economici di qualsiasi genere od obiettivi strategici importanti, l’imperialismo si esprime con la violenza della guerra, della conquista territoriale, del controllo delle aree di interesse petrolifero o gassoso. Si batte per il controllo dei mercati commerciali e finanziari. Distrugge con la violenza della guerra interi Stati, annientando intere popolazioni (Libia, Siria, Iraq per citare gli episodi più recenti). Con “l’effetto collaterale” di centinaia di migliaia di morti civili, di migrazioni bibliche di popolazioni che fuggono dalle guerre, dalla fame, dalla miseria, dalla morte e dalla mancanza di prospettive di vita e di lavoro. Certo l’imperialismo è “sempre” esistito, non è una novità, ma la crisi da saggio dei profitti accelera tutto questo, rendendolo sempre più aggressivo e barbarico sino al rischio di un conflitto generalizzato, che sarebbe la condizione per una distruzione così vasta da poter essere la base per un nuovo ciclo di accumulazione che salverebbe temporaneamente il capitale dai suoi problemi di valorizzazione, a spese del proletariato mondiale, che ne subirebbe le nefaste conseguenze durante e dopo la carneficina bellica.

Questo è un sistema sociale che non può essere riformato ma distrutto, prima che distrugga uomini e ambiente, ponendo l’intera umanità di fronte ad una catastrofe irreversibile.

Solo il proletariato internazionale può fermare questo drammatico processo, ma a quattro condizioni:

  1. La prima è che trovi la forza di uscire dalle sirene di un nazionalismo guerrafondaio che si camuffa di imperativi religiosi, come se il suo dio fosse il mandante di guerre sante in nome di se stesso e non di una borghesia nazionale e dei suoi interessi economici e strategici. O, peggio ancora, che le solite sirene borghesi suonino la musica della democrazia contro il totalitarismo sia laico che religioso, o la difesa del suolo patrio contro nemici reali o immaginari artatamente costruiti. O si spezza questo nodo tra gli interessi borghesi e quelli proletari oppure tutto rimane come prima: la borghesia dichiara la guerra sulla base dei suoi interessi e il proletariato la combatte contro i propri interessi.
  2. La seconda, corollario della prima, è che il proletariato internazionale deve percorrere la strada della riconquista della sua identità di classe. Deve cioè progressivamente riappropriarsi del concetto che tra gli interessi suoi e quelli dell’avversario di classe non c’è conciliabilità e che la libertà del primo passa per l’annientamento della prevaricazione del secondo.
  3. La terza consiste nell’incominciare a praticare l’anticapitalismo quale condizione necessaria al superamento di una società basata sulla divisione in classi, sullo sfruttamento dell’una nei confronti dell’altra. Occorre arrivare a capire che il capitalismo non potrebbe esistere senza una forza lavoro che produca per il profitto e che più i profitti sono difficili da raggiungere in rapporto al capitale investito, più lo sfruttamento aumenta e più le condizioni proletarie peggiorano. Il rivendicazionismo economico, pur essendo una condizione necessaria alla ripresa della lotta di classe, non è assolutamente sufficiente al superamento del capitalismo.

La quarta presuppone la constatazione storica che tutto quanto detto precedentemente non nasce per opera dello spirito santo e nemmeno dalle sole condizioni economiche. È pur vero che le crisi economiche, per profonde che siano, non sempre e tanto meno meccanicamente, determinano una ripresa della lotta di classe, ma non c’è ripresa delle lotte di classe, anche solo da un punto di vista rivendicativo, che non abbia alla base una crisi economica che metta in discussione il livello salariale e di vita del proletariato. Il che inserisce necessariamente un fattore “sine qua non” senza il quale qualunque manifestazione di ripresa della lotta di classe non ha sbocchi, se a guidarla non c’è il partito rivoluzionario, l’irrinunciabile strumento politico della lotta di classe, che possa elevare la rivendicazione contingente, economicistica all'interno del quadro capitalistico, in lotta al sistema capitalistico stesso.

Il partito della classe non è solo la necessaria condizione per elevare le lotte riformistiche a scontro politico, è e deve essere soprattutto l’insostituibile strumento di una visione tattica e strategica che faccia trascrescere le lotte dall’involucro capitalistico alla sua alternativa sociale. Alternativa che non è quella di una società capitalistica dal volto umano, di una società più compatibile con le necessità dei suoi abitanti attraverso una migliore distribuzione della ricchezza sociale facendo i ricchi meno ricchi e i poveri meno poveri. Prospettando, magari, una redistribuzioni dei profitti a vantaggio dei proletari. Questo insulso riformismo, idealistico quanto utopistico, se non stupido, pretende di raggiungere una parità sociale attraverso una migliore distribuzione la ricchezza socialmente prodotta senza mettere in discussione i meccanismi che regolano, attraverso l’estorsione del profitto, tutte le società capitalistiche. Sarebbe come eliminare un problema agendo sugli effetti lasciando inalterate le cause. È ciò che il partito di classe rivoluzionario deve agitare nei confronti delle masse lavoratrici, perché il loro muoversi rivendicativo, all’interno della cornice capitalistico-borghese, esca da questa cornice, rompa la sua intelaiatura economica e giuridica, e dalla sua rottura inizi a costruire l’alternativa di una società a misura d’uomo e non soggetta alle leggi del profitto. Solo allora sarà possibile una distribuzione in funzione delle necessità sociali e individuali, una società senza classi divise e contrapposte dal profitto. Una società che non abbia come base lo sfruttamento del proprio proletariato e, come necessaria esigenza di sopravvivenza, la propensione all'aggressione e alla guerra quali strumenti di compensazione alle proprie crisi dovute a problemi di valorizzazione del capitale produttivamente investito. Solo allora si potrà porre una alternativa alla barbarie capitalista, alle sue guerre, alla devastazione del naturale equilibrio del pianeta, alle migrazioni bibliche di milioni di diseredati, figli di secoli di sfruttamento internazionale e indigeno. A questi obiettivi deve ispirasi il nuovo partito comunista del proletariato mondiale o sarà sempre di più povertà, sfruttamento, morte senza una via d’uscita che non sia la guerra che tutto distrugge per tutto ricostruire.

FD
Domenica, November 14, 2021