Trilussa teorico della borghesia Su certe statistiche relative ai salari e sul loro uso politico

Periodicamente, quando sui mass media e nella “rete” si parla della situazione della classe lavoratrice1, vengono citati dei dati sui redditi da lavoro, e in particolare sui salari, che l'OCSE2 aveva pubblicato verso la fine dello scorso anno. I numeri avevano suscitato un certo clamore, per così dire, perché dicevano che in trent'anni, dal 1990 al 2020, i salari sarebbero cresciuti in tutti i paesi facenti parte dell'organizzazione, tranne che in Italia, dove erano calati del 2,9%.

Naturalmente, politicanti di vario genere, ma soprattutto del centro-sinistra, si sono impadroniti dei risultati, costituendo per essi un piatto ghiotto per alimentare la propaganda, allora non direttamente elettoralistica, ossia per creare confusione e depistaggi sui responsabili e sulle soluzioni ad un problema così drammatico. Non da ultimo, anzi, perché potrebbe esplodere e mettere a repentaglio quella pace sociale tanto difesa da destra e da sinistra dello schieramento parlamentare. Ma ancor di più lo studio dell'OCSE è stato – ed è – citato dal riformismo, sia in veste “liberal” che radicale, in quanto dimostrerebbe che l'arretramento dei salari italiani è (sarebbe) in ultima analisi dovuto alla volontà di chi detiene le leve del potere economico-politico. Dunque, se è una questione di volontà, sarebbe possibile mettere in atto un'altra politica economica, attenta ai bisogni della classe lavoratrice, staccandosi dal “neoliberismo” e recuperando un ruolo attivo, molto più attivo, dello stato in economia, che lo portasse a dirigere di nuovo i settori economici chiave o, quanto meno, a orientarli, attraverso, per esempio, massicci investimenti pubblici. In pratica, l'abbandono del cosiddetto keynesismo finanziario, cioè il sostegno strategico alla finanza, e il ritorno ad un keynesismo più tradizionale. Freno alla speculazione in favore di un sistema bancario-finanziario sano (?) che sostenga l'economia reale della produzione e dei servizi, a cominciare da quelli funzionali alla produzione stessa. Accelerazione della “economia verde”, al fine di imprimere velocità alla cosiddetta transizione ecologica, per mitigare almeno gli effetti catastrofici già in atto (verissimo) del riscaldamento globale, restauro e rafforzamento dello “stato sociale”, abbondantemente picconato (vero anche questo) da decenni di neoliberismo. Infine, ma non da ultimo, rialzo generalizzato dei salari, fine della precarietà e forte imposizione fiscale sui grandi patrimoni, con la quale finanziare i programmi di rammendo del tessuto sociale - che per i riformisti significa tanto il proletariato quanto la piccola borghesia - strappato dai governi inginocchiati davanti ai dogmi neoliberisti. Dalle associazioni che propugnano una visione etica dell'economia a organizzazioni che si definiscono rivoluzionarie, dalla CGIL al sindacalismo “alternativo”, pur con sfumature anche significative, al fondo si condividono quei capisaldi del riformismo e si ritiene che sia possibile un uso diverso delle istituzioni borghesi (lo stato), quindi che si possa cambiare, se non radicalmente, quasi, la condizione della classe operaia, a partire dal salario. Il fraintendimento sulla natura dello stato è “scusabile” in chi non si pone nell'ottica del superamento della società borghese, un po' meno in chi, invece, pone l'alternativa sociale come “sol dell'avvenire”, anche se lo colloca in una prospettiva talmente lontana da farlo rimanere sempre nascosto sotto la linea dell'orizzonte, preceduto da priorità “concrete” e “immediate”, come la tassazione inasprita delle grandi “fortune” o il forte aumento dei salari. A quel fraintendimento, che sarebbe meglio chiamare misconoscimento, è legato quell'altro, non meno grave, sulla natura del capitale, perché appunto non si vede che anche un modo di produzione ha le sue leggi, diverse, certo, da quelle della fisica, ma pur sempre leggi, solo che essendo un prodotto storico, dell'attività umana, possono essere superate, a patto di superare il modo di produzione nella sua totalità. Detto in altri termini, un forte aumento salariale e/o un taglio drastico alle bollette domestiche sarebbero una potente ventata d'aria fresca per milioni di proletari schiacciati dall'impennata del costo della vita3 e dai bassi salari, dalla disoccupazione e dalla sottoccupazione, ma, visto lo stato di salute assai malfermo dell'economia (quello vero, non quello della finanza più o meno speculativa), è certo, non probabile, che se la classe si mettesse massicciamente in lotta per quegli obiettivi, si scontrerebbe col muro delle famigerate compatibilità capitaliste e quindi con la repressione borghese. A questo punto – anzi, prima! - si porrebbe il problema se la prassi di scioperi proclamati con mesi di anticipo, nel rispetto dei guinzagli normativi, sarebbe adeguata allo scontro in atto, se la spontaneità e la determinazione operaie possano supplire la mancanza dell'organizzazione politica rivoluzionaria, che concentra coscienza e volontà dei settori d'avanguardia della classe e per questo è abilitata alla direzione politica del proletariato. Per noi, ovviamente, la risposta è negativa: senza il suo partito rivoluzionario, mai la classe operaia, nonostante i suoi slanci più generosi, potrà fare il salto verso un mondo nuovo. Ma quel partito dovrà essere necessariamente esteso a livello internazionale, perché il capitalismo domina ovunque sul Pianeta e, nonostante le scontate differenze di area, queste sono comunque comprese nelle tendenze generali del capitale.

Ritornando dunque al punto iniziale, come mai i salari negli ultimi trent'anni sono o sarebbero calati solo in Italia, il che costituirebbe la classica eccezione che conferma la regola, una regola che registra una crescita più o meno vistosa dei “redditi da lavoro” in tutti gli altri paesi OCSE? La cosa lascia perplessi, prima di tutto perché in un'epoca storica di scarse “performances” della cosiddetta economia reale – vale a dire del processo di accumulazione capitalista – sono indeboliti in partenza i presupposti che consentirebbero un aumento generalizzato del salario. Il sospetto, per usare un eufemismo, è che chi si appella a quei dati li prenda per buoni in maniera acritica e rimanga dentro una prospettiva italocentrica, dimenticando che il capitalismo operante dentro i confini nazionali è parte del sistema capitalista mondiale e da questo non può discostarsi molto. Con ciò, sia chiaro, non si vuole certo negare che da anni la classe lavoratrice italiana (qualunque sia il colore della sua pelle) ha visto un degrado progressivo delle proprie condizioni di lavoro e quindi di vita, ma solo ipotizzare che anche fuori dai sacri confini le cose, nella sostanza, non sono molto diverse né molto migliori.

Evitiamo di entrare nelle procedure specifiche della statistica, ma un'osservazione nasce spontanea, ricordando che questa disciplina può dare risultati molto fuorvianti, a seconda dei criteri con cui vengono impostati i problemi e il relativo studio. Il famoso pollo di Trilussa è sempre in agguato, per non dire della battuta di Mark Twain, secondo il quale la statistica è solo una variante della bugia. Certo però che si è tentati di prendere in parola lo scrittore americano, quando, secondo il rapporto OCSE, «Nel primo ventennio del nuovo secolo [...] un lavoratore italiano che nel 2000 guadagnava mediamente in un anno l'equivalente di 39.175 dollari (a prezzi costanti calcolati nel 2020) oggi ne guadagna 37.769 (1406 in meno)»4. Si fa fatica a credere che due anni fa, per non andare più indietro, il salario medio in Italia fosse di oltre 37 mila dollari, sia pure lordi, così com'è ancor più inverosimile prendere per buono il dato secondo cui «Persino i Greci si sono mantenuti in pari, intorno ai 27.200 dollari»5. La Grecia o, per meglio dire, il proletariato e strati significativi di piccola borghesia, passati attraverso il tritacarne sociale della Troika alcuni anni fa, anche e non da ultimo con la complicità del governo Tsipras6(ex campione del riformismo internazionale), che mantiene stabile il livello salariale è solo una barzelletta di pessimo gusto. Non è trascorso molto tempo da dimenticare gli indicatori del tenore di vita della classe lavoratrice precipitati con la caduta verticale dell'occupazione e dei salari, così come quelli delle malattie per mancanza di cure, a causa della rapina sistematica del salario indiretto e differito (lo stato sociale). E' più credibile che dal 1990 a oggi sia aumentato il salario medio sudcoreano o quelli dei paesi baltici, perché partivano da salari decisamente più bassi rispetto a quelli della “metropoli” capitalista e, nel caso dei paesi dell'Est europeo, ha aiutato molto il flusso di massicci finanziamenti che l'Unione Europea ha indirizzato, da quando quegli stati sono entrati a far parte dell'Unione. La montagna di denaro che la UE ha destinato ai paesi ex “socialisti” aveva e ha lo scopo di rendere “l'ambiente” il più accogliente possibile per i capitali, per primi quelli europei, che hanno trovato occasioni di investimento redditizio, a cominciare da una forza lavoro mediamente qualificata e a basso o bassissimo costo. La delocalizzazione di segmenti importanti del settore manifatturiero del continente (e a ruota dei servizi collegati), con i ritmi e i carichi di lavoro aumentati rispetto al “socialismo reale”, che comportano un più intenso e rapido logoramento psico-fisico e i maggiori saggio di profitto conseguenti, hanno implicato che le richieste di aumenti salariali potessero – e persino “dovessero” - essere accolte (fino a un certo punto, naturalmente) dalla borghesia operante in quelle regioni. E' però ugualmente poco attendibile che, secondo l'OCSE, il salario medio dei paesi baltici sia attorno ai 31 mila euro7: basta scorrere una qualunque guida turistica – se proprio non si vuole consultare fonti accademiche o “scientificamente” accreditate – per rendersi conto che, per esempio, dati certi prezzi, un salario medio non può aggirarsi sui 1600/1700 euro netti al mese.

E che dire della Gran Bretagna, dove, sempre secondo l'istituto parigino, il salario sarebbe mediamente aumentato del 44%? Viene da pensare che tutto il cinema che ha raccontato, spesso magistralmente, la devastazione subita dalla working class britannica dalla cosiddetta Lady di Ferro8 in avanti, sia solo un genere come il fantasy o la commedia d'ambiente, che il muratore, il corriere, il disoccupato troppo anziano per essere assunto9 siano grosso modo personaggi di finzione. Qui potrebbe scattare l'obiezione che la letteratura non ha il rigore della scienza, il che è vero, ma si può rispondere che il grande scrittore (o artista in genere) non di rado riesce a cogliere la realtà con un'efficacia e una precisione che tanta “scienza sociale” non può neanche sfiorare, anche se politicamente l'artista si schiera col radical-riformismo o addirittura con la conservazione: un nome per tutti, Balzac. Senza contare che bisogna preliminarmente stabilire se è vera scienza o solo un'applicazione dell'ideologia borghese alla ricerca economico-sociale.

Lasciamo per il momento in sospeso la questione, per andare a vedere cosa sarebbe successo, sempre secondo l'organismo parigino, in Germania e in Francia: anche qui, risultati sorprendenti, dato che i salari sarebbero cresciuti rispettivamente del 33% e del 31%. Sono dati di cui, come e più degli altri, si sono impadroniti i riformisti nostrani che, come tutti i riformisti, sono sempre pronti a vedere l'erba del vicino sempre più verde, a riconoscere alla borghesia degli altri paesi un atteggiamento diverso, cioè meno duro nei confronti delle “classi subalterne” e meno predatorio verso lo stato sociale, rispetto alla classe dirigente del proprio paese. E' una specie di malattia transnazionale e, giusto per fare un esempio, fra i tanti, vale la pena citare un economista di sinistra francese che denuncia il sistema sanitario transalpino: «[le politiche neoliberiste] hanno deliberatamente indebolito la sanità pubblica. Il caso della Francia è stato esemplare: diminuzione del personale sanitario, dei letti d'ospedale, di strumenti di protezione e rianimazione e gestione degli ospedali secondo criteri di redditività. Il risultato fu senza appello: il sistema sanitario arrivò disarmato all'esplosione della pandemia [di covid]»10. La privatizzazione della sanità non è dunque un fatto solo italiano – forse qui è stata più devastante che in altri paesi – tanto che il quadro sopra tracciato si può sovrapporre a quello del Bel paese.

Che dire, poi, della Germania? Anche qui, lo si è detto prima, i salari sarebbero cresciuti in maniera significativa, ma, una volta di più, c'è qualcosa che non quadra. Come può essere che in un paese in cui la precarietà tocca il 28% della forza lavoro11, in cui i cosiddetti minijobs all'inizio del 2020 riguardavano 7,8 milioni di persone, i salari siano aumentati in maniera così decisa? E' risaputo che la precarietà, o sottoccupazione, è un freno formidabile alla crescita salariale, ed è altrettanto noto che la precarizzazione della forza lavoro è una delle armi principali usate dalla borghesia per mettere all'angolo la classe operaia, per schiacciarne le retribuzioni verso il basso, per disciplinarla (ossia ricattarla) attraverso l'insicurezza del posto di lavoro e bagnare le polveri di una potenziale esplosione della lotta di classe. I dati sulla precarietà in Europa differiscono da luogo a luogo, ma in ogni caso, almeno per i paesi più grandi, sono sempre oltre il 20% e anche la legge sul lavoro spagnola entrata in vigore il primo gennaio di quest'anno, se da una parte limita (sembra) le forme più “selvagge” di precarietà, dall'altra incoraggia i contratti part-time a tempo indeterminato, che non risolvono certo, per la classe, il problema dei salari bassi e insufficienti. In breve, per dire una banalità, non è facile muoversi tra i dati squadernati in gran quantità da organismi e studiosi che, guardando il mondo con gli occhiali dell'ideologia borghese, anche ammettendo la buona fede, per i criteri metodologici con cui hanno effettuato le ricerche, presentano una realtà spesso distorta. Prima di tutto – e anche questo è banale – bisogna distinguere tra salari nominali e salari reali, cioè relativi all'andamento dei prezzi, a cominciare da quelli delle bollette e dei generi di consumo, perché, come sta accadendo da una anno a questa parte, se i prezzi si muovono verso l'alto più in fretta dei salari, di fatto questi ultimi stanno calando. Per accennare a un altro aspetto, si potrebbe guardare al numero dei giorni e delle settimane lavorate in un anno, perché la retribuzione oraria potrebbe anche aumentare, ma se la precarietà, il part-time o qualche altro escamotage padronale diminuiscono il tempo di lavoro, ecco che l'aumento dei salari rimane per molti solo un dato statistico, ininfluente sulle loro condizioni di vita “rilevate” dagli enti di ricerca o addirittura maschera un peggioramento. Ci sono poi da considerare l'imposizione fiscale, le trattenute, il taglio-rapina del salario indiretto e differito, in primo luogo della pensione. Infine, ma senza esaurire la questione, certi criteri di analisi attestano un aumento della massa salariale nello stesso momento in cui registrano una diminuzione delle occupazioni stabili, caratterizzate da salari “normali”, cioè grosso modo sufficienti per arrivare a fine mese12: come mai? Il mistero è presto svelato: se calano i posti di lavoro “decentemente” retribuiti (secondo il criterio dell'eterno “Cittadino Weston”), mentre crescono quelli precari e malpagati, è scontato che due salari da 800-1000 euro al mese, per quanto riguarda la misurazione della massa salariale, valgono di più di un salario di 1500 euro e quindi la statistica può annotare un aumento complessivo dei salari. Quindi la statistica, nello specifico, non mente, diciamo così, purché siano chiari i criteri di analisi adottati, dato che per chi è costretto ad accettare un salario decisamente più basso, le cose cambiano, in peggio, e la statistica se la può fumare nella pipa. La pubblicistica, in tal senso, è davvero abbondante; qui riportiamo, a titolo di esempio, un articolo di due autori che certamente non possono essere accusati di farsela con i comunisti, visto il loro stato di servizio. Dopo un accenno a Joseph Stiglitz, il quale «ci ricorda che negli Stati Uniti il reddito mediano di un lavoratore a tempo pieno è allo stesso livello in termini reali [potere d'acquisto, ndr] del 1970, e i salari più bassi sono al livello di 60 anni fa...», proseguono toccando la questione dell'aumento dei salari: «Dal 1995 a oggi, i salari della classe media sono aumentati nei paesi OCSE di circa il 20%, il prezzo delle abitazioni è aumentato di più del 200%. Il risultato è che se ancora negli anni Ottanta, un lavoro stabile era sufficiente per assicurare ad una famiglia media lo status di classe media, oggi sono necessari due salari»13. Due considerazioni vengono immediate. La prima che, come abbiamo detto altre volte, il concetto di classe media comprende per molti intellettuali borghesi una grandissima parte di classe salariata, con un'occupazione e una retribuzione “standard” (contratto a tempo indeterminato salario “normale”...), ma quantitativamente (oltre che politicamente) si sta ritirando da anni sotto l'avanzata della guerra sociale che la borghesia le ha dichiarato dagli anni '70 del secolo scorso. La seconda, che gli economisti dell'OCSE dovrebbero mettersi d'accordo tra di loro, visto che si esprimono in maniera diversa, se non opposta, rispetto ai comunicati ufficiali dell'organizzazione. Giusto per fare un esempio ulteriore, un altro economista della stessa “parrocchia” così si esprimeva tre anni fa: «La stagnazione dei salari è un fenomeno globale, ma in Italia si presenta in forma più estrema e durevole»14. Può essere benissimo che il fenomeno in Italia sia più accentuato, non è questo che contestiamo, anzi (tra precarietà e lavoro nero, figuriamoci...), ma che da una parte si parli di stagnazione globale e dall'altra di aumenti, anche notevoli, di salari in tutti i paesi dell'OCSE, tranne appunto che in Italia. Non è raro che frasi buttate lì quasi en passant siano rivelatrici più di lunghi discorsi e allora la “stagnazione”, se si va a fondo della faccenda, può essere in realtà un calo, sia assoluto che relativo, dei salari.

Alzando lo sguardo oltre specificità e dati settoriali, un criterio che dirime la questione (ammesso che ce ne sia bisogno) è quello di prendere il dato complessivo a livello mondiale, mettendo a confronto la quota del salario rispetto al Pil. Luciano Gallino, in un libro di dieci anni fa, scriveva, riferendosi ai paesi OCSE, da cui aveva attinto i dati:«Nel periodo 1976-2006 la quota salari, cioè l'incidenza sul Pil dei redditi da lavoro (ivi compreso il reddito da lavoro autonomo, il quale viene calcolato come se gli autonomi ricevessero la stessa paga dei salariati) si è abbassato di molto. Facendo riferimento ai 15 paesi più ricchi dell'OCSE, detta quota è calata in media di 10 punti, passando dal 68 al 58% del Pil. In Italia il calo ha toccato il 15%, precipitando al 53% [se i 15 punti] fossero calcolati sul Pil di oggi e in moneta corrente, ammonterebbero a 240 miliardi di euro»15. Una cifra enorme finita nelle tasche del capitale.

Ma qualche pasdaran della borghesia, magari in versione neoliberista, potrebbe diffidare di quei dati, ritenendo Gallino un “radical” estremista, quando invece era uno studioso acuto e onesto, benché interpretasse quei numeri in chiave riformista. Per scrupolo, diciamo così, andiamo allora a vedere cosa raccontano altri organismi internazionali della borghesia, nella fattispecie quelli dell'ONU che, nella sostanza, confermano la tendenza indicata dal sociologo italiano, in compagnia, per altro, di tanti altri ricercatori che non ci risultano aderenti alla Tendenza Comunista Internazionalista.

In un documento (paper, come si usa dire nell'ambiente) del 2019, l'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) presentava il risultato di una ricerca su “La quota e distribuzione del reddito da lavoro” rispetto al capitale e all'interno del lavoro dipendente. Lasciamo parlare il “paper”: «A livello globale, la proporzione del reddito complessivo che deriva dal lavoro è diminuita dal 53,7 per cento nel 2004 al 51,4 nel 2017. Ciò implica che durante il periodo, la proporzione del capitale è aumentata dal 46,4 [c'è un refuso, probabilmente: è 46,3 ndr] al 48,6 per cento». L'OIL conferma dunque la tendenza di cui si sta parlando. Ma nella ricerca c'è un altro aspetto molto importante, che può dare una mano a spiegare certe conclusioni dell'OCSE, cioè l'aumento delle disuguaglianze all'interno dello stesso lavoro dipendente: «Nel 2017, il 10 per cento dei lavoratori più retribuiti ha ricevuto il 48,9 per cento del totale delle retribuzioni, il decile successivo ha ricevuto il 20,1 per cento, mentre il restante 80 per cento dei lavoratori ha ricevuto solo il 31 per cento» Prima di proseguire, è bene ricordare che nella categoria del lavoro dipendente vengono messi i quadri, i dirigenti, le cosiddette figure apicali del personale aziendale, quei soggetti, cioè, che Marx definisce gli ufficiali e i sottufficiali del capitale, coloro che pur non possedendo la proprietà dell'impresa, cooperano e presiedono all'estorsione del plusvalore, di cui ricevono una quota. Ricordato questo, proseguiamo: «La distribuzione del reddito da lavoro dipendente […] mostra una crescente disuguaglianza negli ultimi 14 anni […] La classe media (il 60 per cento dei lavoratori) ha visto, in media, una diminuzione della sua quota di reddito da lavoro dal 44,8 per cento nel 2004 al 43 per cento nel 2017. Per i percettori dei redditi da lavoro più bassi (il 20 per cento del totale)16 il calo è stato persino più duro in termini relativi […] Al contrario, i percettori dei redditi più alti hanno visto aumentare la loro quota media del totale dei salari a livello mondiale. Questa tendenza è influenzata dall'aumento delle disuguaglianze del reddito da lavoro nei grandi paesi del mondo come l'Indonesia, l'Italia, la Germania, il Pakistan il Regno Unito e gli Stati Uniti».

Prima di proseguire con i dati dell'OIL, vale la pena riportare quanto scriveva M. Gabanelli sul Corriere della Sera (11 luglio 2022) citando uno studio «dell'Economic Policy Institute [il quale] mostra che dal 1978 al 2018 le remunerazioni dei Ceo sono cresciute del 940% e quelle dei manager del 339,2%, contro l'11,9 del salario del lavoratore tipo». Proprio nel 2018, usciva su Repubblica un articolo sugli USA dal titolo illuminante, ma non sorprendente: “La crescita dei salari? Un abbaglio dovuto agli straordinari”17. Stralciando alcuni passi dell'articolo, si può leggere che «L'aumento del salario pagato per un'ora di lavoro è, infatti, del 2,9 per cento, rispetto a un anno fa. E l'inflazione? E' al 2,9 per cento […] Ma il lavoratore medio, in realtà, non galleggia. Affonda anche lui. Se dai dati scorporiamo gli aumenti riconosciuti ai manager, supervisori, professionisti (il top delle gerarchie lavorative) l'aumento effettivo del compenso orario risulta del 2,48 per cento, contro il 2,9 per cento di inflazione. La verità, quindi, è che il salario medio reale americano continua a scendere». Sempre nello stesso anno, Jack Rasmus, un economista di sinistra, in un articolo molto dettagliato sul declino degli standard di vita dei lavoratori, calcolava la perdita effettiva di salario per lavoratore solo nel biennio 2017-2018, sottolineando, come nell'articolo di Repubblica, il ruolo distorcente di certe statistiche: «Togliendo la quota dei dirigenti e degli amministratori dalla quota del reddito nazionale spettante al lavoro, la perdita annua per lavoratore con ogni probabilità supererà i 10.000$»18 e questa perdita coinvolge 133 milioni di lavoratori, l'82 per cento circa del lavoro dipendente statunitense.

Ma chiudiamo questa “deviazione” e torniamo al documento dell'OIL, riprendendolo da dove si dice che in GB quell'andamento è ancora più marcato, sia verso il basso che verso l'alto, quindi riesce sempre più difficile dare credito alle statistiche dell'OCSE da cui siamo partiti. Da notare che, secondo l'OIL, le disuguaglianze nella distribuzione del reddito da lavoro sia all'interno del lavoro stesso che rispetto al Pil, hanno avuto lo stesso andamento in Cina e in India, dove pure i salari sono mediamente cresciuti (niente champagne, comunque...) e hanno permesso di accorciare le distanze coi salari dei paesi del “centro”, ma, come abbiamo sottolineato altre volte, contemporaneamente a un arretramento delle condizioni di lavoro nelle “metropoli”. Volendo cercare il pelo nell'uovo (che tanto pelo non è), si potrebbe ipotizzare, senza andare troppo fuori strada, che, al di là dell'aumento delle disuguaglianze nel lavoro dipendente, la riduzione della quota salariale rispetto al Pil sia dovuta anche e non da ultimo all'esplosione del lavoro improduttivo (di plusvalore primario), cioè dei servizi e in particolare di quei settori che gli economisti borghesi definiscono a basso valore aggiunto, a bassa qualificazione (nella ristorazione ecc,) e, aggiungiamo, ad alto tasso di precarietà e di basso salario. Molte attività nel terziario – nella “metropoli” in crescita costante da decenni - sono necessarie al capitale, ma non producono plusvalore (primario), bensì lo consumano, per cui la borghesia cerca di ridurre al minimo questi “faux frais”, costi improduttivi, ovviamente a spese della forza lavoro.

Indubbiamente, il dilagare della precarietà, che ha dato vita a questa “nuova classe pericolosa” che è il precariato di massa19, gioca un ruolo importante nel deterioramento delle condizioni di lavoro proletarie, è uno degli strumenti principali con cui la borghesia opprime la nostra classe, ma anche per le “tute blu standard” (sempre per semplificare) le cose non vanno molto meglio. In un rapporto della CNUCED20 del 2018 – ancora una volta, dunque, prima della pandemia, che ha peggiorata la situazione della classe operaia mondiale – si legge: «L'evoluzione della quota dei redditi dei fattori [per l'economia borghese, si intende il capitale e il lavoro, ndr] nelle catene di valore mondiali manifatturiere [CVM] tra il 1995 e il 2008 è andata a favore soprattutto dei proprietari del capitale, tanto nel Nord quanto nel Sud. A scala mondiale, la loro parte di reddito nell'insieme delle CVM del settore manifatturiero è aumentata di 6,5 punti percentuali, per toccare il 47,8% nel 2008 […] La parte dei lavoratori poco qualificati, che costituiscono la maggioranza demografica del Sud, è fortemente diminuita del 6,3% [e andando ancora più nello specifico] L'esame della ripartizione del valore aggiunto tra capitale e lavoro [dice che] A livello mondiale, la parte del reddito del capitale nelle CVM manifatturiere è aumentata di 3 punti percentuali tra il 2000 e il 2014 […] Parallelamente, la parte dei redditi spettante ai lavoratori del settore manifatturiero, che sono eccellenti rappresentanti della manodopera poco o mediamente qualificata, è diminuita di 3,7 punti percentuali nei paesi a reddito elevato e di 1,3 punti nella maggior parte dei paesi emergenti del G20, a eccezione della Cina...»21. Insomma, comunque la giriamo, il rapporto OCSE appare sempre di più un esercizio di statistica sganciato dalla realtà22, anzi, un fattore di “distrazione di massa” da quella che è la situazione reale della classe operaia mondiale e italiana. Dal “Nord” al “Sud” del mondo possono variare l'intensità e la velocità del peggioramento, ma da questo quadro non si esce. Anche nel “Sud” (e, ricordiamo, nell'Est europeo), dove in alcune aree i salari sono aumentati, ma partendo da livelli infimi, si assiste ad un arretramento del salario – di sicuro almeno relativo – senza parlare della brutalità dello sfruttamento cui è sottoposta la forza lavoro (molto spesso femminile) delle delocalizzazioni, nate in gran parte dagli investimenti dei capitali esteri – in primo luogo del “centro” - in cerca di quelle masse di plusvalore difficili da estorcere nei paesi di provenienza o comunque estorte in quantità insufficiente relativamente alla composizione organica del capitale, mediamente più alta, o molto più alta rispetto a quella dei paesi “emergenti”. Solo per citare qualche esempio, forse estremo, la Intel investirà venti miliardi di dollari per due nuovi stabilimenti a Columbus, Ohio, che occuperanno direttamente 3000 persone, il che significa quasi sette milioni di dollari per occupato e «Ad Austin, in Texas, il nuovo hub di Tesla è costato 10 miliardi di dollari»23; qui, gli occupati previsti nell'immediato sono 5000, per cui il conto è presto fatto: due milioni a posto di lavoro.

Ma per assicurarsi quelle masse di plusvalore, il capitale ha bisogno di un ambiente politico-sociale particolare, di imporre in fabbrica una disciplina del tutto simile a quella della prime industrializzazioni del XIX secolo o del fascismo o ancora, per certi aspetti, degli anni della Ricostruzione del secondo dopoguerra. Non è un caso, allora, che la “globalizzazione” abbia visto un'espansione della popolazione che vive in paesi posti sotto regimi autoritari e, soprattutto, lì si sia diretta una quota notevole dei capitali in cerca di investimenti nella “economia reale”, nella produzione.

A prescindere dall'ottica democratico-borghese dello studio che stiamo per citare, i dati esposti confermano la tendenza della borghesia mondiale a liberarsi degli orpelli “democratici” (o a indebolirli), parallelamente all'incancrenirsi della crisi di accumulazione mondiale: centellinare – si fa per dire – gli attacchi alla classe lavoratrice nell'arco di anni, come avviene nelle “democrazie”, è sempre meno praticabile da un capitale affamato di profitti; da qui, la “scelta” autoritaria. Le “economie autoritarie” svolgono un ruolo di primo piano nel contrastare la caduta del saggio medio di profitto (l'origine di quello che sta avvenendo da mezzo secolo) e, appunto, non è un caso che una quota notevole della produzione mondiale – soprattutto in certi settori – sia stata spostata là dove il dispotismo padronale-statale è più esplicito e più brutale. Finora il fascismo non è stato instaurato nella “metropoli” del capitale, anche se l'attacco alla classe operaia è partito da lì qualche decennio fa (senza fermarsi) e ha sbriciolato le grandi concentrazioni operaie, precarizzato a spron battuto la forza lavoro, riducendola a “volgo disperso che nome non ha”: atomizzazione, difficoltà a riconoscersi come classe inconciliabilmente antagonista alla borghesia, scarsissimo livello di coscienza e di lotta di classe, disorientamento politico ecc. Ma come negli anni Venti e Trenta del secolo scorso le borghesie in maggiore difficoltà hanno portato al potere i fascismi, da oltre trent'anni il capitale punta una delle sue carte più importanti sui regimi autoritari per cercare di uscire da una crisi da cui però non esce: a parte i salari bassi e bassissimi, niente “diritto” di sciopero, repressione aperta nei confronti di ogni tipo di organismo operaio che voglia dare voce alla classe ecc.

E allora, «Nel 2005 circa il 50% della popolazione mondiale viveva in un'autocrazia. Nel 2021, circa il 75% vive in un'autocrazia e solo il 25% in una democrazia. Oggi le autocrazie rappresentano oltre il 30% della produzione mondiale da meno del 15% nel 1989. Il valore di mercato combinato delle loro società quotate è il 30% del totale mondiale dal 3% nel 1989»24. Per aprire una parentesi, sarebbe interessante sapere come l'Accademia dei Lincei qualifichi l'Ucraina di Zelensky, bastione della democrazia contro l'autocrazia (si dice), dove quest'anno è stata varata una legge sul lavoro che ha poco da invidiare a quelle dell'Inghilterra manchesteriana.

Chiudiamo la parentesi e diamo un occhio alla consistenza dei capitali occidentali che hanno avuto un ruolo di primo piano nelle delocalizzazioni: «Nel 2019 lo stock di investimenti all'estero dai maggiori stati europei ha raggiunto il 28% del Pil in Italia, il 46% in Germania, il 56% in Francia e addirittura il 67% in Gran Bretagna. Perfino negli USA, pur fortemente attrattori di capitali, la somma di investimenti all'estero nel 2019 è stata del 36% del Pil. A delocalizzazioni tanto massicce corrisponde il venir meno di posti di lavoro potenziali in proporzioni altrettanto consistenti. Agli stock sopra indicati corrispondono circa 2,616 milioni di occupati mancanti in Italia, 7,770 milioni in Germania, 6,087 milioni in Francia, 8,790 milioni in Gran Bretagna e 22,684 milioni negli USA (calcoli basati sulla legge di Okun)»25. Ma gli investimenti esteri non guardano solo alla Cina – che è un po' meno attraente di un tempo, vista la crescita dei salari negli ultimi anni – alla Birmania o al Viet Nam, c'è anche la democratica Bulgaria, membro della UE, che può offrire ai capitali nazionali e internazionali quei salari che in Europa occidentale sono, al momento, improponibili, sebbene anche da queste parti salari al di sotto del valore della forza lavoro siano sempre più diffusi, a milioni: in Italia, per esempio, il 13,6% della forza lavoro percepisce fino a 5000 euro lordi all'anno, il 26,7% fino a 10000, e il 39,9% fino a 15000 (meno di mille euro al mese)26.

«La riduzione dei salari dei lavoratori agricoli […] significa che l'agricoltura italiana viene ad essere alleggerita di un miliardo e duecento milioni; l'industria viene alleggerita di un totale che va da 800 milioni a un miliardo. Aggiungete i 700 milioni della decurtazione degli stipendi ai dipendenti dello Stato e i 300 milioni di tutti gli altri dipendenti, aggiungete anche i milioni di tutti gli altri operai artigiani per prestazioni diverse, ed avrete un totale di tre miliardi e forse più»27.

Oggi, nessun capo (o capa?) di governo si vanterebbe di avere tagliato salari e stipendi, ma erano altri tempi e il padre “nobile” dell'attuale maggioranza parlamentare se lo poteva permettere, perché schiacciava il proletariato sotto il tallone di una dittatura borghese spietata e cialtrona allo stesso tempo. Oggi, la riduzione del salario, sia in senso assoluto che relativo, avviene, almeno nei paesi “democratici”, per altre vie e, di solito, con la complicità e la connivenza dei sindacati “maggiormente rappresentativi”: pompieraggio delle lotte che minacciano di travalicare le compatibilità o rompere la “pace sociale”, contratti-bidone, politiche dei redditi, accordi sul costo del lavoro ecc., in nome del “Paese” e del “dialogo”; per non dire dei tagli allo “stato sociale”, cioè il furto di quella quota di salario versata per le cure sanitarie, l'assistenza sociale e le pensioni. Il salario indiretto/differito, per quel che ne sappiamo, raramente entra nei calcoli di chi fornisce i dati ufficiali sull'andamento salariale. D'altra parte, le forze politico-sindacali, diversamente al servizio della borghesia, devono assecondare il corso del capitale, ognuna per il settore di propria competenza. Da decenni, i bassi saggi di profitto schiacciano l'economia mondiale e solo un aumento verticale e duraturo della produttività potrebbe cambiare radicalmente la situazione. Ma è proprio questo il punto: la produttività, che per il capitale significa maggiore produzione di plusvalore, non tanto di oggetti in sé, da anni ristagna28 e in questo ristagno globale si distingue, dicono gli economisti, l'Italia, il che spiegherebbe un calo dei salari più accentuato rispetto ad altri paesi.

In giro per il mondo ci sono troppi capitali che non trovano opportunità di investimento soddisfacenti, perché i profitti che ricaverebbero sarebbero troppo bassi rispetto all'entità dell'investimento stesso. E' la manifestazione, appunto, di quella che Marx chiama la legge più importante del capitale: la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Da oltre cinquant'anni sta corrodendo il sistema capitalistico mondiale ed è per questo che, come si è accennato sopra, mancano le condizioni di fondo che permetterebbero un aumento sistematico e significativo del salario. Anzi, lo abbiamo più volte sottolineato, avviene il contrario ed è logico che sia così, nella logica di questo sistema economico-sociale.

Da tutto ciò ne conseguono l'attacco frontale alle condizioni di lavoro e di vita della classe operaia mondiale, la ricerca di vie di fuga, come l'aumento sfrenato della speculazione finanziaria, che in realtà aggravano i problemi, l'accelerazione del saccheggio e della devastazione dell'ambiente, che hanno innescato una crisi climatica dagli effetti catastrofici, e la guerra.

Mai l'umanità si è trovata di fronte a una prospettiva così drammatica, ma una via d'uscita c'è, purché il proletariato dichiari a sua volta guerra alla borghesia, con le armi di sempre: la lotta di classe, la coscienza di classe, il suo partito internazionale per il comunismo.

cb

1Per classe lavoratrice intendiamo la classe salariata, la classe operaia intesa in senso lato, nonché il finto lavoro autonomo: autonomo di nome, salariato di fatto. Quindi, d'ora in avanti, useremo le espressioni “classe lavoratrice” e “classe operaia” come sinonimi.

2Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, con sede a Parigi.

3E' bene ricordare che l'inflazione, a cominciare da quella dei beni di prima necessità, è stata accelerata dalla guerra in Ucraina, ma è cominciata mesi prima dello scoppio delle ostilità, e colpisce più duramente il proletariato e i percettori di redditi bassi, perché i generi di prima necessità e le utenze domestiche legate ai prezzi dell'energia hanno avuto gli aumenti più alti.

4M. Revelli, La lotta sindacale rimette il Paese coi piedi per terra, il manifesto, 9 dicembre 2021. I valori riportati esprimono, secondo l'OCSE, il salario medio percepito dalla classe lavoratrice italiana.

5Revelli, cit.

6Ci verrebbe da chiamare tradimento, se non avessimo saputo in anticipo quale sarebbe stato il comportamento del governo “di sinistra”, cioè l'accettazione e il proseguimento dei sacrifici durissimi imposti agli strati sociali più bassi della popolazione. Da questo punto di vista, Syriza si mostrò per quello che era, una formazione riformista che mai sarebbe andata allo scontro con la borghesia. Ma fu certamente tradimento delle speranze e della fiducia di milioni di proletari che, votando Tsipras, avevano sperato di cambiare le cose, di non dovere dare il sangue, anche letteralmente, alla grande borghesia nazionale e internazionale.

7R. Romano, Salario, dinamica e struttura economica, Sbilanciamoci, 11 giugno 2022.

8Non a caso, amica e protettrice del macellaio Pinochet, nonché fautrice della guerra delle Falkland/Malvinas.

9Ovviamente, il riferimento è ad alcuni film di Ken Loach.

10JM Harribey, En finir avec le capitalovirus [Per farla finita col capitalovirus], Dunot, 2021, pag. 14.

11R. Romano, L'economia di mercato non ha come obiettivo la piena occupazione, il manifesto, 20 gennaio 2022.

12Questa definizione viene usata solo per comodità di sintesi, perché è scontato che uno stipendio “normale” non assicura lo stesso tenore di vita a un “single”, a una famiglia con figli, in una città rispetto a un'altra ecc.

13E. Occorsio – S. Scarpetta, Le disuguaglianze che dividono il mondo e come ridurle, Menabò n. 166, 28 febbraio 2022. Occorsio è un giornalista che ha scritto e scrive su varie testate, tra cui Il Sole 24 ore e Repubblica, Scarpetta è un economista dell'OCSE.

14A. Garnero, citato da A. Magnani in Retribuzioni, calo del 4,3% in 7 anni. Perché il problema dell'Italia sono gli stipendi, Il Sole 24 ore plus, visitato il 17 febbraio 2019.

15L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, 2012, pagg. 104-105.

16Vale a dire 22 dollari al giorno.

17M. Ricci, Repubblica on-line visitata il 15 settembre 2018.

18J. Rasmus, USA: il mito dei salari aumentati, in www.lacittafutura.it visitata il 3 novembre 2018.

19L'espressione è del sociologo Guy Standing. L'espansione del precariato è venuta dopo decenni di riduzione del lavoro precario, che per altro è sempre stato presente nella storia del capitalismo, con andamento alterno a seconda delle fasi del processo di accumulazione.

20CNUCED (Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo), Rapport sur le commerce et le développement 2018. Pouvoir, Platformes et l'illusion du libre échange [Rapporto sul commercio e lo sviluppo 2018. Potere, Piattaforme e l'illusione del libero scambio].

21CNUCED, cit., pagg. 57-58.

22Per dare un altro esempio, in ottobre, sul sito di Collettiva, appariva un dato dell'OCSE riguardante gli stipendi del personale docente in Italia, secondo il quale un/una insegnante delle medie superiori a fine attività lavorativa percepirebbe circa 45.000 dollari lordi all'anno: è semplicemente falso.

23P. Bricco, Così l'America ricerca i suoi anni migliori, persi nel deserto manifatturiero, Il Sole 24 ore plus, 17 settembre 2022. Il numero degli occupati è stato invece reperito in rete.

24P. Paesani, L'economia mondiale e l'Italia nell'attuale contesto globale: resoconto di una tavola rotonda all'Accademia dei Lincei, in Eticaeconomia, 4 luglio 2022

25I. Masulli, Perché è decisivo combattere la delocalizzazione dilagante, il manifesto, 25 settembre 2021.

26N. Giangrande, Salari e occupazione in Italia nel 2021. Un confronto con le principali economie dell'Eurozona, Fondazione Giuseppe di Vittorio. Per dare qualche altro numero, il 73,2% guadagna fino a 26000 euro e l'88,5% fino a 35000. I dati sono ricavati dalle dichiarazioni dei redditi 2021.

27B. Mussolini, discorso tenuto al Senato il 13 dicembre 1930, in L. Salvatorelli – G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Einaudi, 1962, pagg. 511-512. Quello non fu certo né il primo né l'ultimo taglio a salari e stipendi, tanto che, per esempio, i salari dei braccianti agricoli ebbero, tra il 1920 (subito dopo l'inizio dello squadrismo fascista) e il 1936, un calo fino al 70-75%, a fronte di una riduzione dei prezzi, in seguito alla crisi del 1929, ben più modesta. G. Salvemini, ne Sotto la scure del fascismo, fa una disamina dettagliata della rapina feroce operata dal fascismo ai danni del proletariato italiano, a favore dell'«interesse Nazionale» o patriottico, come direbbe l'attuale capa del governo, cioè della borghesia.

28La pubblicistica sulla scarsa o addirittura nulla progressione della produttività nelle principali economie è vasta; qui, a titolo d'esempio, indichiamo un lavoro interessante, non tradotto in italiano: Jason E. Smith, Les capitalistes rêvent-ils de _moutons électriques? L'automation à l'âge de la stagnation_ [I capitalisti sognano pecore elettriche? L'automazione nell'epoca della stagnazione], Editions Grevis, 2021.

Mercoledì, November 2, 2022