LA TRAGICA “PAX AMERICANA” E LA GUERRA DEI DAZI

PUTIN TRUMP E CINA: I PREDATORI SONO ALL’OPERA

“dio mi ha salvato dall’attentato per fare grande l’America” Poi l’unto dal signore non si è limitato allo slogan “America first”, ma ha aggiunto che, una volta salito al soglio pontificale del Casa Bianca, in una settimana avrebbe pacificato il mondo, riferendosi in modo particolare alle guerre in Medio Oriente e in Ucraina. Niente male per un apprendista stregone, tronfio di se stesso, narcisista, arrogante e privo di qualsiasi senso di umanità, ma con un immenso disprezzo degli antagonisti, degli umili in generale, dei migranti in particolare.

Facendo la tara alle farneticanti dichiarazioni, conclamate, contraddette, ripetute a seconda dello stato mentale del dichiarante, dobbiamo prendere in considerazione il piano strategico che emerge da questa inquietante e confusa nebulosa. Al fondo di tutto questo c’è un fattore determinante da cui si deve sempre partire che è la crisi permanente e strutturale del sistema economico capitalistico mondiale e degli USA in particolare. L’economia americana è a pezzi. Negli ultimi tre mesi, i primi tre dell’Amministrazione Trump, la situazione economica e finanziaria è ulteriormente peggiorata. Questa premessa e i relativi dati li abbiamo già elencati in articoli precedenti, qui vogliamo solo ribadire il concetto e aggiornare i numeri dopo i primi 100 giorni di Trump. Il faraonico debito pubblico è passato da 35 mila miliardi di dollari a 36,5 nel marzo di quest’anno. La bilancia dei pagamenti con l'estero ha incrementato il suo deficit da 1,8 mila miliardi di dollari a quasi 2 mila. (dati ISPI). Secondo una stima più volte citata, quasi la metà degli Stati della Federazione sono sull’orlo della bancarotta e solo grazie all’intervento del governo centrale riescono a pagare lo stipendio ai dipendenti pubblici, mentre il 50% delle imprese produttive sono giudicate scarsamente redditizie. Il ponderoso debito pubblico, negli ultimi 40 anni, ha subito una preoccupante progressione negativa nei confronti del PIL. Nel 1981 il rapporto debito/PIL era del 31%. Nel 1984 del 40% e oggi è del 126%, e la progressione negativa è destinata ad aumentare. La crescita del PIL nei primi 100 giorni della nuova Amministrazione è passata dal 3,3 al 2,8. Se la potenza americana riesce a sopravvivere ad una simile situazione è grazie al ruolo egemone del dollaro con il quale continua a finanziare deficit e debiti e a sostenere l’industria bellica, che è l’unica a funzionare a pieno regime. Anche sulla funzione dominante del dollaro abbiamo ampiamente detto, ma è imprescindibile parlare della economia degli Usa senza ribadire questo concetto, che si accompagna alla crisi della caduta del saggio del profitto, ovvero della sempre maggiore difficoltà dei capitali ad investimento produttivo ad ottenere remunerativi profitti, come dice appunto il dato del 50% delle imprese americane che sono scarsamente redditizie.

Pochi dati per introdurre l’irrompere arrogate e grossolano dell'inquilino della Casa Bianca non più, e non solo, come bizzarra forma paranoide, ma come imperialista che, brutalmente, tenta di porre i problemi economici, politici e di geopolitica internazionale (imperialisti) ad esclusivo vantaggio del capitalismo americano in crisi, tentando di farli pagare agli altri imperialismi, fatti salvi quelli vassalli che si possono, molto in parte, giovare del suo rapace progetto, sempre che riesca a portalo a compimento. In sintesi qualche esempio: La bilancia dei pagamenti con l’estero è in passivo? Vuol dire che se le merci e i servizi stranieri sono più competitivi di quelli americani, basta applicare una severa politica dei dazi per risolvere il problema. La metà degli Stati americani ha difficoltà a pagare gli stipendi agli impiegati pubblici? Basta dare al genio di Musk il mandato di ripulire l’Amministrazione pubblica con 50 mila licenziamenti, e anche questa è fatta. Il “sistema “ America rischia di essere superato dalla Cina su tutti i fronti? Basta costringere, anche a suon di penalizzazioni economiche, le imprese americane che hanno investito all’estero a ritornare all’interno dei confini patri e costringere con il ricatto dei dazi le imprese internazionali ad investire nel mercato Usa. Prima si esportavano capitali e tecnologie, ora bisogna fare il contrario. Autarchia produttiva e attrazione dei capitali esteri che, ultimamente, si orientavano verso l’Europa e i BRICS, Cina e India in primo piano. Occorrono le materie prime strategiche (terre rare, ma non solo) per reggere la concorrenza internazionale sull’alta tecnologia? No problem: queste materie prime sono in Groenlandia? Va bene. Basta annettere con le buone (comprare) o con le cattive (conquistare) l’isola che è sotto la giurisdizione “solo” come territorio autonomo della Danimarca, e anche questo problema è risolto. In Canada ci sono petrolio e minerali strategici? Che il Canada diventi il 51 esimo stato degli USA. C'è la necessità di controllare le più importanti vie di commercializzazione del petrolio, del gas, delle navi container ? Basta prendere con la forza il controllo del Bad el Mandeb all’ingresso del Mar Rosso, bombardando con missili le postazioni Houti. È imprescindibile gestire il canale che congiunge l’oceano Atlantico al Pacifico per controllare il più importante raccordo marino del mondo? Basta minacciare lo Stato panamense e costringerlo ad accettare le proposte americane di una “comune” gestione e impedire alla Cina di usufruire di due porti strategicamente situati lungo gli oltre 80 chilometri del Canale. Detto e fatto? No, dietro il delirio di onnipotenza si nascondono rozze strategie e montagne di problemi interni. Comunque è da questa situazione che nasce la fretta di chiudere i due episodi di guerra ancora presenti per concentrare le energie sul nemico numero uno degli Usa: la Cina. Non che l’area mediorientale non abbia rilevanza economica e strategica per Trump, ma concedere all’imperialismo alleato israeliano il compito di creare un nuovo ordine occidentale in loco, pagato da Washington e militarmente gestito da Tel Aviv, poteva essere una mossa interessante, tanto da considerare l'operato della Amministrazione precedente l’unica cosa intelligente fatta da Biden. Lo stesse discorso vale per la guerra russo-ucraina. La guerra di Putin è costata non poco all’economia di Mosca. I risultati militari ci sono stati, ma parziali e gli aiuti iraniani e cinesi si sono ridotti all’invio di armi (non sofisticate), mentre le sanzioni e la resistenza ucraina ampiamente foraggiata dall’Amministrazione Biden (350 miliardi di dollari) hanno fatto danni sia economici che materiali, senza contare una situazione sociale interna di sempre più difficile gestione. Per cui una Russia indebolita da tre anni di guerra e una UE assolutamente non in grado di interloquire, nemmeno a livello negoziale, creava la seconda condizione per Trump di giocare la sua partita contro la Cina con maggiore calma e concentrazione. Per entrare un po' di più nelle specifico, mettiamo in ordine, anche se sinteticamente, tutti i fattori in gioco. Partiamo dalla guerra tra Hamas e Israele.

LA PAX AMERICANA IN MEDIO ORIENTE

L’Amministrazione Biden, in linea con tutte le Amministrazioni americane precedenti, di fronte alla “programmata” risposta israeliana all'attaccato del 7 ottobre, ha sostenuto, finanziato e armato l’esercito israeliano consentendo a Tel Aviv di mettere in atto un processo di modificazione dei rapporti di forza imperialistici tra Israele e i tentacoli filo iraniani e, contemporaneamente, di dare il via alla formazione della “grande Israele”, che non prevede la presenza dei palestinesi in terra di Palestina. Trump con il suo “stile” animalesco, senz’anima e senza la minima pietà per la immane tragedia, non certamente rappresentata della sconfitta militare di Hamas, ma per i destino degli ostaggi e per le decine di migliaia di morti tra la popolazione civile di Gaza, ha continuato la politica di appoggio di Biden ad Israele, con l'aggiunta di qualche inumana prospettiva a favore di Israele e di grande interesse strategico americano. Trump ha salvato il macellaio Netanyahu dalla condanna per crimini di guerra contro l’umanità, ha disconosciuto le accuse della Corte penale internazionale, ha sottaciuto sulle continue violenze dei coloni, appoggiati da reparti dell’esercito israeliano contro palestinesi in Cisgiordania. Aggiungendo che i nuovi insediamenti non sono illegali, compresi quelli in Libano che arrivano sino al fiume Litani, quelli in Siria attorno alla alture del Golan per rafforzarne il controllo. Il tutto senza far mancare l’aiuto militare che ha reso possibile questo massacro di civili, sottacendo l’impossibilità di far giungere nell’area di Gaza, ormai senza acqua, luce e gas, qualsiasi rifornimento alimentare, rendendosi corresponsabile di crimini inauditi anche se perpetrati in una situazione di guerra. Ma in gioco c’era e c'è ancora il progetto di Israele di costituirsi quale unico Stato in terra di Palestina, di fungere da guardiano armato di tutto il Medio Oriente, di essere il “cavallo di Troia” per costringere l'Iran ad addivenire ad un accordo con gli Usa sulla questione nucleare. Per Trump le proiezioni micro imperiali di Netanyahu sono funzionali ai progetti macro imperialistici di Washington, al punto di sbilanciarsi in una serie di dichiarazioni ufficiali a favore del piano israeliano come “ la prospettiva di due popoli e due stati non è più praticabile”, aggiungendo che per i palestinesi “c’è solo la prospettiva di abbandonare Gaza per migrare verso l’Egitto (Sinai), Siria, Libano e Giordania”, lasciando libero il campo perché, per il palazzinaro della Casa Bianca, tutta l’area costiera si presterebbe ad esse ricostruita come una “Miami mediterranea” dalle grandi prospettive per i business man americani ed europei. Non importa se i palazzi, le ville e gli agglomerati hollywoodiani della nuova Gaza sorgeranno sulle fosse comuni di decine di migliaia di cadaveri palestinesi, l’importante é che la guerra porti dei grassi business ai vincitori: per i vinti c’è solo un “guai!”.

La pace arriverà, forse, e quando Israele avrà portato a compimento la sua pulizia etnica contro il popolo palestinese, l’annullamento di tutti i tentacoli dell’imperialismo iraniano, tanto caro all’Amministrazione Trump, allontanato dalle coste siriane di Tartus e Latakia, (altro favore a Trump) la flotta russa per relegarla nella instabile Libia di Haftar. Alleato di Mosca, ma solo per convenienza tattica, dato che se la deve vedere con il governo di Tripoli spalleggiato dalla poco affidabile Turchia di Erdogan. Dando vita in Medio Oriente ad un nuovo equilibrio d’area tutto nelle mani dell'imperialismo occidentale. Contemporaneamente, a completare l’opera, l’aviazione americana ha pesantemente bombardato le alcune postazioni militari degli Houti che ostacolano l’ingresso al Mar rosso controllando lo stretto di Bab el Mandeb. Il che ha immediatamente innescato la reazione della “Triade imperialista” avversaria (Russia-Iran-Cina) che ha incominciato a pattugliare lo stretto con le proprie navi da guerra “mimando” esercitazioni che non hanno nessuna intenzione di essere temporanee. Questa è la “pace” in Medio Oriente di Trump tanto promessa, quanto di difficile realizzazione, viste le tensioni imperialistiche che ancora operano in una delle aree più delicate e strategiche del mondo.

LA PAX AMERICANA TRA RUSSIA E UCRAINA

La soluzione della guerra tra Russia e Ucraina, in realtà tra Ucraina e Usa-Nato, voluta e finanziata dalla Amministrazione Biden che, per lo sbruffone Trump si sarebbe conclusa anch’essa nell’arco di una settimana, presenta notevoli problemi di difficile soluzione. Nella fase iniziale delle trattative sembrava che Trump scaricasse definitivamente Zelenskyj per favorire “l’amico” Putin, concedendogli a parole tutto quello che pretendeva. Molti analisti sprovveduti si sono spinti addirittura a dire che l’empatia di Trump nei confronti del suo omologo russo fosse dovuta ad una similitudine caratteriale, ad una reciproca stima per le rispettive posture politiche, ferree e dittatoriali, come se la politica estera di tali centrali imperialiste fosse una questione di empatia e non di interessi economici e strategici. Più avanti gli stessi analisti si sono meravigliati di come Trump si esponesse troppo a favore di Putin, giustificando l’atteggiamento come una necessità di mantenere, nei confronti del suo elettorato, la promessa di risolvere, sempre nell’arco di una settimana, la ormai più che triennale guerra tra Russia e Ucraina. E non da ultimo che volesse dimostrare al mondo intero il fallimento del partito democratico e di operare fattivamente sul terreno della cessazione del conflitto e non per la sua continuazione. Ai suddetti analisti sfugge una semplice considerazione: la postura politica di Trump aveva solo lo scopo di tentare di allentare il filo che lega Mosca a Pechino, nella speranza di avere un po' più di mano libera nel preparare lo scontro con la Cina nell'Indo-pacifico, sulla questione Taiwan e su altre questioni di natura commerciale e finanziaria (dollaro-yuan), di interesse vitale per entrambi gli imperialismi. Ardua impresa, perché, nella fase attuale, la Triade imperialista Russia, Iran e Cina pare indissolubile, ma alla Casa Bianca hanno pensato almeno di provarci.

I tentativi americani di mettere attorno ad un tavolo Zelenskyj e Putin sono miseramente falliti, mentre le feroci attività belliche di Mosca continuavano e le stesse minacce di Trump di togliere gli aiuti militari a Kiev per costringerla al tavolo delle trattative, non si sono concretizzate. Il 24 febbraio 2025 si è iniziato a parlare di trattative che coinvolgessero i due contendenti sotto il patrocinio dell’America per una eventuale e parziale tregua di 30 giorni con tanto di gesti concreti come lo scambio di 175 prigionieri a testa. L’approccio però è naufragato per le pressioni russe su altri scottanti problemi. Il secondo passo, in realtà il primo con le delegazioni al completo, si è tenuto a Riad a marzo con lo stesso risultato. Anche il secondo incontro Riad ha avuto lo stesso esito negativo, nonostante l'ottimismo di maniera di Trump che doveva continuare a recitare la parte del pacificatore. La stessa fine è toccata a Londra nel fine mese di Aprile. Si è pure tentata una giornata di tregua per pasqua, proposta da Mosca e accettata da Kiev, che non è durata nemmeno 24 ore. Il fatto è che troppi e troppo importanti sono i problemi che pesano sui tavoli delle trattative. Al momento una sola ambizione accomuna Mosca e Washington: mettersi d’accordo, se accordo ci sarà, sul saccheggio delle risorse energetiche e minerarie dell’Ucraina, mentre rimangono conflittuali su alcuni punti fondamentali da un punto di vista strategico. Per Mosca in ballo c’è 1) la sicurezza della navigabilità del Mar Nero per la commercializzazione dei cereali russi; 2) il ritiro delle sanzioni economiche e finanziarie. Ovvero, Mosca chiede la rimozione di tutte le sanzioni relative al settore agricolo e bancario, con il reinserimento dei suoi Istituti finanziari nel sistema Swift necessario a tutte le banche russe per le transazioni internazionali; 3) il possesso delle province russofone del Donbass, ovvero quelle del Luhans'k, Donetsk, Zaporizhhia e Kerson, nonché l’enclave di Kursk, in feroce disputa con l’Ucraina, che su queste pretese non intende cedere; 4) la creazione di una fascia di sicurezza tra i due paesi non gestita da militari Nato né UE, ma da forze militari terze; 5) l’ufficialità definitiva del possesso della Crimea; 6) l’assicurazione che per 20 anni la Crimea non entrerà a far parte della Nato che, formalmente, è stata la causa dell’inizio della guerra. Nonostante Trump abbia garantito gli ultimi tre punti, Putin temporeggia al solo scopo di realizzare anche gli altri obiettivi e di partecipare anche alla spoliazione delle risorse ucraine con particolare riferimento alle terre rare e alla riapertura dei gasdotti Stream 1 e 2. Trump aveva avanzato una mezza promessa di riaprire i condotti a sue spese, ma a condizione di averne la gestione, cioè di controllarne i rubinetti. Cosa di pessimo gradimento per Mosca. Per quanto riguarda lo sfruttamento delle terre rare, il cui 60% è nel Donbass, quindi di pertinenza russa, Trump ha inizialmente proposto a Zelenskyj di sottoscrivere un accordo che prevede la nascita di un Fondo americano che abbia in appalto non solo lo sfruttamento delle miniere delle terre rare ma anche quelle di carbone e dei bacini petroliferi, e che abbia il monopolio nella ricostruzione post bellica. Progetti che, certamente, non sono stati graditi a Kiev, che vuole almeno maggiori garanzie di difesa, e nemmeno a Mosca, che resterebbe a mani vuote. Come non sono graditi nemmeno gli aiuti bellici che Trump, nonostante la minaccia di sospenderli, continua a fornire ufficiosamente a Kiev contrastando gli attacchi di Mosca. E come ultima mossa, Trump è riuscito, dopo lunghi contrasti, a vincere le resistenze di Kiev e a far firmare ufficialmente l’accordo a Zelenskyj sulle terre rare e sulla costituzione di un fondo per la ricostruzione, il Recovery Fund. Prima conclusione: la firma dell’accordo ha spostato definitivamente i rapporti con Mosca, rendendo la possibilità di una tregua ancora più difficile. Questa è la pace di Trump che non si realizzerà sino a quando i due imperialismi non troveranno una soluzione, ormai impossibile, sul saccheggio delle ricchezze ucraine giocato sulla pelle di milioni di proletari, che nel frattempo si massacrano, gli uni contro gli altri, sotto le bandiere insanguinate dagli interessi delle rispettive borghesie. Come precedentemente detto, la fretta di Trump di chiudere le vicende le Medio Oriente e della Ucraina, sempre più lontane, sta solo nel fatto che vuole togliersi d’impiccio la vicende dell’Europa orientale, di concludere la questione del Mediterraneo dando in mano a Israele le redini del nuovo ordine, per puntare il tutto contro l’Iran, il suo pericolo atomico e contro la Cina, che rimane il pericolo n°1. La Russia indebolita da tre anni di guerra, la si poteva accontentare con qualche concessione, nella speranza vana, come abbiamo visto, di usufruire di un atteggiamento il più possibile neutrale con il suo alleato cinese, ma la reticenza russa e l’accordo Washington-Kiev hanno ribaltato tutta la questione. Anche per questo, l’imperialismo di Mosca continua a bombardare Kiev, a fare migliaia di morti e continuerà sino a quando i suoi obiettivi non saranno raggiunti completamente, nonostante le finte aperture a possibili negoziati, se non di pace, di tregua dei combattimenti, dichiarata e puntualmente violata. L’ultimo quello che ha proposto lo stesso Putin unilateralmente: una tregua tra l’8 e l’11 maggio. Dichiarazione che suona più come una pubblicità a costo zero. Nel testo si dice che la tregua è programmata in virtù dell’ottantesimo anniversario della sconfitta del nazismo per mano dell’Armata Rossa, ma che se i “nazisti dell’Ucraina non si arrendono”, per loro ci saranno solo bombardamenti e sconfitte militari. Mentre Rubio, nella stessa giornata, (Adnkronos), dichiara che si apre oggi “una settimana cruciale per decidere se vogliamo continuare a impegnarci” per risolvere la questione Ucraina. Enfatizzando poi alla Nbc News, dopo l'incontro a Roma tra Donald Trump e Zelenskyj con relativo accordo sullo sfruttamento delle terre strategiche (30 Aprile), contornato delle accuse del presidente americano a Vladimir Putin, di non volere realmente una trattativa: "Non possiamo continuare a dedicare tempo e risorse a questo sforzo se non si concretizza...". Trump ha rincarato la dose, con una contorsione che ha dell’inimmaginabile, che non si può non riprendere con gli aiuti militari, immediatamente stanziati per una prima trance di 50 milioni di dollari, a chi è stato aggredito!! Rovesciando di 180 gradi la contraddittoria tesi secondo la quale il responsabile della guerra fosse Zelenskyj e non l’ex “amico” Putin. La guerra quindi continua. Riprendono dunque ufficialmente gli aiuti militari a Kiev, e aumentano i disastri umani e ambientali. Tutto il fronte della guerra è ancora aperto, con l’aggravante di Trump che, fallito il tentativo di compromesso con Putin, ripercorre il sentiero di guerra di Biden nei confronti della Russia, con il risultato di riavvicinarla alla Cina.

TRUMP E LA POLITICA DEI DAZI

Fin nelle ultime settimane di aprile, Kiev ha provato a opporsi alla linea che la Casa Bianca sembrava dare per scontata. L'Ucraina, diceva Trump: “deve rassegnarsi a cessioni territoriali. Parliamo di confini e territori"; tali sono state le perentorie parole del presidente degli Stati Uniti. Washington potrebbe riconoscere la Crimea come russa e spingere Kiev ad accettare la perdita delle regioni che Putin ha annesso dall'inizio della guerra: Luhans'k, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia, dove si trova la centrale nucleare che, strana contraddizione, fa gola anche agli Usa. Nei colloqui ultimi di Riad Zelenskyj cercava di fare muro dichiarando "non c'è stato alcun accordo con noi sui territori, lo sanno che questa è una questione delicata, ne ho parlato fin dall'inizio". Poi però Zelenskyj ha dovuto cedere al compromesso non solo sui territori ma anche sulle terre rare, come abbiamo descritto poco sopra. Fase di stallo? Sì per quanto riguarda le trattative da ultimare. No, perché Trump ha deciso altrimenti, in attesa che i due conflitti si esauriscano, mentre lui stesso concorre a prolungare, per creare nel frattempo le condizioni di un rilancio della potenza americana nel mondo. Il rilancio avrebbe come premessa una virulenta politica dei dazi contro tutti i paesi che esportano negli Usa, quale ottima “soluzione” ai problemi americani. Sembrerebbe un film di Totò (comico dell’assurdo), invece è un dramma con tutte le contraddizioni di cui è capace il presiedente degli Stati Uniti. A questo proposito lasciamo perdere le bordate sparate con un kalasnikov caricato a dazi. Sparate a raffica dallo Studio ovale sono partite le bordate contro il Canada se non si fosse dato una regolata con le esportazioni verso l’America, altrimenti minacciato di diventare il 51 esimo Stato degli Usa. Lo stesso discorso per il Messico, poi l’Europa , il sud America, l’Asia e la Cina, che da subito ha avuto un trattamento speciale, cioè una barriera doganale molto più alta rispetto agli altri paesi, praticamente tutti quelli che esportano negli Stati Uniti. In una fase immediatamente successiva, dopo il crollo delle borse mondiali, quelle americane comprese, qualcuno ha suggerito al vulcanico presiedente di moderare i toni. Trump ha così deciso una tregua di 90 giorni, prima di rimettere in gioco la politica dei dazi, infine ha “calibrato” i dazi a seconda i rapporti commerciali bilaterali con calcoli assurdi. Infine avrebbe deciso di mettere una museruola commerciale del 20% a tutti, meno che alla Cina, non a caso, che si è vista comminare una pena del 146%. Ciò non toglie che Trump abbia fatto l’ennesima virata “distensiva” tenendo conto del fatto che la Cina detiene, sotto forma di Bond, una quota parte importante del debito pubblico americano (800 miliardi di dollari) e che già prima della guerra dei dazi aveva cominciato e metterli sul mercato con il deliberato obiettivo di svalorizzarli e di incidere sul potere del dollaro. Bisogna poi tenere conto che i dazi si sono rivoltati contro di lui nei settori chiave dell'economia, soprattutto nel settore dell’alta tecnologia. Infatti il Financial Times le parole di, riporta García-Herrero, capo economista della banca d’investimento Natixis e Senior Advisor ISPI secondo il quale: “Pensavano di poter aumentare i dazi quasi all’infinito senza subire danni, ma la loro ipotesi non si è rivelata corretta”. La critica continua dicendo che, al di là dei proclami, gli Stati Uniti non hanno nemmeno ottenuto concessioni dalla Cina. Anzi, il Wall Street Journal definisce l’accordo raggiunto a Ginevra una resa di Trump, costretto a subire pesantemente le pressioni dei mercati e lo spauracchio di scaffali vuoti, paventato da tutti i maggiori gruppi della distribuzione, per cui continua: “Invece della guerra alla Cina promessa dal presidente, la Casa Bianca sembra aver optato per una ritirata tattica inviando allo stesso tempo un segnale chiaro, ovvero che anche gli aspetti più aggressivi delle sue politiche commerciali possono essere negoziabili.” E si chiede: “ La montagna ha partorito un topolino? Non proprio. L’accordo tra Cina e Stati Uniti rispetto una riduzione temporanea dei dazi ha comunque un costo economico, perché lascia una situazione peggiore per il commercio internazionale di quella che c’era prima del 20 gennaio. Ma, soprattutto, ha un costo politico perché toglie forza alle scelte estemporanee di Donald Trump che si è trovato a dover fare un accordo con quello che è stato individuato come l’avversario principale. Certamente è possibile per il Presidente Usa rivendicare come il livello di dazi raggiunto fosse quello pensato fin dall’inizio e reso possibile solo tramite negoziazione, ma nel frattempo la credibilità degli Stati Uniti come partner stabile e affidabile è stata messa in discussione. Un prezzo che potrà essere pagato dagli Usa in Europa e in Asia, con Giappone, Corea del Sud e Asean, nel futuro”. Mentre il progetto “Bond” potrebbe rimanere fermo sulla carta senza nessun vantaggio per le finanze americane.

Ovviamente la farsa è destinata a continuare e allora andiamo alle radici del provvedimento lasciando perdere le convulsioni del presidente.

A confezionare la politica di dazi come “terrorismo commerciale” da usare come ricatto politico, oltre che economico, nei confronti dei paesi più esportatori nei confronti degli Usa, o quelli più ostili o, peggio ancora, nei confronti di quelli che si vuole che si allineino completamente ai disegni strategici del nuovo ordine mondiale “made in Usa”, ci ha pensato un certo Stefan Miran. Il “Carneade” appartiene al “circolo magico” di Trump, noto non per la sua statura di economista, al contrario per la sua incompetenza in materia. Al fianco gli è stato messo Peter Navarro, economista di seconda linea scelto da Trump solo perché fortemente determinato a contrastare la Cina in tutti i campi, quello commerciale compreso. I due hanno stilato un piano di barriere doganali che non ha eguali nel mondo capitalistico moderno, con il quale intendono risolvere buona parte dei problemi economici americani:

1) Il primo punto che potremmo definire una sorta di dichiarazione di guerra commerciale, parte dalla presunta prospettiva che l’imposizione di dazi a tutto il mondo sarebbe l’unica via per sanare il deficit della bilancia commerciale con l'estero. Prospettiva che gli stessi rappresentanti del capitalismo americano si sono ben guardati dall’appoggiare senza risparmiare critiche sia prima che dopo il tracollo delle borse mondiali, paventando una crisi di sfiducia nei confronti della economia americana, e un indebolimento del dollaro con tutte le ricadute del caso. Ma questa è stata solo la base di partenza di un piano a più largo respiro sul quale, al momento, Trump vuole procedere per creare un nuovo ordine mondiale e una nuova Bretton Woods.

2) Al secondo posto c’è il tentativo, sempre secondo la “salvifica” politica dei dazi contro tutti, di ridurre l’ormai insostenibile debito pubblico e del relativo servizio sul debito che ormai ammonta a mille miliardi l’anno. Prospettiva che fa a pugni con la promessa di abbassare le tasse per le imprese pubbliche e private, ma questo è un dettaglio.

3) Ma la vera rivoluzione che dovrebbe risanare l’economia americana, quindi il debito pubblico, e riequilibrare la bilancia dei pagamenti con l’estero è la cosiddetta re industrializzazione. Concetto semplice quanto di difficile realizzazione. Gli stessi analisti americani, pur accettando il contenuto del piano, hanno aggrottato le sopracciglia, temendo che la sua realizzazione abbia tempi di percorrenza attorno ai 30 anni come minimo. Infatti, il percorso prevederebbe come primo passo il rientro delle imprese americane che producono all’estero. Estero a cui hanno fatto ricorso per decenni alla ricerca di profitti più remunerativi, grazie al minor costo (spesso incomparabilmente più basso) della forza lavoro estera e delle agevolazioni fiscali da parte dei governi ospitanti. Ma il ritorno sembra non essere una cosa facile, per questo l’Amministrazione Trump ha previsto, per le imprese che decidono di rientrare nei confini patrii, agevolazioni fiscali di cui godevano all’estero, accordi sindacali compiacenti, più del solito, al fine di rimpatriare imprese, tecnologie e capitali d’investimento produttivo per far partire il processo di re industrializzazione con le buone. In caso contrario, ovvero di un rifiuto delle imprese a fare il percorso a ritroso, esse incapperebbero nelle ire funeste del Tycoon che ha già previsto dazi elevatissimi per i loro prodotti, pesanti sanzioni amministrative (tasse) con il ricatto del boicottaggio commerciale assoluto. Quello che non ha previsto è che un processo di re industrializzazione, per avere senso, deve avere a disposizione le materie prime (acciaio e alluminio) e la produzione in loco dei semiconduttori per lo sviluppo dell’alta tecnologia a scopo civile e militare che, invece, sono prodotti in Ciana , a Taiwan e in Vietnam. A soluzione di questo problema l’imperialismo americano nell’era trumpiana ha pochi dubbi. Se l’acciaio viene importato dal Brasile, dal Canada e dal Messico, nonché dalla Germania e dalla Cina, basta convincere, con le buone o con le cattive il Canada a diventare il 51esimo stato della Confederazione americana. Per Brasile e Messico sono sufficienti dazi del 25% oltre a quelli già comminati. Per la Germania, già punita dal taglio dei rifornimenti energetici russi, basterebbe, oltre ai dazi del 25%, stabilire dei rapporti bilaterali a vantaggio degli Usa. Mentre per la Cina c'è il solito discorso a parte. Pechino è il nemico n°1, per cui questa questione dell’acciaio come quella dei microchip taiwanesi verrà forse risolta sul terreno della forza e non del compromesso negoziale. L'approvvigionamento di altre materie prime funzionali alla tanto auspicata re industrializzazione verranno reperite con la prassi del saccheggio a Taiwan, in Groenlandia, al Polo Nord con annesso il dominio delle vie di commercializzazione e trasporto, come il Canale di Suez (accordi privilegiati con l’Egitto), come il controllo del Bad el Mandeb nello Yemen a suon di missili contro le postazioni militari degli Houti, come Gibuti, o come il Canale di Panama, dove Trump, minacciando di acquisirlo in qualunque modo, ha convinto il governo locale a dare via libera alle navi cargo americane e a chiudere i contratti con la Cina per la fruizione di due porti all’interno del Canale stesso, come si è già detto sopra. Dunque dazi, minacce, ricatti sono gli ingredienti che stanno alla base del presunto progresso economico “autarchico” degli Usa sotto l’Amministrazione del “pacificatore” Trump.

4) Il tutto per risanare l’economia, certo, ma anche per ritornare ad essere un paese che attrae i capitali stranieri sulla scorta di una ritrovata competitività produttiva che si somma all’enorme vantaggio, come primo produttore al mondo di gas e petrolio, di condizionare le necessità energetiche dei paesi economicamente dipendenti, amici o nemici che siano.

5) Sempre nella speranza che il progetto dei dazi funzioni, l’Amministrazione Trump intende rafforzare il ruolo del dollaro che, ultimamente, ma già prima del crollo delle borse americane causato il giorno dopo l'introduzione dei primi dazi, stava perdendo di credibilità e confermarne quel ruolo di coefficiente universale di scambio tra le merci sui mercati commerciali e bene di rifugio affidabile che ha interpretato finora. Su questo gli Usa hanno costruito il loro potere e con questo vogliono continuare.

6) Prima dello scompaginamento dei mercati internazionali, Miran e Navarro pensavano che si potesse, con il ricatto economico e politico instaurare, con i paesi colpiti dai dazi, un “dialogo” a due dove chi aveva la parola era, ovviamente, il fautore delle barriere doganali. Ovvero il paese in questione, gravato dai dazi, poteva trattare per un trattamento di “riguardo” a condizioni a dir poco sconcertanti. Gli economisti di Trump prevedono che al paese “dialogante” in cambio di dazi più leggeri o addirittura della loro cancellazione, ci sia l'obbligo di sottoscrivere i Bond emessi dalla Federal B. con il dichiarato scopo di finanziare il debito pubblico. Questi Bond sono a lungo termine, arrivano fino a 100 anni, (già denominati Matusalem Bond) e per chi aveva già sottoscritto dei Bond a breve termine, l’impegno sarebbe quello di cambiarli con i Matusalem. In cambio, i “munifici” economisti del dazio per tutti, concederebbero ai governi meno dazi, meno tasse portuali e aeroportuali, con l’aggiunta di una possibile copertura militare in caso di bisogno per quei governi che si sono impegnati con un accordo bilaterale con Trump e i suoi compagni di merende. Per cui, sempre nelle prospettive, la politica dei dazi servirebbe, con il terrorismo del ricatto, a finanziare il debito pubblico americano, a rafforzare il dollaro e ad espandere il predominio militare.

ANCHE L’IMPERIALISMO FA LE PENTOLE MA NON I COPERCHI

La metafora del sottotitolo sta ad indicare che un conto sono le arroganti pretese di un imperialismo alla ricerca di una soluzione dei suoi problemi, oltretutto presentata con l’arroganza criminale di un presidente narcisista e confuso, altro è avere a che fare con la realtà che, come in questo caso, si rivolta contro. In primo luogo, Trump doveva aspettarsi che il mondo intero si rivoltasse contro la politica dei dazi e non che, come lui da perfetto gentleman ha dichiarato, sarebbero corsi sotto il suo trono per detergerli le basse terga con la lingua. Infatti, Canada e Messico si sono organizzati per rispondere ai dazi americani con i propri, in una sorta di difesa ad oltranza delle rispettive economie. L’Europa della Von der Leyen ha promesso di fare lo stesso. La Cina e persino il Giappone e la Corea del Sud, si stanno muovendo per creare un patto commerciale asiatico da adottare come “contro misura” alle minacce di Trump. La Cina di Xi, prima ancora di prendere in considerazione questi accordi, aveva immediatamente risposto con un suo elenco di dazi sulle merci d’importazione dagli Usa, seguita dai paesi BRICS e da alcuni paesi del sud America.

In seconda battuta va rilevato come le barriere doganali contrapposte non facciano altro che spaventare i mercati finanziari, intasare i mercati commerciali, ridurre gli scambi e indebolire gli affari di cui vivono tutti i paesi capitalistici, Stati Uniti compresi. Due giorni dopo la messa in funzione della manovra dei dazi, oltre al crollo delle Borse internazionali, la stessa economia americana ha registrato un decremento delle sue esportazione (-12%). Per il petrolio si è registrato un -18%, per il gas un -30% e per la soia un -42%. Il dollaro ha perso il 10% nei confronti dell’Euro e dello Yuan cinese; lo stesso discorso vale per lo yen giapponese e per il franco svizzero, mentre la speculazione monetaria ha abbandonato il dollaro per l’oro che è schizzato a livelli mai raggiunti, superando, anche se solo di poco, la straordinaria quotazione di 3 mila dollari all’oncia (28 grammi). In aggiunta, nel crollo delle borse americane, S&P, Nasdaq e Dow Jones hanno visto volatizzarsi in due sedute 5,2 mila miliardi di dollari. Contemporaneamente, ci hanno rimesso anche i Fondi pensione mettendo a rischio il già misero tenore di vita giornaliero di milioni di pensionati americani. Lo sfracello comprende anche la risalita dell’inflazione che, come al solito, pesa più sui percettori di redditi bassi, o quasi nulli, tagliando il potere d’acquisto di altri milioni di proletari. Comprende anche che le famiglie avranno un introito inferiore di 3 mila e ottocento dollari all’anno e che gli interessi sui mutui cresceranno di colpo. Come ennesimo effetto collaterale la speculazione interna, come quella internazionale, inizierà a fuggire dall’acquisto dei Bond di Stato, dando come risultato immediato l’esatto contrario di quello che speravano Trump e i suoi economisti, cioè che la manovra dei dazi sarebbe stata il “toccasana” per il finanziamento del debito pubblico. In aggiunta, il pericolo di una recessione economica è alle porte con gravi problemi per le imprese e per la diminuzione dell’occupazione. Ben lontano il miraggio della re-industrializzazione, le imprese americane si troveranno, nel breve periodo, nella scomoda situazione di dover comunque pagare i dazi di importazione per quelle merci (materie prime, semilavorati e microchip ) di cui non possono far a meno, accelerando la caduta nella recessione dell’economia americana. Fattore non secondario, la disoccupazione aumenterà, i salari diminuiranno con relativo aumento della povertà sociale, che già da anni colpisce la popolazione americana, e persino quei proletari che hanno la “fortuna” di avere un posto di lavoro.

I primi 100 giorni di Donald Trump: "sono segnati da fallimenti, le sue iniziative non avranno un effetto duraturo, le istituzioni democratiche Usa sono solide, (bontà sua, ndr), Trump non è un Giulio Cesare, la repubblica sopravvivrà". Lo ha detto un suo ex fedelissimo John Bolton, 76 anni, consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump dal 2018 al 2019, che continua: "Molte proposte del presidente sono caotiche, dalla tregua tra Ucraina e Russia o per il Medio Oriente, dove non ha risolto nulla: si va avanti a vista". Persino Powell, presidente della Banca centrale. è sceso dal carro trumpiano minacciando le sue dimissioni.

Alla prospettiva di un simile disastro che sta di fronte a tutti, anche Scott Bessent, segretario al Tesoro americano, lui stesso tra i fautori della famigerata politica dei dazi, ha fatto parzialmente marcia indietro, consigliando Trump di usare quest’arma a doppio taglio con maggiore parsimonia e con più intelligenza, se possibile. Il caos è stato creato, l’impianto del progetto si è inceppato, ma la propensione di Trump è quella di continuare, con la sua ineffabile rozzezza, a perseguire il primato americano, ben sapendo che l’ostacolo maggiore è quello di sconfiggere la Cina prima che Pechino metta in ulteriore difficoltà la traballante economia americana in declino permanente.

PER UNA PRIMA CONCLUSIONE

In definitiva, tutti gli sforzi dovrebbero andare a sostenere il dollaro, fonte di drenaggio di capitali da tutto il mondo, contro qualsiasi divisa che osasse interferire, yuan in primis, per rinforzare l’economia, per renderla il più possibile autonoma e fare dell’arma militare la punta di diamante con la quale abbattere la sempre più possente “muraglia” cinese. Progetto che deve assolutamente procedere anche se, per usare una dichiarazione dello stesso Trump, dovesse venire meno il tentativo tattico di incrinare l’“amicizia senza limiti” che lega Pechino a Mosca, cosa peraltro già avvenuta. Come con le Amministrazioni precedenti, da Obama, per giungere a quella di Biden, gli Usa hanno continuato ad avere problemi nell’area dell’Indo-Cinese. Con Xi le interferenze economiche e le espansioni territoriali nelle isole dell’area si sono moltiplicate. Il vecchio problema dell’annessione di Taiwan continua ad essere all’ordine del giorno. Xi ha più volte ribadito che l’isola ha sempre fatto parte storicamente del continente cinese e che solo l’ingordigia dell’imperialismo americano ha dato fiato a tendenze autonomiste ai tempi di Ciang Kai Shek. In termini ancora più espliciti, Xi ha formalmente dichiarato che la riunificazione di Taiwan alla Repubblica popolare cinese avverrà comunque e sarà entro il 2027. Trump non ha direttamente risposto ma, come i suoi predecessori, ha ben presente che nell'Indo-pacifico si sta giocando una partita mortale tra Pechino e Washington, di cui Taiwan rappresenta solo una parte, anche se importante. Infatti la penetrazione cinese nell’area è arrivata ad agganciare le isole Salomone e per aumentare la sua influenza nel Pacifico sta firmando un accordo con le Isole Cook, che rappresenterebbero uno strategico avamposto in collaborazione con i nuovi insediamenti insulari. Il Piano denominato” Azione 2025-2030” tra i due paesi (Cina e Isole) include pesanti investimenti cinesi per le più importanti infrastrutture civili e l'obiettivo di dare vita ad una collaborazione che propone lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie sottomarine di tutto l’arcipelago, nonché, in prospettiva, di stanziare basi militari. Il Piano rafforza i rapporti già stabiliti con le isole Kiribati, Vanuatu e, soprattutto, con le già citate isole Cook e Salomone, dove gli accordi prevedono una collaborazione tra le forze militari locali e quelle cinesi. Una simile penetrazione sta letteralmente sconvolgendo gli equilibri del Pacifico che, sino a questo momento, erano a vantaggio di Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda. Da qui massima tensione e mari in pericolosa ebollizione. Xi non esclude la prospettiva di un intervento armato in tutta l’area. Già a partire dai primi mesi del 2025 ha incrementato la spesa per la difesa del 7,2%, nella prospettiva di un rinnovamento delle forze armate da compiersi, non a caso, entro il 2027. La risposta Usa non si è fatta attendere, accelerando i tempi della produzione e consegna di una ventina di lanciarazzi Himars su commissione di Taipei, insieme a 66 caccia F-16V. Il che rende ancora più forte la cooperazione tra Taiwan e Washington in chiave anti cinese. Xi commenta, come recita una informativa ANSA del 10 marzo 25 : “Se ciò che vogliono gli Stati Uniti è la guerra, che si tratti di una guerra tariffaria, commerciale o di qualsiasi altro tipo di guerra, siamo pronti a combattere fino alla fine”, Per cui non meraviglia che le manovre navali congiunte tra Cina, Russia e Iran, denominate 'Security Belt 2025', siano iniziate immediatamente dopo che la flottiglia di Pechino è giunta nelle acque antistanti il porto iraniano di Chabahar, unendosi alle unità dispiegate dagli altri due Paesi. Come è notorio, la tensione tra Cina e Usa non si limita alle pur importantissime questioni legate all’Indo-pacifico e ai destini dell’isola di Taiwan. Come abbiamo più volte detto, in gioco c’è la superiorità commerciale, la rincorsa alla materie prime strategiche, il controllo dei mari, la lotta tecnologica nel settore civile e militare. Infine, lo scontro più importante si gioca sul tentativo della Cina di diventare la prima potenza economica al mondo e di disturbare pesantemente il ruolo egemone del dollaro, così come, da parte americana, di fare di tutto per mantenerlo, costi quel che costi. Lo scontro è globale, la posta in palio è per chi sarà l’imperialismo dominante del nuovo ordine mondiale. Ma se questa è la posta in palio, il mezzo per raggiungerla non può essere che uno scontro diretto tra i due famelici imperialismi che trascinerebbero il mondo intero nel più tragico degli abissi: la guerra totale che, mentre risolverebbe i problemi dell’imperialismo vincitore, getterebbe milioni di proletari nell’infame condizione di combattere e morire per gli interessi dell’uno o dell’altro imperialismo. Con l’unica prospettiva, per chi ne uscisse vivo, di riprendere il ruolo che il capitalismo vincitore gli “concederebbe”, quello di essere ancora sfruttato più e peggio di prima, come forza lavoro dedicata alla ricostruzione di quel capitalismo che è stato alla base delle distruzioni che lui stesso ha generato.

Ad aggravare le già precarie condizioni delle crisi internazionali si è riaperta la sfida bellica tra India e Pakistan. In gioco c'è il controllo del Kashmir, punto strategico per entrambi i contendenti, il controllo militare di tutta l’area circostante e, soprattutto, la gestione della fonti idriche che il Kashmir custodisce dando vita a sei fiumi, tra i quali l’importantissimo Indo. Il tutto contrabbandato come una guerra religiosa tra induisti e musulmani a difesa spirituale dei propri popoli sudditi. In realtà quale ennesima giustificazione alle loro rapine imperialistiche e strumento di convincimento nazionalistico da dare in pasto ai rispettivi proletariati al fine di farli combattere per una “giusta” guerra e, perché no, anche religiosamente santa! Immediatamente gli Usa si sono precipitati per imporre un cessate il fuoco che l’india ha accettato con riluttanza, perché più orientata verso Mosca che verso Washington. Mentre la Cina mantiene buoni rapporti politici ed economici con Islamabad. Per il momento tutte le pedine sono ferme per l’effimera tregua, ma se dovessero riprendere le ostilità, verrebbe coinvolta tutta l’area dell’Indopacifico e le grandi potenze non starebbero certamente a guardare.

Di fronte ad una simile catastrofica prospettiva solo il proletariato internazionale sarebbe in grado di evitare il dramma di un conflitto diretto, a condizione di uscire definitivamente dalla logica dei nazionalismi, di rifiutare la guerra comunque venga giustificata. Di avere una prospettiva rivoluzionaria fuori e contro gli interessi dei capitali nazionali, per una alternativa sociale che non abbia come scopo la realizzazione del profitto, ma soltanto gli interessi di chi socialmente produce e distribuisce la ricchezza comune. La seconda condizione è che la prospettiva venga organizzata, composta e orientata da un partito rivoluzionario che abbia la tattica e la strategia adatte al grande compito. Che accompagni e stimoli la necessaria ripresa della lotta di classe perché, senza di essa, l’imperialismo avrà sempre vita facile e sarà sempre in grado di mandare la classe proletaria a combattere e morire, non per i suoi obiettivi, ma per quelli del suo avversario di classe che in questa fase storica non può che produrre crisi, morte, devastanti guerre e inumane barbarie, in nome della sua sopravvivenza .

fd.

12 maggio 25

Mercoledì, May 7, 2025