Dietro l’eterna contesa sul Kashmir

Tra aprile e maggio si è registrata una nuova intensificazione dello storico confronto tra India e Pakistan per il controllo del Kashmir; nuovamente ciascuno dei due Paesi ha offerto una manifestazione di forza al vicino e acerrimo rivale e nuovamente si è rischiata una escalation militare le cui conseguenze sarebbero state difficili da controllare, dato che entrambi hanno eserciti numerosi ed equipaggiati ed entrambi possiedono testate nucleari. L’elemento di innesco è stato un atto terroristico forse appoggiato dal Pakistan, che ha provocato 26 morti nella città indiana di Pahalgam: si trattava di turisti in pellegrinaggio verso il tempio di Amarnath.

Diverse sono le ragioni alla base di questo nuovo episodio del conflitto che, com’è noto, affonda le sue radici fin dalla nascita dei due Paesi, con la “partizione” su base religiosa del 1947. Per fare un poco di chiarezza, e senza richiamare qui la cronologia degli eventi che in ¾ di secolo hanno segnato le tappe della contesa, cerchiamo di distribuire queste ragioni su diversi livelli di analisi: una lettura più di dettaglio, per comprendere il contesto, e uno sguardo meno ravvicinato per capire com’è mutato il quadro internazionale. Fattori regionali e globali, infatti, si intrecciano e sospingono o contengono l’un l’altro rendendo arduo ogni tentativo di semplificazione.

La cosiddetta “linea di controllo” stabilita dopo la guerra indo-pakistana del 1971 divide il territorio montuoso, abitato da una popolazione in maggioranza musulmana, in tre aree: circa metà è sotto il controllo indiano e la parte restante si divide a sua volta tra una zona a nord ovest sotto controllo pakistano e una più piccola a nord est sotto il controllo cinese. Da quest’area hanno origine risorse idriche che sono fondamentali per tutti e tre i Paesi, e sono addirittura vitali per l’agricoltura del Pakistan, che ospita la maggior parte della valle dell’Indo. Uno degli aspetti che ha caratterizzato quest’ultima crisi come più aspra delle precedenti è che l’India ha dato alla sua spedizione punitiva una profondità inedita, andando a colpire infrastrutture non solo nel limitrofo Kashmir pakistano ma anche nel Punjab, cuore del Paese musulmano, e ha sospeso per la prima volta il Trattato delle acque dell’Indo, che regolava dal 1960 la distribuzione delle risorse idriche.

Bisogna poi considerare il fattore religioso che conferisce a quest’area un valore culturale simbolico e, dato che sia il governo indiano che quello pakistano fanno leva su un fortissimo richiamo identitario e nazionalistico, la religione diviene determinante sia come cemento ideologico che nell’individuazione di un capro espiatorio esterno verso cui indirizzare le tensioni.

Il Pakistan ha vissuto negli ultimi anni una crisi economica molto forte, in cui è stato vicino al default finanziario. Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina ha visto salire alle stelle l’inflazione e ha vissuto disordini politici e proteste che hanno portato ad un giro di vite nei partiti al governo, operazione come sempre gestita e controllata dall’esercito che ha un ruolo centrale nella classe dominante. In questo momento non avrebbe in teoria interesse ad innescare un'escalation militare perché economicamente non se la può permettere, a meno che non abbia un potente sostegno esterno, ma di questo parleremo a breve. Da parte indiana il governo ha perso il granitico consenso di prima e parte dei seggi con le ultime elezioni del 2024 e Modi deve in una certa misura la sua immagine di guida carismatica del mondo indù all’autorevolezza con cui ha letteralmente represso le istanze indipendentiste del Kashmir, revocandogli nel 2019 lo statuto di autonomia nella Costituzione. A parte queste considerazioni politiche c’è un altro aspetto di natura diciamo così “geologica”. L’area è come si diceva caratterizzata da alte catene montuose ed è molto interessante sotto il profilo delle risorse minerarie: vi si trovano litio, carbone, ferro, bauxite, manganese, zolfo e rame. Infine, poco più a Nord passa uno snodo fondamentale di quella che era un tempo la via della seta, e anche oggi la Belt and Road Initiative cinese utilizza questa via di passaggio per raggiungere il mare arabico e da lì i mercati europei via nave dalle coste del Pakistan.

Queste le premesse per quanto riguarda i motivi locali e atavici del conflitto, ora proviamo a delineare il quadro internazionale generale con gli spostamenti di faglia che dividono in blocchi ancora non definitivi il mondo economico e politico prodotto dalla borghesia e dai suoi interessi.

Cominciamo con la faglia principale, quella che vede da una parte gli Stati Uniti e dall’altra la Cina. Il Pakistan è sempre stato un alleato degli USA, specialmente quando l’Afghanistan era occupato dai sovietici, ma anche nel periodo successivo ha sempre goduto di un importante appoggio e di finanziamenti sotto forma di fornitura di armi. Da quando gli americani si sono ritirati dall’Afghanistan ha cominciato lentamente a entrare nella sfera di influenza cinese, e oggi si può dire che la maggior parte dell’interscambio commerciale e finanziario e quasi tutte le importazioni di armi provengano dalla Cina. Non è probabilmente un caso che l’attentato di Pahalgam sia avvenuto proprio in coincidenza con la visita in India del Vicepresidente USA Vance, giunto per trattare accordi commerciali che riducano la dipendenza americana dalle forniture cinesi, ristrutturando in modo più confacente per gli USA le catene globali di formazione del valore.

L’India da parte sua ha fatto in un certo senso il percorso opposto: da sempre Paese non allineato ai tempi della guerra fredda, riceveva un sostegno fondamentale in termini di armamenti prima dall’URSS e poi dalla Russia e, infatti, non si è mai schierata contro Mosca sulla questione Ucraina. Ora la quota russa di forniture si è abbassata notevolmente, forse anche per effetto della guerra in Ucraina, e i suoi acquisti di armi provengono in prevalenza da Occidente. È ancora presto per dire che lo spostamento dell’India verso l’area di influenza occidentale sia irreversibile perché siamo ancora in una fase in cui le faglie non si sono assestate e ogni Paese cerca di giocare il suo ruolo nella politica internazionale in modo opportunistico, muovendosi sui vari scenari in modo indipendente e a volte contraddittorio a seconda delle convenienze. Infatti, l’India fa parte dei BRICS, ha partecipato a vertici come quello di Astana della SCO (Shanghai Cooperation Organization), ma al di là degli atteggiamenti contraddittori uno dei parametri più affidabili per capire il potenziale schieramento di un Paese è verificare da chi riceve i suoi armamenti. Un tempo si diceva “follow the money” e oggi si potrebbe dire “follow the weapons” perché aerei, droni, sistemi di difesa che abbisognano di comunicazioni via satellite, proiettili e pezzi di ricambio non si improvvisano da un giorno all’altro seguendo repentini cambi di alleanze. La stessa Cina vede con ostilità la crescente influenza economica dell’India, e vorrebbe ostacolarla, ma non può spingere l’India troppo apertamente tra le braccia dello zio Sam, pena l'irrilevanza del suo tentativo di farla finita con il predominio del dollaro nelle transazioni internazionali, che è uno dei suoi obiettivi.

In conclusione, al di là degli aspetti strategici e geopolitici che abbiamo sommariamente descritto, e che appassionano più gli analisti borghesi che a questo si limitano (e sfortunatamente anche più di qualche sedicente comunista), quello che vorremmo sottolineare è che ciò a cui assistiamo sulla scena internazionale è il trionfo dell’ideologia e degli interessi economici della classe borghese, la mentalità delle classi dominanti prevale in tutti i Paesi. I dominati - coloro il cui lavoro è proprietà del capitale che se ne nutre - non hanno nulla da sperare da questa visione del mondo e la prima cosa che devono fare è capire dove passa il confine tra noi e loro, che sono un’esigua minoranza della popolazione. Il nazionalismo e il conseguente richiamo al patriottismo altro non sono che l’ultimo vigliacco rifugio dalla crisi che le classi dominanti hanno innescato e che noi pagheremo. Basti guardare al catalogo di psicopatici, drogati, megalomani, postfascisti o prefascisti che le onde d'un mare in tempesta per la crisi di valorizzazione del capitale hanno innalzato al potere. Un altro mondo è effettivamente possibile ed è anzi auspicabile, ma deve essere un mondo che al posto delle borghesie nazionali veda alla guida gli organismi collettivi dei lavoratori in una società non più spaccata da un antagonismo di fondo.

mb

Lunedì, May 26, 2025