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Home ›Salario, occupazione e i tromboni stonati della borghesia
Introduzione
L'articolo che segue è, per così dire, l'aggiornamento di un altro lavoro uscito su Prometeo n.28/2021.
Era già stato ampiamente impostato durante il mese di aprile, quando le dichiarazioni della prima ministra alla viglia del Primo maggio ci hanno fatto “riaprire la pratica”. Non che nello spot autocelebrativo la Meloni abbia detto cose nuove rispetto a quello che va dicendo da due anni circa: è la solita spudorata rappresentazione di una realtà che non esiste, se non nelle raffiche di balle sparate ad altezza uomo dagli schermi di televisioni e telefonini. Non solo la “Terra promessa” fatta balenare dalla premier non compare sui radar della classe lavoratrice, ma, al contrario, se ne allontana ancora di più.
In questo articolo si fa riferimento principalmente a dati della fine di marzo, ma quelli usciti a ridosso del Primo maggio non fanno altro che confermare, se non aggravare, il quadro cupo in cui si muove il proletariato. Un dato, fra tanti, è quello relativo al carico fiscale sulla busta paga, che smentisce una volta di più quello che dal governo “sovranista” è spacciato come uno dei suoi più grandi meriti nei confronti della classe salariata, vale a dire il taglio del cuneo fiscale/contributivo (vedi più sotto). E' la stessa OCSE, “Bibbia” per destra e sinistra borghesi, a dirlo: «Nel 2024, secondo il rapporto Ocse “Taxing Wages 2025”, il peso delle tasse sul lavoro per un lavoratore single è cresciuto di 1,61 punti, toccando quota 47,1% del costo del lavoro e confermandosi largamente al di sopra della media Ocse (34,9%). Quello italiano, è l'aumento più significativo tra i Paesi della zona Ocse. L'Italia è al quarto posto per ampiezza del cuneo, ovvero della differenza tra costo del lavoro sostenuto dal datore di lavoro [prenditore, diciamo noi...] e il reddito netto percepito dal lavoratore»2. Il perché di questa apparente incongruenza con la propaganda tossica del governo è presto detto: gli (scarsi) aumenti contrattuali conseguenti al rinnovo di una parte dei contratti di lavoro ha fatto scattare l'aliquota fiscale superiore, così che quello dato con una mano, viene ripreso dall'altra, dallo stato, supremo difensore degli interessi padronal-borghesi. Non male per un governo amico della classe lavoratrice...
L'occupazione tra propaganda e realtà
Il primo aprile, l'Istat ha pubblicato un aggiornamento sull'andamento dell'occupazione in Italia. Il tasso di disoccupazione, a febbraio, sarebbe scese al 5,9%, ai minimi dal 2007, quando era al 5,8%; ci sarebbero, inoltre, 567 mila occupati in più rispetto allo stese mese del 2024, portando così il tasso di occupazione al 63 per cento. L'unica nota stonata sarebbe quella relativa agli inattivi che, con un aumento dello 0,3%, raggiungerebbero il 32,9%. Com'è noto, inattivi sono definiti coloro che, pur non avendo un lavoro né studiando, non cercano più un'occupazione, perché sfiduciati.
Nel complesso, dunque, si tratterebbe di un'altra medaglia che il governo delle meraviglie si appunterebbe al petto, se non fosse che, considerando altri dati usciti pochi giorni prima, la medaglietta rischia di assomigliare a un pesce d'aprile ai danni della classe lavoratrice. Infatti, nell'ultima settimana di marzo, prima l'ILO-OIL e poi l'Istat hanno diffuso due documenti che sgonfiano in anticipo i petti gonfiati del becerume governativo.
Partiamo dal secondo, quello dell'Istat (Condizioni di vita e reddito delle famiglie) che, nella sostanza, non dice niente di nuovo né di clamoroso, ma conferma anzi una tendenza in atto da molto tempo e che colpisce via via milioni di proletari, che vedono peggiorare le proprie condizioni di esistenza. I numeri dicono che nel 2024 13 milioni e 525 mila individui sono a rischio povertà (oltre ai quasi sei milioni che sopravvivono nella povertà assoluta), cioè il 23,1% della popolazione, contro il 22,8% del 2023. Sono a rischio di esclusione sociale – come recita il freddo linguaggio statistico – in quanto, banalmente, anche se lavorano fanno molta fatica ad arrivare a fine mese (se pure ci arrivano senza indebitarsi), perché gli stipendi sono bassi, non di rado nemmeno lontanamente sufficienti per tirare avanti una settimana dopo l'altra, anche se rispettano le clausole dei contratti nazionali. Famoso o famigerato quello della vigilanza privata, siglato, va da sé, dai sindacati, che prevedeva una paga oraria ben al di sotto dei 9 euro all'ora, indicati come la soglia di un eventuale salario minimo. Ma anche lavorando in un settore che prevede paghe orarie più
alte, si può essere vicinissimi alla povertà se poi l'occupazione è ingabbiata nelle tante forme della precarietà (legale e in nero, largamente tollerata), il cui cappio stringe il collo di milioni di lavoratori, di cui la componente femminile, giovanile e immigrata ha un peso preponderante. Non per niente, sono i segmenti più svantaggiati (cioè schiacciati) della classe lavoratrice, cosa che qualunque inchiesta sul lavoro, da qualunque parte provenga, registra regolarmente.
Insomma, l'occupazione sarà la più alta dal tempo dei Mille – come ha detto la premier, con l'abituale sprezzo del ridicolo – ma si tratta generalmente di “lavori di merda”, per usare la colorita espressione di un sociologo (e soprattutto di tanti proletari), pagati malissimo, precari, in cui la dittatura del padrone non conosce limiti, neanche formali.
Peraltro, e ancora una volta, l'aumento “spettacolare” dell'occupazione non è dovuto ai poteri miracolistici della Meloni, ma fa parte di un'altra tendenza internazionale, sicuramente europea, che ha accelerato da una decina di anni, almeno. Nel 2014 la disoccupazione nella zona euro era al 12%, dieci anni dopo al 6,5%, il che significa, secondo l'istituto fornitore di questi dati, 20 milioni di posti di lavoro in più. Tutto bene, allora? Dipende da quale ottica si guarda la questione. Da quella dei padroni, sia “pubblici” che privati, sì, da quello della classe lavoratrice sicuramente meno. Infatti, ciò che conta non è la quantità, ma la qualità dell'occupazione, inversamente proporzionale alla prima. I borghesi più avvertiti, diciamo così, o senza interessi elettoralistici da tutelare, lo rilevano, anche perché è sotto gli occhi di tutti: «L'Europa si è spostata verso un modello un po' più americano, dove tutti hanno un lavoro, ma un lavoro schifoso [così abbiamo tradotto dall'originale il termine “pourri”: marcio, putrido]». Questa occupazione “marcia” è all'insegna della precarietà e del basso salario, sia orario che mensile, a causa dell'orario complessivo forzatamente ridotto: « “Minijobs” in Germania, contratti a orari flessibili, lavoratori delle piattaforme di consegna a domicilio (Deliveroo, Uber Eats ecc.)... Dappertutto nel Vecchio Continente, le riforme del mercato del lavoro si sono moltiplicate, al fine di semplificare i licenziamenti [il Jobs act non è una prerogativa italica, dunque], di ridurre i sostegni ai disoccupati, di alleggerire gli obblighi dei padroni»3. Il mercato del lavoro italiano e le forze politiche che lo governano non fanno eccezione a questo quadro, il che è scontato, visto che l'uno e le altre sono espressione delle logiche del capitale e, oggi, della sua crisi di struttura pluridecennale. Insomma, è l'applicazione borghese di un vecchio slogan del movimento operaio, per lo più in chiave radical-riformista: “lavorare meno, lavorare tutti”. Al di là della battuta dal retrogusto amaro, non stupisce, quindi, che, assieme a questa riduzione forzata dell'orario di lavoro, in Europa sia in crescita – proprio come negli USA – il fenomeno del doppio o addirittura del terzo lavoro, per mettere assieme un salario che permetta almeno di sopravvivere. In breve, per ribadirlo una volta di più, l'aumento dell'occupazione avviene, appunto, comprimendo il salario e appesantendo le condizioni di lavoro ossia inasprendo lo sfruttamento, con buona pace delle illusioni riformiste.
C'è poi un altro aspetto di primaria importanza che concorre a spiegare l'aumento degli occupati, ed è un altro indice delle difficoltà in cui si dibatte il capitale da oltre mezzo secolo. Si tratta del cosiddetto inverno demografico, vale a dire il progressivo calo delle nascite da qualche decennio, a cui corrisponde l'invecchiamento della popolazione. Sono due facce della stessa medaglia, che forse si manifestano con più forza in Italia, ma è un fenomeno presente in tutte le regioni del capitalismo detto avanzato4.
Accostare “l'inverno demografico” alla caduta del saggio di profitto – la radice delle difficoltà – potrebbe apparire una forzatura ideologica, ma esaminando da vicino le cose, il rapporto emerge più chiaramente. La denatalità, oltre che agli indubbi cambiamenti “culturali” degli ultimi decenni, è strettamente legata sia al progressivo taglio dei servizi sociali – la predazione del salario indiretto – che al dilagare della precarietà e al conseguente basso se non bassissimo salario (come abbiamo ricordato sopra), anche se lo scarso salario non è una prerogativa solo del precariato. Il precariato, a sua volta, in particolare nella forma del part-time involontario, colpisce in particolare le donne, il che influisce, ovviamente in senso negativo, sulla possibilità di avere le condizioni minime per “mettere su famiglia”, come si diceva una volta. La cosa, oltre a essere evidente di per sé, è illustrata “ufficialmente” da numerosi studi di carattere accademico che, nella sostanza, certificano come la crisi del processo di accumulazione ostacoli la riproduzione stessa della forza lavoro. La lunga citazione che segue descrive il dilemma a cui si trovano di fronte molte coppie, anche e non da ultimo se tutti e due sono occupati: «Le entrate di una coppia di lavoratori con un figlio di un anno possono non essere sufficienti a pagare le spese per la casa, per il cibo, per i trasporti e l'asilo nido. Questo è definito la trappola dei due redditi5 _ed è sempre più frequente_ […] per le famiglie a basso reddito in cui entrambi i genitori sono occupati, e in particolare nella fascia media, i costi sono cresciuti dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso più rapidamente del reddito familiare complessivo. In altri termini, il potere d'acquisto dei lavoratori è diminuito»6. Il welfare familiare ossia l'aiuto in più forme delle famiglie d'origine, è in molti casi fondamentale, ma non sufficiente a contrastare, va da sé, l'attacco pluridecennale della borghesia contro il proletariato, così intenso da causare un crollo della natalità. E' appunto la borghesia, agente del capitale, a opporsi alla vita anche da questo punto di vista. Per dirne un'altra, è notorio che spesso gli imprenditori (i padroni), prima di assumere una donna le chiedono , a scopo intimidatorio, se abbia intenzione di fare figli o le fanno firmare un figlio di dimissioni in bianco, per licenziarla senza “rogne” burocratiche nel caso in cui rimanesse incinta.
Ma più dell'inverno demografico, benché reale, c'è un altro elemento che spiega l'aumento dell'occupazione in Italia: è dovuto quasi esclusivamente agli ultracinquantenni/sessantenni, costretti a rimanere al lavoro perché le varie riforme pensionistiche hanno incatenato sempre più gente al “remo” delle galee padronali (non ultime, quelle del pubblico impiego). Per dare qualche numero: «A febbraio gli occupati crescono di 47mila unità rispetto a gennaio e toccano un nuovo record a 24,332 milioni, mentre su base annua la crescita è del 2,4% pari a +567mila nuovi occupati». Ma «I 567mila occupati in più rispetto a gennaio sono dovuti a +542mila occupati over 50 e a 52mila occupati in più tra i giovani tra i 15 e 24 anni. Le fasce di lavoratori centrali calano, rispettivamente di 17 mila occupati (35-49 anni) e di 10mila occupati (25-34 anni). […] Inoltre […] su base annua l'occupazione femminile cresce a un ritmo quasi doppio (+3,1%) di quella maschile (+1,8%), anche se il tasso del 54,2% resta circa 13 punti sotto il tasso medio europeo»7 L'ineffabile ministro dei trasporti, che ci scatena problemi intestinali al solo nominarlo, ha costruito la sua trista carriera di politicante sulla promessa di abolire la più dura – ma nel solco delle precedenti – riforma delle pensioni; nel frattempo, inutile sottolinearlo, dello smantellamento della “Fornero” si sono perse le tracce e, anzi, c'è il rischio concreto che l'età della pensione aumenti ancora.
Per finire, che dire dell'abolizione del cosiddetto reddito di cittadinanza, con la quale è stato cancellato un sostegno al reddito, per quanto misero, a 800.000 persone/nuclei familiari?
Statistiche “litiganti” non cancellano il dato di fondo.
Il documento dell'ILO sui salari mondiali8 sembra quasi aver apparecchiato la tavola a quello dell'Istat, perché anche qui il quadro sul salario in Italia stride con il ghigno trionfalistico esibito impudentemente – ovvio – da chi oggi accomoda il proprio onorevole deretano sui banchi della maggioranza, anche se non ha fatto altro che raccogliere il testimone di chi lo ha preceduto.
Secondo l'ILO, tra il 2008 e il 2024, i salari in Italia sono calati dell'8,7% (il dato peggiore), a fronte, si dice, di un aumento del 5% in Francia e del 15% in Germania. In particolare, dopo la forte discesa tra il 2009 e il 2012, in seguito alla crisi dei subprime, nel 2022 i salari sarebbero diminuiti del 3,3% e del 3,2% nel 2023; solo nel 2024 si sarebbe registrato un aumento del 2,3%, insufficiente però a recuperare quanto perso negli anni precedenti. Dunque, prendendo come buoni questi dati, il cosiddetto taglio del cuneo fiscale/contributivo (già avviato da Draghi) non è neanche servito ad arrestare, almeno, la discesa dei salari, mostrandosi così per quello che è: un “aiutino”, sì, ma per i padroni, che evitano di tirare fuori i (pochi) soldi per aumentare gli stipendi. La crescita del 2024 non si spiega col “cuneo”, ma per altri motivi. Il primo è che parecchi contratti sono stati rinnovati – nel rispetto delle “compatibilità”, cioè del profitto - benché con molto ritardo, mentre oltre il cinquanta per cento della forza lavoro (circa sette milioni di persone) aspetta ancora il rinnovo. Per aprire una parentesi, verrebbe quasi da dire che se l'aumento proposto dal governo per il pubblico impiego è del 6%, sarebbe meglio non rinnovarlo: almeno si evita la presa per il “cuneo” da parte di un governo così attento, per carità!, alla classe lavoratrice...
L'altro elemento non meno importante, anzi forse di più, è il calo dell'inflazione, che nel biennio '22-'23 aveva superato il 17% (certi dati attestano un quasi 20%); ma a conti fatti la ricaduta sulla busta paga è stata più pesante, visto che l'indice IPCA su cui viene calcolato l'aumento dello stipendio, esclude il prezzo dei carburanti, del gas e dell'elettricità, spese tutt'altro insignificanti, come ognuno sa.
Dunque, la classe lavoratrice italiana (immigrati compresi, ovviamente) avrebbe subito la perdita maggiore, mentre in altri paesi, come s'è detto, i salari sarebbero addirittura aumentati. Occasione ghiotta per il radical-riformismo per accusare la classe dirigente italiana, cioè la borghesia e il suo famelico-cialtronesco personale politico, di particolare meschinità rispetto alle consorelle estere. Che l'aggressione al salario sia stata pesante, persino particolarmente pesante, non siamo certo noi a negarlo, ma ci convince poco e niente l'aumento di cui avrebbero beneficiato altri segmenti della classe operaia mondiale. Anche se indubbiamente esistono delle specificità nelle diverse aree geografiche, il sistema capitalistico domina su tutto il mondo, così come la sua crisi pluridecennale. E' proprio la crisi che costringe le articolazioni “nazionali” della borghesia mondiale ad adottare la stessa strategia nei confronti del proletariato e se in certe regioni il salario è cresciuto – partendo però da livelli bassi, se non infimi – in altre, in particolare nel “centro”, ha seguito la direzione opposta. In questo articolo non ci dilunghiamo sulle ragioni del fenomeno e rimandiamo alla nostra pubblicistica. Qui, basti ricordare come, dalla fine degli anni 1970, la quota del salario sul Pil a livello mondiale è in costante discesa, mentre, specularmente, sale quella del profitto, confermando così come l'abbassamento del salario sia il più immediato ed efficace fattore contrastante la caduta del saggio medio di profitto. Già nell'articolo di Prometeo citato nell'introduzione, venivano presentati alcuni dati di questa tendenza. Qui, per confermare che nulla è cambiato – né potrebbe esserlo – riportiamo due grafici elaborati da un'economista della BCE (Isabel Schnabel), dove si vede, una volta di più, come la quota del salario sul Pil sia in discesa costante, mentre quella dei profitti segue un andamento opposto. Inoltre, la caduta della “parte salariale” è accostata a quella della “densità sindacale” ossia del calo progressivo degli iscritti al sindacato e degli scioperi. Il grafico è accompagnato dalla considerazione, per certi versi corretta, cioè che di fronte alla perdita di forza del sindacato, il salario non può far altro che abbassarsi9.
Noi però aggiungiamo che la crisi del capitale, spingendo il padronato ad attaccare frontalmente la classe lavoratrice – il che comprende lo sconvolgimento della composizione di classe e la dispersione, in Occidente, delle grandi concentrazioni operaie – ha sì ridimensionato il peso del sindacato, ma ha e ha avuto in quest'ultimo un alleato prezioso. Esso, infatti, ha assecondato ampiamente l'offensiva borghese, paralizzando o limitando una vera risposta “operaia” (intesa in senso lato), per non compromettere la “coesione sociale” - vale a dire la pace sociale fondata sulla sottomissione della classe proletaria – e “l'economia del Paese” cioè del capitale. Anche per questo resta il “mistero”, rispetto alla statistica dell'OCSE di fine 2022, di salari cresciuti quando la conflittualità sindacale, che si fa fatica a chiamarla di classe, se non con mille distinguo, ha fiancheggiato il crescendo dell'offensiva padronale e del suo stato. Padroni come benefattori? Di se stessi sicuramente, anche perché nelle statistiche internazionali, tra il lavoro dipendente sono contati quadri e dirigenti fino ai massimi livelli, i cui “compensi” stratosferici mascherano la perdita del salario, senza i quali apparirebbe, come è, ancora più rilevante, a tutto vantaggio del capitale e dei suoi funzionari.
Bisognerebbe capire quali siano, precisamente, i criteri metodologici con cui vengono fatte le rilevazioni, perché rischiano quanto meno di ingenerare confuse invece di chiarezza.
Torniamo infatti al documento dell'ILO che, per certi aspetti, suscita per così dire qualche perplessità nel tipo di linguaggio usato. Per esempio, nell'introduzione si dice che c'è «una crescita dei salari reali a livello globale a partire dal 2022 [ma] i salari reali di molti paesi non hanno tuttavia recuperato la perdita di potere d'acquisto causata dalla crisi del costo della vita». La domanda viene spontanea: ci sarà pure la crescita, ma che crescita reale è se non ha recuperato quanto perso in precedenza? Considerazioni banali? Forse, ma è come rallegrarsi per un bel funerale.
Non è però l'unico dato che suscita qualche interrogativo, visto che a pagina 14 si sostiene che «Con meno dell'1 per cento dei lavoratori dipendenti classificati come percettori di bassi salari, l'Italia è uno dei paesi con meno disuguaglianze salariali». Affermazione quanto mai ardita, visto che altre ricerche, di carattere accademico e, va da sé, di impronta riformista, danno bel altri numeri. Una parentesi, prima di proseguire: per percettori di “basso salario” alcuni istituti di ricerca intendono «chi ha un reddito inferiore al 60 per cento di quello mediano nazionale (al netto dei trasferimenti sociali)»10 e secondo Eurostat in Italia sarebbero al «9 per cento, in aumento dall'8,7 per cento registrato nel 2023»11. Per l'ILO, invece, a pagina 15, la definizione riguarda «c_oloro che guadagnano meno del 50 per cento della mediana salariale oraria_». Questa indicazione del salario orario è importante, perché dà un riferimento specifico, rispetto invece a quelle rilevazioni che registrano l'aumento della quota/massa salariale, senza specificare se sia dovuto a una crescita delle ore lavorate o dell'occupazione (anche se a basso salario e a orario ridotto). In quest'ultimo caso, ci potrebbe essere un aumento della massa salariale pur in presenza di paghe basse, al di sotto del valore della forza lavoro. Detto questo, anche il dato di Eurostat (oltre che dell'ILO) sembra non andare d'accordo con quello prodotto da un altro lavoro a più mani su “Lavoro e salari in Italia”, secondo il quale la quota di lavoro povero sarebbe superiore e, senza sorpresa, avrebbe «una forte connotazione di genere: la percentuale di lavoratrici a basso salario (19,2%) è quasi doppia rispetto a quella degli uomini (10,5%)»12. La maggiore diffusione dei bassi salari tra la forza lavoro femminile - storico punto di forza del capitale, che mette al proprio servizio forme di oppressione con radici millenarie – aggiunge un altro tassello esplicativo sulla crescita dell'occupazione vantata dalla premier, crescita che riguarda, in percentuale, più gli uomini che le donne, il che ci fa ritornare alla “strane” considerazioni del rapporto ILO. A pagina 15 si indica correttamente la disparità salariale che colpisce le donne: «Quasi il 52 per cento dei lavoratori con bassi salari sono donne. In Italia, le lavoratrici rappresentano il 43,2 per cento del totale dei lavoratori dipendenti. Questa proporzione sale al 51,9 per cento tra i lavoratori dipendenti con salari bassi». Fin qui tutto bene (si fa per dire), ma poi il documento afferma che «tra i paesi ad alto reddito, la sovraesposizione delle lavoratrici nell'estremità inferiore della distribuzione salariale è più modesta in Italia rispetto alla media dei paesi di questo gruppo che è stimata al 55,9 per cento». Dopo aver detto che questa “sovraesposizione” riguarda ogni paese al mondo (cosa notoria), a pagina 16 si dice: «Il divario salariale dei generi in Italia è pari al 9,3 per cento, uno dei più bassi tra i paesi dell'Unione europea», dove si attesterebbe al 14,3 per cento. Ora, ancora una volta viene spontaneo rilevare la discrepanza con altri dati, secondo i quali, tra il salario annuo medio maschile e quello femminile (dati INPS 2022) si sarebbe una differenza di 7300 euro (24.500 contro 17.300), cioè circa del 30 per cento, il che si riflette ovviamente sugli «a_ssegni pensionistici, più bassi in media del 36%_»13.
In mezzo a questa selva di dati, il dato di fondo, dichiarato o no, rimane che la cosiddetta crescita salariale, vantata appunto da politicanti vari, non recupera quanto perso negli ultimi tre o quattro anni, bene che vada, il salario – il proletariato - deve rincorrere il costo della vita, ma più spesso deve combattere con esso una battaglia di retroguardia che cerchi almeno di limitare i danni. Per l'OCSE, a fine 2024 il salario in Italia era più basso del 7,2% rispetto al primo quadrimestre 2021, ma in Repubblica Ceca era a -11,8% e in Svezia a -8,6%14. L'area Euro, in quell'arco temporale, ha segnato un -4% e la «media tra i 38 Paesi dell'organizzazione segna -0,6%»15.
Se Atene piange, Sparta non ride e se a “Sparta” mettiamo anche la Germania, secondo altri istituti di ricerca la situazione avrebbe o ha poco a che fare con quel +15% raccontato dall'ILO.
In un articolo pubblicato il 22 febbraio sul suo blog, l'economista Michael Roberts così descrive lo stato delle cose: «I salari reali in Germania restano al di sotto dei livelli pre-pandemia. Un quarto dei tedeschi ha redditi insufficienti per arrivare a fine mese, secondo il German Economic Institute [e sottolinea] il problema di fondo di un mercato del “doppio lavoro” con un intero strato di dipendenti temporanei part-time con salari molto bassi. Circa un quarto della forza lavoro tedesca riceve ora un salario “a basso reddito” […] inferiore ai due terzi della mediana, che è una percentuale più alta rispetto a tutti i 17 [forse 27?, ndr] paesi europei, fatta eccezione per la Lituania»16. Che dire, se non che sembra di leggere il rapporto Istat di fine marzo?
A fare peggiorare le condizioni del proletariato, in Italia, Germania e altrove, è stata ed è l'inflazione ingigantita dalla speculazione, è l'economia di guerra che si aggiunge, aggravandolo, all'attacco ultra-decennale scatenato dai padroni contro il lavoro salariato, è, come riconosce pudicamente un economista dell'OCSE, «un atteggiamento responsabile nelle rivendicazioni salariali»17. Tradotto: la solita politica rinunciataria e complice del sindacalismo con il sistema capitalistico, detto anche “bene del Paese”.
Sperare che il sindacato tiri fuori la classe dalla pesante situazione che traspare dagli studi borghesi e, soprattutto, che vive quotidianamente, è come chiedere aiuto al carrettiere che ci sta portando al patibolo.
CB
16 maggio 2025 (Prometeo n. 33/2025 di prossima uscita)
2Claudio Tucci, Perchè i salari in Italia restano bassi? Inflazione, cuneo fiscale e produttività, Il Sole 24 ore+, 2 maggio 2025.
3_En Europe, le grand chamboulement du marché du travail_ [In Europa, il grande sconvolgimento del mercato del lavoro], in www.lemonde.fr, visitato il 4 maggio 2024.
4«tra il 2013 e il 2023 […] nella fascia di età15-34 anni […] il numero totale dei giovani è passato da 12,9 a 12 milioni (-927 mila) e il numero di adulti tra 35-49 anni è sceso di 2,6 milioni (passando da 14,2 a 11,6 milioni). Ma nello stesso arco temporale gli adulti con oltre 50 anni sono cresciuti di 1,9 milioni di unità, da 11,8 a 13,7 milioni. In questa fascia di età si contano più contratti stabili», in Giorgio Pogliotti, Lavoro, stanno davvero aumentando i posti stabili in Italia?, Il Sole 24 ore+, 14 marzo 2025.
5Se tutti e due lavorano, e non hanno aiuti dai nonni, non possono accudire il figlio, per cui uno dei due, di solito la donna, è costretta a licenziarsi o devono pagare un'altra persona che accudisca il bambino. In ogni caso, c'è un forte riduzione del reddito familiare.
6Marianna Filandri, Lavorare non basta, Laterza, 2022, pag. 29. A pagina 30, prosegue dicendo che «Nel 2020, secondo l'Istat, la presenza di un minore nel nucleo [familiare] ha fatto aumentare la probabilità di versare nella condizione di povertà assoluta dal 7,7 all'11,5%».
7Giorgio Pogliotti, Lavoro, l'occupazione in Italia cresce grazie agli over 50: ecco perché, Il Sole 24 ore+, 2 aprile 2025.
8_Global Wage Report 2024-25: Is wage inequality decreasing globally?_ In www.ilo.org, novembre 2024.
10Patrizia Pallara, Poveri pur lavorando: lo dice Eurostat, in www.collettiva.it, 28 aprile 2025.
11Pallara, cit.
12Rinaldo Evangelista e Lia Pacelli, Lavoro e salari in Italia, in Menabò n. 236, aprile 2025.
13Esmeralda Rizzi, Gender pay gap: una discriminazione che non si ferma, in Collettiva, 15 febbraio 2025.
14Giorgio Pogliotti, Stipendi reali, com'è messa l'Italia rispetto agli altri paesi europei?, Il Sole 24 ore+, 27 marzo 2025.
15Il Sole 24 ore+, cit.
16thenextrecession.wordpress.com
17Il Sole 24 ore+, cit.
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- 1999: WTO conference in Seattle
- 1995: NATO Bombing in Bosnia
- 2000s
- 2000: Second intifada
- 2001: September 11 attacks
- 2001: Piqueteros Movement in Argentina
- 2001: War in Afghanistan
- 2001: G8 Summit in Genoa
- 2003: Second Gulf War
- 2004: Asian Tsunami
- 2004: Madrid train bombings
- 2005: Banlieue riots in France
- 2005: Hurricane Katrina
- 2005: London bombings
- 2006: Comuna de Oaxaca
- 2006: Second Lebanon War
- 2007: Subprime Crisis
- 2008: Onda movement in Italy
- 2008: War in Georgia
- 2008: Riots in Greece
- 2008: Pomigliano Struggle
- 2008: Global Crisis
- 2008: Automotive Crisis
- 2009: Post-election crisis in Iran
- 2009: Israel-Gaza conflict
- 2006: Anti-CPE Movement in France
- 2020s
- 1920s
- 1921-28: New Economic Policy
- 1921: Communist Party of Italy
- 1921: Kronstadt Rebellion
- 1922-45: Fascism
- 1922-52: Stalin is General Secretary of PCUS
- 1925-27: Canton and Shanghai revolt
- 1925: Comitato d'Intesa
- 1926: General strike in Britain
- 1926: Lyons Congress of PCd’I
- 1927: Vienna revolt
- 1928: First five-year plan
- 1928: Left Fraction of the PCd'I
- 1929: Great Depression
- 1950s
- 1970s
- 1969-80: Anni di piombo in Italy
- 1971: End of the Bretton Woods System
- 1971: Microprocessor
- 1973: Pinochet's military junta in Chile
- 1975: Toyotism (just-in-time)
- 1977-81: International Conferences Convoked by PCInt
- 1977: '77 movement
- 1978: Economic Reforms in China
- 1978: Islamic Revolution in Iran
- 1978: South Lebanon conflict
- 2010s
- 2010: Greek debt crisis
- 2011: War in Libya
- 2011: Indignados and Occupy movements
- 2011: Sovereign debt crisis
- 2011: Tsunami and Nuclear Disaster in Japan
- 2011: Uprising in Maghreb
- 2014: Euromaidan
- 2017: Catalan Referendum
- 2019: Maquiladoras Struggle
- 2010: Student Protests in UK and Italy
- 2011: War in Syria
- 2013: Black Lives Matter Movement
- 2014: Military Intervention Against ISIS
- 2015: Refugee Crisis
- 2016: Brexit Referendum
- 2018: Haft Tappeh Struggle
- 2018: Climate Movement
Persone
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- Antonio Gramsci
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- Bruno Maffi
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