Paul Mattick: La guerra è permanente

La tanto attesa seconda guerra mondiale è ora in corso; sull’esito che essa avrà si fanno dappertutto congetture, la maggior parte delle quali non sono altro che interpretazioni distorte, dettate da ignoranza, o proiezioni dei propri desiderata. Occorrerà, quindi, in primo luogo smascherare ed eliminare tutte queste mistificazioni, se vogliamo arrivare a scoprire qual è il vero significato di questa guerra e a discutere le possibili azioni contro di essa.

In Gran Bretagna, la guerra viene considerata da tutte le tendenze politiche, dai conservatori fino al Partito laburista e ai sindacati, solo come uno strumento per porre fine all’“hitlerismo”, e a tutte le aggressioni dei “fuorilegge” internazionali. La borghesia francese ed il suo movimento operaio (ad eccezione della legione straniera russa sul territorio francese: il Partito comunista illegale) suonano la stessa campana, e così fanno tutti gli altri paesi schierati a fianco degli Alleati. Come causa immediata della dichiarazione di guerra viene assunto l’attacco tedesco alla Polonia che, venendo dopo lo Anschluss austriaco e l’occupazione della Cecoslovacchia, dimostrerebbe - così si dice - la malafede di Hitler e la sua follia divenuta, ormai, un attentato costante alla pace nel mondo. (Questo punto di vista è condiviso da tutti coloro che hanno interesse a bloccare l’avanzata tedesca allo scopo di spianare la via all’imperialismo delle altre potenze).

Le potenze antinaziste difendono, oltre che se stesse ed un certo numero di nazioni più deboli, la “democrazia”, la “pace” e la “civiltà” contro la barbarie di Hitler; ma anche i nazisti sono impegnati - dicono - in una “guerra difensiva” contro il tentativo dell’Inghilterra di limitare le possibilità di esistenza del “popolo tedesco”, salvaguardabíle dallo sfruttamento straniero (che gli ha fino ad ora impedito di conquistarsi un “posto al sole”) solo attraverso una forte potenza militare. L’Anschluss, dichiarano i nazisti, era inevitabile; il disarmo della Cecoslovacchia era indispensabile per la sicurezza della Germania, così come per assicurare al popolo tedesco lo spazio vitale ad esso necessario era indispensabile distruggere il sistema creato da Versailles. Né ai nazisti mancano gli argomenti morali, soprattutto basati sulla notoria infedeltà dell’Inghilterra nei confronti delle promesse e degli accordi da essa stessa stipulati, come dimostrerebbe la spinta data alla Polonia per “attaccare la Germania”. In questo modo la politica di Hitler diventerebbe non solo una lotta in difesa degli interessi tedeschi, ma anche una garanzia per il mantenimento della pace mondiale, messa in pericolo dall’“egoismo” inglese.

Il “socialismo di guerra” tedesco, attuato molto prima dello scoppio vero e proprio delle ostilità, ha fornita alla propaganda nazista un ulteriore argomento, quello per cui sarebbe la natura “socialistica” dell’economia nazionale tedesca ad essere temuta e combattuta dalle “nazioni democratiche, capitalistiche, plutocratiche ed ebraiche”. I propagandisti nazisti mettono sarcasticamente in rilievo che lo slogan “difesa della democrazia” è una volgare truffa, dal momento che la democrazia, nei paesi capitalistici puramente nominale, è - essi affermano - assai meno popolare del fascismo tedesco che governa davvero nell’interesse dell’intera nazione. (In questo tipo di propaganda sono impegnati quasi tutti i paesi interessati all’espansione imperialistica tedesca e al prolungamento del dominio fascista).

Sia il punto di vista fascista che quello antifascista contengono, è vero, alcuni granelli di verità, altrimenti il popolo non accetterebbe così facilmente tali spiegazioni; ma le parziali verità contenute nella propaganda bellica dell’una come dell’altra parte perdono anche questo minimo di plausibilità quando vengono messe a confronto, non già con i fatti reali, quanto soltanto con la totalità degli argomenti presentati.

I paesi “neutrali” aderiscono all’uno o all’altro dei fronti in lotta, sempre pronti, comunque, a cambiare schieramento e a prendere parte alle battaglie economiche, pur non volendo, o non essendo per ora costretti, a partecipare alle battaglie militari. L’atteggiamento che questi paesi assumeranno sarà deciso dal decorso della guerra sui due fronti, economico e politico. Essendo però la guerra ancora nella sua fase iniziale - nonostante gli avvenimenti in Polonia e in Finlandia - , paesi come l’Italia, la Spagna, la Turchia ed il Giappone possono ancora permettersi di giocare a “rimpiattino con la storia”, come fa anche la Russia, che, pur partecipando all’aggressione imperialistica, si considera ed è tuttora considerata una potenza “neutrale”.

La neutralità di questi paesi è una truffa, esattamente come la “difesa” tedesca o l’“anti-hitlerismo” degli alleati. Nessun paese può considerarsi estraneo alla presente guerra: l’occupazione giapponese della Manciuria, la conquista italiana dell’Etiopia e la guerra civile spagnola, per menzionare soltanto alcuni incidenti, sono strettamente connesse, sotto diversi aspetti, con l’attuale guerra. E altrettanto lo è la politica di neutralità, così come ogni altra politica degli Stati Uniti. Benché la maggioranza del popolo americano sembri condividere l’assurda opinione corrente circa le cause della guerra, indirizzando le sue simpatie dalla parte dei “paesi democratici”, “amanti della pace”, nondimeno la partecipazione del popolo americano alla guerra non sarà determinata da questo sentimento, bensì da forze oggettive sulle quali esso non esercita alcun controllo e delle quali non è neanche a conoscenza.

Guerra e capitalismo

Per poter procedere a qualsivoglia tipo di analisi, è necessario conoscere esattamente le cause della guerra. Ci sono già state guerre prima che esistesse il capitalismo, ma solo la guerra capitalistica è direttamente causata dal sistema socioeconomico esistente. Mentre alcuni ritengono le guerre, nel capitalismo, inevitabili, altri sostengono invece la possibilità di una società capitalistica che metta fuori legge per sempre ogni tipo di guerra. Questi ultimi guardavano alla guerra del 1914 come all’“ultima guerra”, come alla guerra che metteva fine a tutte le guerre, vale a dire quasi come lo strumento indispensabile per il raggiungimento della pace eterna. Ora, come allora, essi nutrono una “grande illusione”.

Noi pensiamo che, benché ogni guerra abbia le sue specifiche ragioni storiche, tutte le guerre abbiano, all’interno del sistema capitalistico, anche una causa comune che va ricercata nei rapporti capitalistici di classe e di produzione: così come esiste una correlazione tra boom e depressione, anche guerra e pace stanno in un rapporto di interdipendenza l’una con l’altra; e come favorire la prosperità capitalistica significa preparare il terreno per la depressione, così favorire la pace capitalistica significa essere un guerrafondaio. Sia il guerrafondaio che il pacifista producono, non in sé ma oggettivamente, gli stessi effetti, perché la loro azione non è determinata dalla loro volontà soggettiva, bensì da forze che sfuggono completamente al loro controllo.

Per spiegare il nesso intercorrente tra guerra e pace, basta citare l’esempio delle guerre tedesche tra il 1864 ed il 1871, che avevano lo scopo di rompere un quadro politico nazionale ed internazionale che impediva lo sviluppo della Germania come potenza industriale e capitalistica di primo piano in grado di competere con le altre nazioni capitalistiche. Le guerre contribuirono a creare una situazione in cui le forze produttive liberatesi spinsero il capitale tedesco ad uscire dai confini dell’Europa e ad affacciarsi sulla scena mondiale per rivendicare, in concorrenza con Francia ed Inghilterra, una fetta maggiore dei profitti prodotti a livello mondiale. La pacifica prosperità postbellica, basata su di una rapida accumulazione capitalistica, si basava in gran parte sul nuovo assetto creato dalle guerre, proprio come le precedenti difficoltà di dare un vero inizio al processo di accumulazione propriamente detto erano state una delle cause principali dello scoppio delle guerre stesse.

Non potendo rimanere un’“economia nazionale”, l’economia capitalistica deve necessariamente produrre conflitti tra nazioni ogniqualvolta le complicazioni dell’economia, che aumentano con la crescita del capitale, richiedono soluzioni e ristrutturazioni portate a termine dalle unità nazionali a livello internazionale. La forma nazionale del capitalismo è uno dei suoi limiti maggiori e, all’interno del sistema capitalistico stesso, praticamente insuperabile.

Le guerre e le rivoluzioni nazionali stanno con la produzione capitalistica mondiale nello stesso rapporto in cui stanno anche l’esportazione di capitale, la colonizzazione, la divisione internazionale del lavoro, ed il commercio estero. Di fatto, guerre e rivoluzioni hanno luogo quando i mezzi “pacifici” di rafforzamento e di espansione del capitalismo diventano insufficienti o perdono completamente la loro efficacia. Benché le guerre stesse non creino, in sé, profitto e distruggano invece capitale, pure lo sviluppo capitalistico non può prescindere da esse.

Fino a qualche tempo fa era ancora possibile - e si trattava anzi di un’opinione corrente - considerare tutte le depressioni come un “processo di risanamento” di un corpo economico malato che veniva portato, proprio grazie al nuovo livello di produttività raggiunto mediante la depressione, ad una nuova prosperità. Analogamente, anche la guerra poteva essere considerata come un tentativo di ricostituire le condizioni per la pace. Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per il ristabilimento della pace capitalistica.

Contraddizioni economiche

Una delle contraddizioni e calamità insanabili della produzione capitalistica basata sul profitto è che più essa si ingegna di incrementare i suoi profitti, più difficile diventa produrli. Solo una rapida crescita nella formazione del capitale rende possibile la prosperità capitalistica; una depressione ed una stagnazione continue non lasciano aperta altra prospettiva che l’eventuale distruzione della società capitalistica. Se in un determinato paese diventa impossibile elevare la capacità di realizzo del capitale in maniera corrispondente ai bisogni dell’espansione capitalistica, ivi insorge l’assoluta necessità di compensare le insufficienze nazionali con l’appropriazione di profitti addizionali dall’estero. Ciò comporta un attacco alle possibilità delle altre nazioni di procurarsi i profitti indispensabili alla propria espansione capitalistica e, in ultima istanza, la guerra.

Questa secca spiegazione della base economica del capitalismo e dell’imperialismo non esaurisce, naturalmente, la complessità della questione, ma costituisce il presupposto indispensabile per la comprensione dell’incapacità del capitalismo di sfuggire a conflitti interni e a guerre internazionali: la brama insaziabile di sempre maggior profitti, il fatto che il capitalismo non è altro che produzione di profitto, rendono necessario spiegare le forze agenti dietro le azioni imperialistiche in termini di categorie economiche. Qualsiasi argomento e qualsivoglia ragione ideologica si possano addurre per spiegare l’imperialismo, come ad esempio il desiderio di sicurezza per il paese ed il suo approvvigionamento di materie prime, la monopolizzazione dei mercati, l’esportazione di capitale, esigenze strategico-militari, ecc., materialisticamente parlando sottintendono, in ultima istanza, sempre e soltanto una cosa: la necessità vitale per il capitalismo di accumulare profitti.

Non ci dovrebbe ormai più essere dubbio che tutte le difficoltà del capitalismo derivano da un’insufficienza di profitti: su questo punto si trovano, infatti, d’accordo tutti i capitalisti e gli economisti borghesi, pur dando di questo dato di fatto le spiegazioni più disparate ed anche le più disparate proposte di soluzione. I metodi fino ad oggi sperimentati per aumentare le capacità di realizzo del capitale nella misura richiesta dai nuovi bisogni dell’accumulazione sono stati di diverso tipo, dall’incremento della produttività del lavoro e dello sfruttamento, dalla concentrazione industriale, dai cartelli e dai sindacati fino all’introduzione del marketing e del controllo dei prezzi e alla creazione dei trusts e dei monopoli; il tutto, però, con risultati assai deludenti, perché non appena un’industria sembrava essersi rimessa, ecco che ne crollava un’altra, e così via, senza che si sia riuscito per ora a trovare un equilibrio complessivo. Già il tentativo in sé di salvaguardare ed incrementare il capitale dell’uno o dell’altro gruppo capitalistico non faceva altro che rendere sempre più precaria la base stessa di esistenza dell’intera società capitalistica. Così il capitalismo, cercando di superare le sue barriere interne, non ha fatto altro che crearne delle nuove ancora più alte ed invalicabili.

Colonizzazione ed imperialismo

La molla delle azioni capitalistiche non è altro che la caccia al profitto, che spiega sia lo sviluppo interno dei paesi capitalistici, sia la loro politica estera. Anche sul piano internazionale come su quello nazionale, il capitale viene trasferito da un settore produttivo all’altro, e parallelamente a quanto avviene nei paesi sviluppati, dove esso si estende arrivando gradualmente a comprendere tutte le branche della manifattura e persino la primitiva agricoltura, a livello internazionale viene esportato nei paesi non-capitalistici o in paesi che offrono condizioni produttive più favorevoli.

Ai tempi del colonialismo, gli imperialisti cominciarono ad esportare capitale per lo sviluppo di piantagioni, di sistemi di irrigazione, di miniere, di fabbriche ed industrie; ed in cambio della costruzione di ferrovie, viadotti e porti, le colonie si trovavano inondate di merci provenienti dai paesi colonizzatori. Lo sfruttamento delle colonie era quindi duplice, consistendo da una parte nello sfruttamento diretto della forza-lavoro locale da parte delle imprese capitalistiche e, dall’altra in quello indiretto dei prodotti coloniali scambiati coi manufatti dei paesi colonizzatori. La differenza nella produttività del lavoro, dovuta all’alta composizione organica del capitale nelle nazioni imperialistiche e alla più bassa composizione organica del capitale nelle colonie, permetteva ai paesi più avanzati di scambiare meno lavoro con più lavoro e di sfruttare perfino i popoli più poveri del mondo. Ai profitti ricavati in questo modo si aggiungevano poi anche i proventi fiscali e quelli ricavati dal lavoro forzato.

Pure, il desiderio e la necessità dello sfruttamento coloniale sono stati spesso negati con l’argomento che le colonie si sarebbero dimostrate più che altro un peso per i paesi imperialisti, ma nessuno di questi ultimi si è mai dimostrato pronto a separarsene a meno di esservi costretto da altre nazioni desiderose di rilevare il “fardello dell’uomo bianco”. Così, gli Alleati, ad esempio, non esitarono un secondo a prendere le colonie tedesche dopo il 1918, perché, il possesso ed il controllo dei paesi arretrati significa per gli imperialisti il possesso ed il controllo non solo della forza-lavoro a buon mercato indigena, ma anche di materie prime di importanza vitale e di basi militari per la sicurezza strategica del monopolio delle medesime.

Benché possa essere vero che le colonie sono costose per i contribuenti dei paesi imperialistici, esse hanno nondimeno procurato enormi profitti a quei gruppi capitalistici direttamente interessati allo sfruttamento coloniale. Non senza motivo è stato detto, a proposito dell’Inghilterra, che la sua rapida ascesa come potenza industriale e capitalistica non avrebbe avuto luogo senza i tesori dell’India. Una determinata quantità di denaro si trasforma in capitale: senza l’enorme accumulazione di denaro proveniente largamente dal saccheggio coloniale, lo sviluppo capitalistico sarebbe stato molto più lento.

Imperialismo e fascismo

L’acuirsi del bisogno di profitti addizionali inasprisce le rivalità imperialistiche; ma i mutamenti che hanno luogo all’interno di ciascun paese capitalistico si riflettono anche sul suo atteggiamento imperialistico, per cui la crescita internazionale del capitale entra in contraddizione col suo primitivo imperialismo. Le nuove nazioni capitalistiche, affacciatesi in ritardo sulla scena politica mondiale, si sono trovate e si trovano tuttora ostacolate nella loro espansione dal quadro politico risalente al periodo in cui esse facevano ancora parte delle nazioni sottosviluppate. I vecchi paesi capitalistici, e in special modo l’Inghilterra, hanno soggiogato, e sfruttano nel loro esclusivo interesse, una gran parte del mondo, per cui i paesi nuovi, di recente sviluppo capitalistico, per sottrarsi allo sfruttamento da parte delle nazioni più forti devono escogitare mezzi “artificiali” per incrementare la loro capacità competitiva; è così che essi diventano allora più “politici”, più “militaristici”, più “inquieti” e meno “democratici” dei paesi forti di uno status quo a loro favorevole.

Il più aperto “spirito militaresco” e la “natura non democratica” di paesi come Germania, Giappone, Italia e Russia, traggono la loro origine non tanto dalla tradizione feudale, bensì dalla precaria condizione di questi paesi capitalisticamente maturati a spartizione del mondo già avvenuta. Essi non possono semplicemente permettersi lo spirito “democratico” della Francia che governa un vasto impero coloniale e possiede perfino i mezzi per soddisfare le esigenze di grandi masse di contadini e farne quindi la base di massa del consenso al suo dominio interno. Né possono permettersi l’effettiva solidarietà di tutte le classi che esiste in Inghilterra e che è basata sull’istintiva percezione della necessità di tale unità ai fini del mantenimento dei privilegi inglesi. Costretti nello spazio ristretto loro assegnato dalle potenze imperialistiche dominanti, per accumulare i profitti loro necessari questi paesi sono costretti a spremere più intensamente i loro popoli.

La storia inglese dimostra che la democrazia politica può funzionare solo dove il ritmo di trasformazione sociale è lento e regolare,

osservava Adolf Loewe (1), mettendo in rilievo i diversi bisogni dei paesi di tardiva industrializzazione che devono bruciare le tappe del loro processo di sviluppo. Ma questa accumulazione accelerata, basata sullo sfruttamento intensivo degli operai “nazionali”, deve essere compensata da una legislazione sociale che controbilanci l’oppressione con una serie di provvedimenti atti a non far morire la “gallina dalle uova d’oro”. Così l’elemento “sociale” presente nei paesi di recente sviluppo capitalistico, spesso salutato come un loro processo di umanizzazione, non è mai stato altro che un’espressione della loro insicurezza e bestialità che, contribuendo attraverso l’organizzazione brutale e ferrea ad accelerare il processo di accumulazione capitalistica, ne minano in pari misura anche le basi, e cioè le cieche leggi del mercato. Il processo di accumulazione del capitale è nello stesso tempo un processo di concentrazione e di centralizzazione del potere politico ed economico, che ha luogo lungo tutto l’arco di sviluppo del capitalismo e procede più rapidamente proprio nei periodi di stagnazione e di declino. Attualmente esso è accentuato da nuovi movimenti politici che vanno sotto il nome di bolscevismo e fascismo.

Si è spesso sostenuto che più un paese è ricco, più forte deve essere la sua centralizzazione e concentrazione; ma ciò che determina il grado di centralizzazione di un paese è piuttosto la rapidità della sua accumulazione, che dipende dalla sua posizione nel campo della concorrenza mondiale. In termini di concentrazione del capitale, fino alla Grande guerra era vero che i paesi a capitalismo più avanzato erano anche quelli dove si trovavano concentrate le maggiori fortune; ma in senso economico, proprio i paesi “più ricchi” erano quelli che meno avevano bisogno di dominare politicamente. In essi il governo veniva infatti lasciato nelle mani dei politici provenienti dalle file dei ceti medi, dal momento che essi non potevano far altro che governare nell’interesse dei grandi capitalisti, direttamente o indirettamente, come dimostra l’esempio americano.

Nei paesi capitalistici più poveri, come il Giappone, la concentrazione di ricchezza si identificò fin dall’inizio con la concentrazione di potere politico. Ciò che qui era necessario non era il lento, “normale” sviluppo del capitalismo, basato sulla concorrenza generale, bensì una industrializzazione forzata che imponeva larghissime interferenze da parte dello stato al fine di superare gli svantaggi provocati dall’ingresso tardivo del Giappone nel mercato mondiale. In altre parole, l’alta concentrazione capitalistica di ricchezza nei paesi di più antico capitalismo è responsabile dell’accentuata concentrazione di ricchezza e potere nei paesi di più recente sviluppo capitalistico. Così, lo slogan russo “abbasso il capitalismo occidentale ricco e straricco” non è una vuota frase, bensì l’espressione dell’assoluta necessità per il paese russo di liberarsi dallo sfruttamento straniero che, frenando il suo sviluppo nazionale, avrebbe significato il permanere dell’arretratezza delle forze produttive e della miseria da essa derivante. La trasformazione di questa primitiva miseria nella miseria avanzata del capitalismo impone l’uso di metodi nazional-rivoluzionari contro gli interessi legati alle condizioni arretrate del paese e al capitale straniero. L’industrializzazione di questi paesi deve, poi, in presenza di un’immaturità della borghesia, essere portata a termine contro la borghesia stessa: ciò spiega, assieme alla debolezza economica, la centralizzazione radicale di tutto il potere nelle mani dello stato.

Questa centralizzazione forzata rivela, inoltre, il carattere veramente internazionale del capitalismo, che costringe i suoi anelli più deboli a saltare violentemente i dislivelli di sviluppo rispetto alle nazioni più forti. Da questo punto di vista, le tendenze verso il capitalismo di stato, che sono presenti sia nei paesi “fascisti” che in quelli “democratici”, indicano una reale debolezza economica del capitalismo.

Così, nella presente lotta gli “aggressori” hanno ribaltato in forza la loro debolezza. Anche se è vero che sia i paesi fascisti che quelli antifascisti sono in egual misura aggressori, fino a poco tempo fa le “nazioni democratiche” potevano però esaltare l’uso di armi economiche, mentre i paesi fascisti erano costretti a basarsi in misura crescente su armi puramente militari; ma la crisi mondiale del 1929 accentuò, acuendo le contraddizioni imperialistiche e turbando in modo mai visto l’economia internazionale, la militarizzazione del capitalismo. Se la crisi si limitò a portare il New Deal ad un paese ricco come gli Stati Uniti, ad un paese più povero come la Germania portò il fascismo, che già avevano paesi ancora più poveri come l’Italia, il Giappone, la Turchia, la Russia e la Polonia. Il fascismo rivela il capitale nella sua crudezza, ancora mascherata, nei paesi antifascisti, dal persistere del benessere al quale è legata la loro “democrazia”.

È vero, o meglio era vero, che al tempo della rapida accumulazione capitalistica il numero dei capitalisti cresceva proporzionalmente alla crescita del capitale. Ma non appena si paragona la crescita dei primi con quella del capitale, si è costretti ad ammettere che, di fronte a quest’ultima, la crescita del numero dei capitalisti era piuttosto un declino, o meglio una decimazione che aveva luogo sia nei periodi di boom che nei periodi di depressione ad opera della concentrazione, della transizione dalla fase del libero mercato a quella del mercato controllato, e dei mutamenti nella produzione e nella produttività. Tuttavia, nei periodi di stagnazione e di crisi il processo di concentrazione del capitale attraverso i canali economici dominanti rallenta al punto da dover essere portato avanti, come in Germania, con l’aiuto di mezzi politici violenti.

Le lotte politiche interne, i mutamenti nei rapporti di forza tra le classi, le bancarotte ed il favoritismo prepararono il terreno per l’intervento massiccio dello stato in tutti i settori della vita del paese, finché lo stato, investito del compito di assicurare una qualche forma di stabilità alla società basata sullo sfruttamento, non arrivò ad assumere anche la direzione dell’economia nazionale: ad esempio, benché in Italia ed in Germania esistano ancora imprenditori, interessi, profitti ed obbiettivi individuali e, quindi, anche possibilità individuali di realizzare guadagni, privilegi ed extra-profitti, l’individualismo è ora però subordinato all’egemonia economica dello stato. Naturalmente, anche in passato esistevano aggregati economici che avevano largamente superato il livello dell’iniziativa individuale, ma oggi l’integrazione delle varie attività economiche private nel “piano” diretto dallo stato ha assunto un’importanza dominante e non è più l’eccezione, bensì la regola.

Nella Germania di oggi l’imprenditore non è più padrone della propria azienda; egli non può più decidere sugli investimenti, sull’importazione o la qualità delle materie prime, sulle condizioni di lavoro, sul tipo di produzione, sul saggio di interesse o di profitto, e gli è stato sottratto anche il controllo del commercio oltremarino e dell’attivizzazione coloniale delle forze di espansione. Egli è ormai diventato un funzionario che cura i propri interessi, all’interno, però, di un apparato economico burocratizzato e altamente politicizzato, senza che egli possieda più, di fatto, né possa aumentare il capitale da reinvestire. La centralizzazione forzata, il monopolio statale - che è diventato una sorta di cartello generale - , hanno frenato se non abolito la concorrenza. Per questa forma di monopolio statale non esiste più alcuna minaccia di crisi, nel vecchio senso del termine, perché l’industria bellica che ha rianimato tutti i settori della vita industriale sta lavorando a pieno ritmo ed è sommersa da ordinazioni. L’imprenditore non è più ossessionato dallo spettro della caduta del saggio del profitto perché lo stato ha fissato, normalizzato e garantito il suo reddito, e mette a disposizione il suo tesoro per l’espansione o i nuovi investimenti.

Nel corso di questo processo cambia ulteriormente anche la composizione della classe dominante, nel senso di una sostituzione sempre più completa dei legittimi proprietari del capitale con la burocrazia, divenuta ormai un’amalgama di funzionari industriali, militari e politici. Ma, esattamente come i vecchi capitalisti, i nuovi dominatori fascisti sono tali in virtù del loro potere di disposizione sui mezzi di produzione. Il dominio sugli operai e gli altri proletari, che è impossibile mantenere con mezzi puramente economici, viene assicurato con mezzi politici. (2)

Capace di sviluppare l’attività economica solo sulla base dello sfruttamento, la politica internazionale di tutti i paesi capitalistici deve assumere - in tutti i momenti decisivi - la forma del conflitto bellico. Ma, nonostante questa forma peculiare di “rapporti internazionali”, i capitalisti, ancora impegnati contro i residui di feudalesimo ed in lotta sia tra di loro che contro gli operai, ebbero bisogno all’inizio di una democrazia politica nella quale essi potessero risolvere i loro problemi all’interno della concorrenza generale. Con l’intensificarsi del processo di concentrazione capitalistica, la legge ed il governo finirono però per perdere sempre più la funzione di sintesi di conflitti politici ed economici facentisi via via più acuti, finendo per rivelarsi appieno per quello che erano: uno strumento al servizio non dei “bisogni dell’intero”, bensì dei bisogni di una minoranza e della sua politica repressiva sul piano interno ed imperialistica sul piano internazionale.

I confini nazionali non possono, però, arrestare il processo di concentrazione. La tendenza dello sviluppo capitalistico a ridurre il numero di sfruttatori accrescendo contemporaneamente il loro potere su masse sempre più ampie di operai, impone la “riorganizzazione” internazionale delle sfere di sfruttamento. Parallelamente alla sostituzione della concorrenza fra imprenditori privati da parte della concorrenza politica per la conquista di posti di comando all’interno delle istituzioni burocratiche, si inasprì in modo crescente anche la concorrenza fra nazioni, ma non più per questo o quel possedimento coloniale, o per quote più vantaggiose del commercio mondiale, bensì per il completo ed esclusivo controllo dei cosiddetti Lebensräume geo-economici. In altre parole, si sviluppò un processo di divisione del mondo tra poche grandi potenze in grado di controllare e sfruttare le restanti unità nazionali, proprio come fanno i grandi trusts con le imprese minori.

Solo ad alcune grandi potenze -- si afferma in un opuscolo fascista (3) -- resta la possibilità di mantenere l’indipendenza militare ed economica.

Nel seguito viene inoltre rilevato che la crisi mondiale non è stata superata “dal cieco meccanismo economico”, come avveniva in passato, in quanto ogni paese è stato costretto a trovare una soluzione per sé prescindendo completamente dal contesto dell’economia mondiale. Ma questa “soluzione autonoma” - celebrata all’inizio come la tendenza verso l’autarchia - fu in realtà la preparazione alla guerra tra le maggiori potenze per il dominio del mondo.

Con il termine potenza -- continua la pubblicazione nazista -- è stato definito uno stato capace di difendersi contro una coalizione di altre potenze. Di fronte alla minaccia costituita dalla presenza di alcune grandi potenze, gli stati piccoli e medi sono costretti a collaborare con esse o a mantenersi neutrali. La potenza politica deve essere anche una potenza economica e questo è il segreto che spiega tutta l’attuale politica militare dell’Inghilterra, della Francia, della Germania, dell’Italia e del Giappone, perché la base per una vera stabilità economica esiste soltanto in paesi come gli Stati Uniti o la Russia sovietica, che si estendono per interi continenti. I paesi più piccoli non sono in grado di difendersi e possono mantenere l’autonomia economica solo accontentandosi di un basso tenore di vita. La trasformazione dell’economia mondiale nel senso richiesto dalle necessità militari ed economiche odierne non è un fenomeno generale, bensì un fenomeno indotto dalla volontà delle grandi potenze di riorganizzare tutte le nazioni del mondo attorno a sé.

Le condizioni miserabili della Russia e la profondità della crisi che gli Stati Uniti stanno attraversando dimostrano, però, che neppure in questi paesi esiste la base per una vera “stabilità economica”; la crisi capitalistica non è una questione di geografia bensì un problema di rapporti di classe: finché sussiste lo sfruttamento del lavoro salariato, e l’intera economia continua a funzionare nell’interesse e per la conservazione delle classi dominanti, anche l’espansione economica, il riassetto dei rapporti tra le classi e la divisione delle sfere d’influenza, se possono favorire un gruppo di capitalisti a spese di un altro, non possono però eliminare la miseria e la crisi che affliggono oggi il mondo. Proprio questo processo, anzi, non fa altro che illustrare una volta di più la completa incapacità del capitalismo di portare a compimento un riassetto davvero razionale dell’economia mondiale. Le “cieche leggi del mercato” non sono riuscite ad aver ragione della crisi e, non essendoci più alcuna probabilità di assistere ad una “normale ripresa”, l’unica via d’uscita rimasta al capitalismo è la fusione di più stati possibile nell’uno o nell’altro blocco di potenze ed il livellamento - fin dove è possibile - delle capacità competitive di questi blocchi; ma per far ciò è indispensabile il ricorso alla guerra. Tuttavia, proprio questo tentativo di dare una soluzione cosciente e capitalistica all’attuale crisi, non fa altro che approfondirla ulteriormente, dal momento che quei criteri economici che si manifestavano attraverso le crisi sono stati ampiamente eliminati, assieme all’automatismo economico, dai recenti interventi di programmazione fascista o comunque statale.

La “tragedia” del fascismo e di tutti i tentativi di “pianificazione capitalistica” consiste dunque nel fatto che essi apportano ulteriori guasti all’ordinamento capitalistico del mondo proprio nella misura in cui hanno successo. Ma un’alternativa capitalistica non esiste, perché se ci si limitasse ad “aspettare la normale ripresa” la depressione creerebbe miserie attualmente inconcepibili, causando la distruzione di milioni di esseri umani ed anche di un gran numero di capitalisti. Una pace capitalistica - come ipotetica alternativa “democratica” all’aggressione fascista caratteristica di questo periodo - non sarebbe meno costosa della guerra: questo, le menti più lucide della classe dirigente lo sanno fin troppo bene.

In tutti i paesi belligeranti -- scrive il “New Statesman and Nation” (4) -- il ritorno alla vita civile può sembrare così periglioso e difficile da indurre la gente a desiderare, per la paura di affrontarlo, la continuazione della guerra. Accanto alle macchine immote, anche fra i vincitori, se vincitori ci saranno, i reduci si troveranno a dover affrontare la povertà col fucile in mano.

I mutamenti apportati dalla guerra

Non era un segreto per nessuno che la Germania si stava preparando alla guerra, il fulcro attorno al quale ruotava, già da prima del 1933, la sua intera economia. Ma, per poter sostenere delle battaglie esterne, occorreva però ristabilire la pace all’interno e, dal momento che la vecchia borghesia non era più in grado di garantire tale pace coi metodi tradizionali, fu escogitata una nuova ideologia per conservare sotto nuove spoglie l’antico sfruttamento capitalistico. Fu così che la crescente barbarie della vita concreta fu accompagnata da una fraseologia sociale sempre più “radicale”: come la “politica sociale” dell’età delle riforme indicava soltanto l’intensificarsi dello sfruttamento, così la crescita dell’ideologia nazional-”socialista” esprimeva soltanto la preparazione a giganteschi assassinii in massa.

Dal punto di vista degli interessi di classe, per gli operai non esiste una differenza sostanziale tra il carattere della struttura socioeconomica tedesca e quello delle strutture degli altri paesi; esiste però una notevole differenza nella insicurezza economica delle diverse nazioni, che spiega le diversità esistenti in campo ideologico. Come nazione capitalistica, la Germania colse la prima occasione che le si presentò per riprendere la sua politica imperialistica - che era poi, capitalisticamente parlando, l’unico mezzo che aveva a disposizione per uscire dalle sue difficoltà -, e la classe operaia tedesca, non potendo o non volendo dare una soluzione rivoluzionaria alla crisi del capitalismo, non aveva che due alternative: prendere attivamente parte al nuovo corso imperialistico o rimanere completamente passiva. Gli operai tedeschi “scelsero” la seconda via, e la loro effettiva passività è stata proprio una delle cause principali dell’avvento del fascismo con la sua peculiare fraseologia nazionalsocialista. Ma ciò vale, attualmente, per tutto quanto il mondo; non agire in maniera socialista significa agire in maniera imperialistica. È quindi del tutto assurdo sostenere che gli operai tedeschi non vogliono realmente combattere per il fascismo e la sua guerra; nessuno vuole combattere per qualcosa, ma perdendo un’opportunità storica, o in assenza di un’opportunità per la rivoluzione sociale, gli operai non hanno oggi altra scelta che quella di combattere nella guerra fascista. E, anche se gli operai francesi ed inglesi dichiarano e perfino credono di star combattendo non la Germania ma Hitler, anch’essi stanno combattendo soltanto perché non hanno altra alternativa, e, non agendo in maniera socialista, devono anch’essi agire in maniera imperialistica. Per questo motivo non ci si può attendere che gli operai di questi paesi oppongano una seria resistenza al processo di fascistizzazione che è in atto a livello mondiale.

Il fascismo non è un’invenzione tedesca, bensì una conseguenza del liberalismo capitalistico, di cui esso costituisce l’organica continuazione. Le sue radici possono essere fatte risalire alle origini stesse del capitalismo, ed esso può essere addirittura definito come la forma perfetta di capitalismo. Essendo il prodotto del capitalismo stesso ed una creatura del capitalismo mondiale, il fascismo deve, quindi, arrivare prima o poi, nonostante abbia fatto la sua prima apparizione solo in alcuni paesi, ad abbracciare tutto il mondo, anche grazie a quello strumento peculiare del fascismo che è la guerra.

Per conquistare il nemico -- affermò una volta Paul Reynaud (5) -- dobbiamo prima conquistare noi stessi.

E due settimane dopo, davanti al Senato francese, egli sosteneva:

Molti francesi sono preoccupati di fronte alle prospettive che si profilano per la Francia del dopoguerra, e si chiedono se lo stato non arriverà ad inghiottire tutto [...] Controllo della valuta? Controllo dei prezzi? Controllo dei salari? [...] Ce li hanno imposti gli eventi.

È vero, gli eventi hanno imposto il fascismo alla borghesia; ma una volta fatta la sua comparsa, la nuova classe dirigente affermatasi durante l’“emergenza” ha tagliato tutti i ponti con la vecchia forma di capitalismo.

Le dittature centralistiche del continente determinano anche il corso della società inglese, la cui resistenza all’evoluzione nel senso delle prime non va sopravvalutata, dal momento che

l’inconscia ma estremamente attiva solidarietà di tutte le classi nello sfruttamento dei mercati coloniali e precapitalistici sta avviandosi verso la dissoluzione. La lotta per la spartizione del prodotto nazionale non può più venir mitigata con un puro e semplice compromesso sulla spartizione dell’incremento annuale. (6)

Lo stato stesso dovrà assumersi in prima persona il compito di mantenere l’ordine basato sullo sfruttamento, e

il solo compenso che possa venir offerto alle classi superiori in cambio della cessione dei loro privilegi è l’eventuale concessione di un posto di primo piano nella scala gerarchica dei dirigenti di un’amministrazione basata non più sull’appropriazione privata, ma sulla pianificazione complessiva. (7)

Non è azzardato -- afferma il londinese “Economist” (8) -- pronosticare che la forma di controllo industriale instaurata durante la guerra dominerà lo sviluppo economico del paese anche dopo la fine del conflitto. Corriamo il serio pericolo di scivolare verso un sistema feudale basato sul controllo di tipo monopolistico che, ammesso che riesca a ridare stabilità al mondo appena uscito dalla guerra, militerà però certamente contro l’abbondante produzione di merci a buon mercato.

L’adozione da parte della Francia del sistema di blocco dei salari e di regolamentazione del pagamento degli straordinari non si farà più attendere molto, e l’abolizione del sistema degli shop stewards troverà certamente un’eco in Inghilterra. Ciò segnerà l’avvio del processo di superamento dell’atomizzazione del blocco capitalistico, destinato a portare a quell’unità di stato e capitale che è propria dei paesi fascisti. Come nel corso del processo di formazione del moderno stato nazionale la centralizzazione politica era lo strumento necessario per superare il feudalesimo, oggi essa diventa il manganello per reprimere ogni ribellione contro il sistema basato sul lavoro salariato. Ciò che un tempo fu salutato dalle classi subalterne come il proprio sistema, si è ora mutato in un sistema di oppressione senza precedenti.

Come i singoli capitalisti (con molte eccezioni) diventano fascisti soltanto al momento della bancarotta (ed alcuni non hanno nemmeno questo privilegio), anche le organizzazioni operaie incontrano una certa difficoltà a pronunciarsi decisamente a favore del fascismo, questa nuova tendenza che esse possono soltanto subire o, tutt’al più, contribuire a preparare, ma mai dirigere, in quanto incapaci di uscire dal terreno del capitalismo liberale sul quale sono sorte e si sono sviluppate. In proposito è illuminante l’esempio del movimento socialista francese, il cui maggior rappresentante, Leon Blum, non poté opporre alla politica dittatoriale di Daladier che una differenza nel metodo, ma non negli scopi finali del programma della borghesia.

C’è perfino una corrente, formata dagli elementi più progressisti della CGT -- riporta l’“Economist” (9) -- che avanza la proposta di quote universali militari di salario da integrarsi con assegni familiari. Perché un operaio dovrebbe essere pagato più di un soldato?

Una volta adattate alle esigenze belliche le loro economie mediante l’istituzione, da parte dei governi francese ed inglese, di controlli valutari, di un sistema di licenza per il commercio con l’estero e di un parziale controllo degli investimenti, l’accento degli esperti inglesi cadde prima e più di tutto sulla necessità di abbassare i salari inglesi al livello di quelli francesi. I rappresentanti sindacali, si diceva, non avrebbero potuto non giungere alla conclusione della necessità

per la classe operaia inglese di compiere molti sacrifici, al fine di raggiungere una parità di sforzo con la Francia. (10)

E gli esperti inglesi proponevano tutta una serie di piani per facilitare questi sacrifici. Scrive, infatti, il loro esponente più celebrato, J. M. Keynes:

Gli operai non devono rivendicare immediatamente una quota delle risorse nazionali maggiore di quella ricevuta finora; la comunità può trovarsi infatti nelle condizioni di dover richiedere loro perfino una riduzione di essa; ma questo non significa che essi non debbano essere compensati mediante il riconoscimento del loro diritto alle risorse future [...] La soluzione consiste nel distinguere due generi di remunerazioni per lo sforzo attuale: il denaro che può essere usato liberamente, e il denaro l’uso del quale deve essere differito fino alla fine dello stato di emergenza e al ritorno di una normale disponibilità del sovrappiù di risorse produttive. (11)

Questo schema, come lamentava un americano, si inserisce perfettamente nella “crescente passione per l’irreggimentazione e la coesione”, ma deve divertire perfino gli elaboratori di schemi di professione, che sanno benissimo che il linguaggio altisonante non potrà sostituire la frusta che imporrà il comando di lavorare di più e mangiare di meno. Perché

se si vuole discutere realisticamente del come siano da compensare in particolare quei cittadini britannici che soffrono la perdita, a causa della guerra, di persone o cose, non si può certo assumere che qualcun altro paghi il conto al posto del governo britannico. Ciò significa che verrà fatto il tentativo di tenere basso il conto. (12)

E il conto può essere tenuto basso solo a spese degli operai. E se era lecito chiedersi perché un operaio dovesse essere pagato di più di un soldato, in che senso dovrebbe essere illecito chiedersi perché mai egli dovrebbe vivere più di un soldato?

Più si allarga e perdura la lotta per la democrazia, più rapida sarà la fascistizzazione del mondo. Cominciato con la completa subordinazione degli operai, il processo ha termine con il trasferimento del controllo di tutta quanta la società nelle mani di una nuova classe dirigente. Ad esso non sfuggiranno né capitale né lavoro; né sarà preservata un’isola democratica nella quale possano rifugiarsi gli intellettuali per conservare la “cultura” di ieri e, cioè, il loro status di intellettuali in un mondo moribondo.

Se questa guerra porta l’Europa all’adozione del sistema economico totalitario -- è stato detto a conclusione di una tavola rotonda di esperti americani (13) -- nel quale il governo dirige la produzione ed il commercio con l’estero, gli Stati Uniti potrebbero muoversi, per ragioni di autodifesa, nella stessa direzione.

Benché la guerra promuova la diffusione del fascismo, essa non ne costituisce la causa, ed è difficile prevedere quanto rapida sarà la diffusione stessa a livello mondiale. Quello che è fin d’ora certo è che una sconfitta dei “paesi democratici” porterebbe all’immediato compimento della rivoluzione fascista ora in corso. I paesi in cui la proprietà privata nel vecchio senso ha ancora un peso determinante saranno per quella ragione - per autodifesa -dalla parte della Francia e dell’Inghilterra. Per cui, un’alleanza di un paese come gli Stati Uniti con la Germania presupporrebbe una rivoluzione fascista in America, che eliminasse gli ultimi residui del vecchio istituto della proprietà privata, preparando il paese ad un nuovo tipo di “sviluppo” capitalistico. Al presente, comunque, gli Stati Uniti sono interessati soltanto o a una rapida sconfitta della Germania che non renda più necessaria la loro entrata in guerra a fianco degli Alleati, o ad una soluzione di compromesso, ad una tregua piuttosto che alla pace, per guadagnar tempo in attesa di un riallineamento di forze meno favorevole dell’attuale alla Germania. Il capitalismo vuole sia la guerra che la non-guerra: questo atteggiamento amletico corrisponde alla resistenza opposta dal capitale privato alle tendenze fasciste nei paesi “democratici” - una resistenza che costituisce la debolezza di fondo di questi paesi, capace di compromettere le loro possibilità di vittoria a meno che non finisca per prevalere anche in questi paesi l’unilaterale totalitarismo delle nazioni fasciste. Ma se questo sarà il caso - e quasi certamente lo sarà, guerra o non guerra - dovrebbe allora apparire chiara a tutti gli operai, ora preda delle mistificazioni degli ideologi, l’insensatezza di tutte le questioni nazionali e di tutte le lotte per la causa patriottica.

Più la situazione degli Alleati si fa difficile, più pressante diventa per l’America la necessità di aiutarli; quanto più fasciste diventeranno le istituzioni di questi paesi, tanto più spingeranno la Germania verso l’eliminazione totale degli ultimi residui della forma passata di capitalismo. Se, viceversa, si interromperà nei paesi democratici il processo di fascistizzazione, la loro situazione militare si farà così critica da dar necessariamente luogo al tentativo di salvare il salvabile mediante rivoluzioni fasciste violente nelle diverse patrie. Tutte le strade portano allo stato totalitario. È quantomeno ingenuo accarezzare l’ipotesi - largamente superata dagli eventi - che, al presente, una tregua possa rafforzare la posizione degli alleati, nella speranza che la diplomazia alleata della sterlina e del dollaro riesca alla fine a spuntarla sulla diplomazia tedesca delle truppe e dei cannoni. Il denaro era tutto solo finché era rispettato come la forma ideale ed universale di ricchezza e di potenza. Il vecchio slogan di Blanqui: “coloro che hanno ferro avranno pane”, è oggi più che mai valido. Che cosa succede se la Germania non può procurarsi il ferro svedese o il petrolio rumeno perché non ha valuta pregiata? Essa può sempre prendere le miniere svedesi e i pozzi rumeni con la forza, dal momento che non esiste una controforza in grado di fermarla. Né l’oro delle colline del Kentucky può rappresentare una tale forza; perché lo diventasse occorrerebbe che la Svezia e la Romania si armassero e che l’America si militarizzasse. Ma nel primo caso sarebbe necessario guadagnare tempo e nel secondo caso il risultato non potrebbe che essere la fascistizzazione dell’America. La diplomazia del dollaro non è più sufficiente; la tregua verrà piuttosto usata per militarizzare le “democrazie” in maniera da incutere ai fascisti il vero rispetto per la cassa.

Possiamo sconfiggere la Germania - afferma l’“Economist” - soltanto accumulando una indiscutibile supremazia nel campo dell’approvvigionamento bellico. E saremo sicuri di vincere la guerra solo quando saremo in grado di passare all’attacco con a disposizione un contingente di uomini almeno pari ed una schiacciante superiorità di mezzi bellici; quando saremo cioè capaci di fare ai tedeschi qualcosa di simile a ciò che essi hanno fatto ai polacchi nel mese di settembre. (14)

Se ciò era vero quando fu scritto, lo è tanto più oggi che la situazione è ulteriormente peggiorata per gli alleati. Ciò significa che le forze anti-tedesche saranno sempre più costrette ad adottare quel sistema che esse sono impegnate a combattere.

È solo un pio desiderio degli antifascisti che il blocco e i guai finanziari che si stanno profilando all’orizzonte della Germania siano in grado di portare alla sua sconfitta senza un grande sforzo da parte degli Alleati; un pio desiderio e una speranza dei “maneggioni” di ieri, destinati, però, ad andare amaramente delusi. Questi “marxisti” à la Sternberg, che contano le debolezze della loro antica patria sulle loro dieci dita, dovranno rifare meglio i loro conti. Il loro “approccio economico” è già oggi una sorta di propaganda alla maniera di Goebbels; incoraggiando la guerra, essi contribuiscono all’estensione del fascismo a livello mondiale, e quand’anche le loro speranze dovessero avverarsi, non avranno fatto altro che aiutare un altro gruppo di commissari fascisti a prendere il posto attualmente occupato da altri dello stesso genere. Tali “marxisti”, che propongono ad altri di lottare contro Hitler assicurando loro in anticipo il successo, sono diventati essi stessi fascisti a dispetto del rifiuto da parte di Hitler di concedere loro questo privilegio.

La rivoluzione mondiale fascista

Se la Germania vince, ammoniscono gli antifascisti, dominerà il mondo. In realtà questa idea non è meno infondata dell’altra ossessione antifascista circa la possibilità che da questa guerra tragga origine un sistema fascista a livello mondiale, governato da un unico corpo centrale. L’attuale, incerta, unione economica franco-inglese e le sue possibilità di sopravvivere alla guerra, gli ipocriti discorsi di pacifisti, antifascisti, dirigenti operai ed altra gente di buona volontà sull’utilizzazione di questa guerra per l’istituzione di una qualche sorta di Federazione europea che arrivi ad un’intesa col resto del mondo, ridando così vita alla libertà economica - tutto ciò non costituisce altro che il tentativo di risuscitare dalle ceneri l’antico sogno dello sfruttamento regolamentato a livello internazionale.

Nel periodo del riformismo gli adoratori socialisti del capitale arguirono che la cosiddetta tendenza presente in ogni paese verso il Cartello generale - un solo grande trust - sarebbe stata solo il passaggio obbligato verso un cartello internazionale e che ciò avrebbe costituito la cosciente e pacifica transizione della società internazionale al socialismo. La Società delle Nazioni apparve poi come la prima pietra miliare di questo processo; ma la crisi mondiale e il crollo di innumerevoli programmi e concreti tentativi di cooperazione internazionale stravolsero il sogno nell’incubo del fascismo mondiale secondo il modello russo, di modo che gli unici rimasti ad accarezzare con intima soddisfazione queste fantasie furono i bolscevichi.

Le classi dirigenti degli stati nazionali si sono storicamente sviluppate in una maniera che esclude la possibilità di una spartizione pacifica dello sfruttamento mondiale. L’organizzazione dell’economia mondiale - con la sua divisione del lavoro altamente sviluppata, e coi suoi legami con una moltitudine di interessi non direttamente collegati alle sue esigenze e conseguenze - dà costantemente origine a conflitti fra i pressanti bisogni reali della produzione e della distribuzione mondiali ed i bisogni di classe e gli interessi particolari dell’atomizzata borghesia. Proprio questa contraddizione è una delle prove più eloquenti del vincolo che il capitalismo rappresenta per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive umane.

In teoria, è astrattamente concepibile che le guerre potrebbero essere evitate se tutte le classi dirigenti di tutti i paesi o di un numero sufficienti di paesi si unificassero in un unico corpo governativo per organizzare lo sfruttamento su di una base economica veramente mondiale. Ciò che rimarrebbe sarebbe soltanto la guerra di classe tra gli sfruttatori e gli sfruttati di tutto il mondo. Ma, nella pratica, bisogna tener presente che - a parte le circostanze create dalla storia precedente, in base alle quali la lotta è l’unico strumento per realizzare cambiamenti decisivi -questo stesso processo di centralizzazione del dominio sugli operai comporterebbe, in ogni paese, violenti cambiamenti nei rapporti tra le classi, distruzioni di fortune ed eliminazione di tutta una serie di capitalisti minori. Ciò significa che, per realizzare questa centralizzazione economica dello sfruttamento mondiale destinato a rendere superflue le guerre, dovrebbero essere combattute non una, ma innumerevoli guerre, al fine di distruggere una moltitudine di speciali interessi antagonistici rispetto a questo processo di centralizzazione. Ognuna di queste guerre, però, creerebbe probabilmente delle condizioni che permetterebbero e/o imporrebbero alla classe operaia di distruggere il dominio di classe di volta in volta oppostole: essendo l’unica classe i cui interessi non sono antagonistici nei confronti di una reale e cosciente collaborazione mondiale, essa è anche l’unica capace di realizzare una vera economia mondiale per lo sviluppo delle forze produttive ora prigioniere dei rapporti capitalistici di produzione.

L’attuale guerra dimostra, al pari di tutta la passata storia capitalistica, l’incapacità del capitalismo nazionale e internazionale sia di soddisfare i reali bisogni della produzione mondiale, sia di controllarla nella sua stessa maniera capitalistica di salvaguardare se stesso. Perfino a livello nazionale, dove la concentrazione capitalistica ha raggiunto l’unità con lo stato attraverso metodi politici, si è rivelato impossibile eliminare le lotte all’interno della classe dirigente, ed è impensabile che esse possano venir mai eliminate (nella sostanza, e non nella loro forma fenomenica di apparire) senza l’eliminazione totale delle classi. È proprio l’esistenza di rapporti di classe che genera conflitti e lotte all’interno della classe dirigente; finché l’economia rimane incapace di soddisfare le relative richieste della grande massa della popolazione - ed è proprio in ciò che si manifesta l’esistenza dei rapporti di classe - essa non può soddisfare nemmeno le richieste della classe dirigente, anch’essa divisa in molte categorie di differente importanza economica e politica. Il controllo dei controllori rimane una necessità, e in tutti gli strati della società vengono operate delle distinzioni. Ogni cambiamento nella produttività del lavoro ed ogni rovescio subito dall’economia provocano il dislocamento di interi settori della classe dirigente rispetto ai centri di potere. La stessa lotta dello sfruttato per entrare a far parte della classe sfruttatrice porta ad una continua lotta all’interno di quest’ultima, lotta che trova i suoi argomenti nelle miserie o nelle aspirazioni degli sfruttati.

Che sia impossibile eliminare le lotte settoriali interne ad una classe dirigente nazionale, lo hanno dimostrato tragicamente le varie purghe effettuate in Russia e in Germania. E ciò che non è realizzabile in un paese dove esiste praticamente un’unificazione del controllo politico ed economico, tanto meno lo sarà per una ipotetica casta dominante a livello internazionale. Tutto ciò a prescindere dalla più importante questione che questa ipotesi solleva: se, cioè, un tale controllo centralizzato - che manterrebbe nondimeno in vita i vecchi rapporti di classe tra capitale e lavoro - renderebbe poi possibile un aumento della produttività ed un miglioramento del livello di vita generale. Né la Russia né la Germania ci hanno fin’ora mostrato degli esempi tali da indurre a dare una risposta affermativa a questa domanda, e noi pensiamo che la prova decisiva la si avrà quando si sarà sostituito a questo mondo reale di antagonistiche monadi capitalistiche, il profetico paradiso di un cartello mondiale privo di guerre.

Ma il cartello mondiale privo di guerre, nel quale vengono assegnate alle diverse “corporazioni” politico-economiche le quote di profitti mondiali mediante accordi stipulati sulla base delle esigenze del fascismo internazionale, non diverrà mai una realtà. L’attuale guerra non porterà nemmeno all’unificazione dell’Europa, perché ciò presupporrebbe la sconfitta completa dell’uno o dell’altro schieramento capitalistico. Comunque, la lotta non è di livello europeo, bensì mondiale. Un’Europa unificata sotto il fascismo - sia che fosse dominata dal blocco imperialistico tedesco-russo, sia che fosse invece sotto l’egemonia dell’imperialismo anglo-francese - segnerebbe il passaggio della guerra da lotta fra blocchi di potenze a guerra fra continenti. Di ciò sono perfettamente coscienti gli imperialisti americani e, richiedendo un incremento del bilancio della marina, il Segretario Charles Edison affermava recentemente:

Ciò che noi abbiamo richiesto non è sufficiente a difendere le nostre acque territoriali, la dottrina di Monroe, i nostri possedimenti e le nostre vie commerciali contro una coalizione di Giappone, Russia, Germania e Italia. Noi dobbiamo prepararci anche all’eventualità di una sconfitta alleata e misurare quindi le forze delle potenze che possono coalizzarsi contro l’America. Se la nostra marina è più debole di quella che potenziali nemici possono mettere assieme, allora la nostra marina è insufficiente. Ed è insufficiente. (15)

L’imperialismo americano dovrebbe armarsi ugualmente anche contro un’Europa dominata dagli inglesi.

Il capitale deve espandersi o disintegrarsi. In entrambi i casi, devono venire a conflitto interessi antagonistici di nazioni, blocchi di nazioni o continenti. All’interno di questo stesso processo, le nazioni oppresse colgono l’occasione o si trovano di fronte alla necessità di rivoltarsi contro gli oppressori; ci sono stati nazionali che scompaiono per lasciare il posto a costellazioni nazionali completamente nuove, in una scena politica mondiale che si fa ogni giorno più caotica. Ma il disordine è la base del capitalismo, e la stessa richiesta di ordine non fa altro che provocare rotture ancora più violente. Lottando per l’“indipendenza” nazionale, i paesi arretrati non solo accrescono il disordine generale, ma mettono anche in luce l’irrealizzabilità dei loro obbiettivi. Infatti la loro lotta per un territorio nazionale indipendente contribuisce a distruggere altre nazioni, analogamente a quanto avviene nella lotta per la conservazione della concorrenza in un mondo di monopoli che la tenacia della prima non fa altro che rafforzare ulteriormente. I giorni dell’economia capitalistica di mercato sono inesorabilmente contati, così come quelli del nazionalismo capitalistico. Eppure, la vittoria dei monopoli non potrà mai essere completa e la questione nazionale non scomparirà mai, a meno che non venga creato un organo socio-economico per la regolamentazione cosciente dell’economia mondiale. Ma questa opera può essere portata a termine soltanto dal proletariato mondiale quando quest’ultimo comprenderà appieno come i suoi interessi vitali siano identici a livello internazionale. E mentre gli interessi operai sono già oggettivamente unificati, gli interessi vitali della classe dirigente rimarranno sempre atomizzati e circoscritti ai confini delle singole nazioni, per simili che siano quest’ultime.

Appoggiare oggi le lotte per la liberazione nazionale, significa favorire l’espansione del fascismo e contribuire a prolungare la guerra, perché soltanto centralizzandosi ed accrescendo la loro industrializzazione e la loro aggressività nei confronti dei paesi sviluppati, queste nazioni si metterebbero in condizione di “liberarsi” da un blocco capitalistico, solo - fra l’altro - per ricadere poi sotto l’egemonia di un altro, e senza potersi mai realmente emancipare dalla miseria capitalistica che governa il mondo. Dal momento che tutti i vantaggi sono ancora dalla parte delle nazioni imperialiste, la lotta per la liberazione nazionale concerne soltanto la scelta tra i vari gruppi imperialisti e lascia inalterate le condizioni di miseria delle masse popolari, favorendo soltanto le nuove classi dirigenti nazionali, come dimostra l’esempio dell’India, giunta all’“indipendenza nazionale” grazie all’aiuto diretto dell’imperialismo tedesco.

Benché le nazioni oppresse non abbiano più alcuna possibilità di emanciparsi, neanche gli oppressori hanno più probabilità di mantenere il loro dominio: se le nazioni “nullatenenti” hanno poche speranze di superare le loro attuali difficoltà strappando alle nazioni ricche i loro possedimenti, la posizione più favorevole in cui si trovano le nazioni che “possiedono” non le preserva affatto dalla depressione economica e dal declino, perché tutte le risorse riusciranno soltanto a posticipare ma non a impedire la loro caduta.

Lo spettacolo offerto dalle manovre del capitale francese ed inglese a proposito della questione russa è abbastanza pietoso, così come ridicola è la loro indecisione circa l’inserimento o meno della Russia nel novero dei nemici. Non solo la Germania, o la Germania e la Russia, bensì il mondo intero è il nemico dell’Inghilterra; e lo stesso vale, viceversa, per la Germania. Di fatto,

la Russia e non la Germania è la storica antagonista dell’Inghilterra in Asia, poiché è la Russia e non la Germania che tiene strategicamente in scacco la linea Cairo-Calcutta, vitale per l’impero inglese. I tedeschi vedono, al di là dei campi di grano dell’Ucraina e dei pozzi di petrolio del Caucaso, la strada verso l’India. Avendo già ottenuto da parte della Russia la garanzia dell’aiuto economico, vedono anche la prospettiva di ottenere la pressione russa sulle vaste distese dell’impero britannico. (16)

Se per questo motivo gli inglesi tentano di rompere l’alleanza russo-tedesca, non ne ricaveranno alcun frutto. La strategia dell’“equilibrio di potere” ha ormai esaurito le sue possibilità, dopo essere stata ritenuta per quasi un secolo un’arma politica praticamente infallibile. Ma una cosa va in ogni caso chiarita: non fu la politica inglese ad impedire, con le sue armi diplomatiche, che sorgesse una potenza capace di minacciare la supremazia britannica; a salvare l’impero fu piuttosto la relativa prosperità a livello mondiale che, finché durò, fece credere al valore universale di questa politica. Infatti, pur essendo stata apparentemente l’artefice principale della sconfitta della Germania nell’ultima guerra, l’Inghilterra ha poi contribuito, sempre sulla base della stessa politica, a far risorgere la minaccia tedesca che, inizialmente diretta contro la Francia, si è poi ritorta contro di essa. Se, dunque, il successo della politica dell’“equilibrio di potere” è stato fin’ora garantito dall’alta congiuntura, adesso la crisi generale del capitalismo esclude un suo ulteriore funzionamento: non è questa o quella politica, bensì la strutturale pressione delle forze economiche che muove il mondo nel presente e nel futuro.

Che cosa succederà se l’Inghilterra riesce a rompere la nuova alleanza dei paesi fascisti, concedendo alla Russia ciò che rifiuta alla Germania o dando all’Italia ciò che nega al Giappone o al Giappone ciò che non vuole conferire alla Russia o alla Germania ciò che non concede alla Russia? In questo caso, assisteremo alla costituzione di nuove alleanze e di nuove coalizioni, ma la guerra continuerà, perché la fame è generale. Che cosa accadrà se in conseguenza di tali mosse l’uno o l’altro paese - Germania o Russia non importa - verrà totalmente sconfitto e smembrato dai vincitori?

Sono finiti i tempi -- lamenta l’“Economist” (17) -- in cui ci si aspettava dal nemico sconfitto che venisse incontro alle spese del vincitore indennizzandolo anche per le sofferenze e le perdite che la guerra comporta [...] i tempi in cui era dato per scontato che il paese sconfitto imboccasse la strada dei principi sportivi che erano una caratteristica minore delle guerre del lontano passato.

Che cosa accadrà se nel corso della guerra vengono eliminati in tutto il mondo gli interessi tedeschi? Questa guerra è, non solo improduttiva dal punto di vista del profitto (18), ma anche del tutto insensata per ciò che concerne gli interessi capitalistici nazionali, dal momento che offre l’opportunità ai paesi non belligeranti di trarre vantaggio dalla situazione di guerra in cui si trovano gli altri, e ai paesi arretrati - nei quali si combatte realmente la guerra - di alzare la testa per tentare di assicurarsi il diritto esclusivo allo sfruttamento del loro “popolo”. In Sud America, per esempio, il Messico ed il Brasile hanno preso a pretesto rispettivamente il petrolio e l’acciaio per sviluppare sistemi economici parzialmente controllati dallo stato sul tipo di quelli che dominano adesso in Europa. Il capitale privato non sarà più in grado di controllare quei paesi né avrà più la voglia di correre gli inevitabili rischi. La condizione per la permanenza di un tipo di sfruttamento imperialistico classico in questi paesi è la fascistizzazione degli Stati Uniti.

La guerra economica peggiora ulteriormente lo stato del già malamente disorganizzato commercio mondiale e minaccia gli affari esteri di tutte le nazioni neutrali, comprese quelle americane. Gli inglesi, ad esempio, hanno fatto pressione sull’Argentina perché acquistasse prodotti inglesi preferendoli a quelli statunitensi. I tedeschi hanno incrementato le loro esportazioni verso tutti i mercati loro accessibili, grazie ad una politica dei prezzi di tipo prevalentemente bellico, e ad una produttività che, non solo permette loro di mantenere costantemente in campo un esercito, ma è anche la maggiore mai raggiunta dall’apparato produttivo tedesco. I paesi non belligeranti - ad onta delle possibilità che questa guerra dovrebbe loro teoricamente offrire - non ricavano, invece, dal conflitto attuale che una crescente disoccupazione ed una sempre più preoccupante stagnazione economica, poiché il corso storico non può essere fatto recedere da interessi arretrati destinati ad essere a loro volta sconfitti.

Ridicola ci sembra anche la proposta fatta dal sig. Welles al governo francese di inserire fra gli obiettivi immediati della guerra anche l’abolizione delle barriere commerciali recentemente istituite. L’argomentazione di Welles si articolava in tre punti (19):

# Alla base della pace politica ed economica ci devono essere sani rapporti commerciali.
# La prosperità del commercio internazionale è incompatibile con la prassi degli accordi bilaterali esclusivi.
# La ricostruzione post-bellica del commercio mondiale presuppone la serenità e la mancanza di risentimenti fra le varie nazioni.

Ed è solo per mantenersi in linea con la natura di queste proposte che il Presidente Roosevelt vi aggiunse il suo augurio, esprimendo la ferma convinzione della necessità di

arrivare all’eliminazione del predominio degli eserciti sulla libera circolazione internazionale delle idee e del culto dell’Onnipotente.

L’obiettivo del ritorno al mercato libero si adatta perfettamente all’ipocrita affermazione secondo la quale questa guerra non concernerebbe altro che la sconfitta di Hitler e il ristabilimento dei confini violati dalla Germania. Ma a ciò non si arriverà mai, neanche nel caso che - per una volta nella storia del parlamentarismo - le affermazioni di questo statista significassero davvero ciò che sembrano dire. La crescente fascistizzazione operata dalla guerra elimina ogni rispetto nei confronti dei confini nazionali, poiché la politica estera fascista implica precisamente l’eliminazione di confini in grado di ostacolare la necessaria espansione. Per mantenere la sicurezza e la proficuità economica degli attuali blocchi di potenze, devono venir erette barriere commerciali basate sulle rispettive esigenze economiche. Se i piani fascisti si realizzeranno, alla programmazione verrà contrapposta una contro-programmazione ed alcuni dei metodi di conduzione della presente guerra economica diverranno una prassi permanente.

Non stiamo ad elencare tutti gli argomenti che possono essere addotti per illustrare l’impossibilità pratica di realizzare un cartello fascista mondiale. L’attuale guerra non porterà ad una riorganizzazione capitalistica internazionale capace di permettere una nuova avanzata del capitalismo. Questa guerra, così come la depressione che dura ormai dal 1929, non è che un altro aspetto del processo di declino della forma sociale capitalistica.

Alla fine della guerra

La “rivoluzione mondiale” fascista deve allora venire intesa come la riorganizzazione di tutti i paesi sulla base di una economia fascista, accompagnata da violenti tentativi di rimescolare le posizioni nel campo del potere economico a favore delle nazioni fasciste dominanti e dei loro satelliti. La presente guerra non porterà ad un altro periodo di pace, poiché essa è una guerra permanente così come - dal 1929 - è permanente la crisi economica. Alla fine di essa non ci saranno né vincitori né vinti, dal momento che, perché ci sia una sconfitta o una vittoria, occorre che la fine della guerra sia già implicita fin dal suo inizio. Certo è che, quali che siano le nazioni impegnate nella guerra e i riallineamenti cui essa possa dare origine, questa questione, per interessante che sia, non riguarda minimamente né noi né la classe operaia nel suo complesso. Ma neanche per la classe dirigente, ormai, la vittoria o la sconfitta sono più di importanza fondamentale, benché essa non abbia altra scelta se non quella di adoperarsi con tutte le sue forze per vincere. Essa non otterrà mai la pace che desidera; tutt’al più potrà arrivare ad una tregua temporanea sulla base della sconfitta o dell’Inghilterra e della Francia, o della Germania. Ma in ognuno dei due casi, la posizione dei paesi costretti alla tregua diverrà insostenibile e il loro crollo evitabile solo al prezzo di una rinnovata corsa agli armamenti e della preparazione alla ripresa della guerra. La tregua implicherebbe, infatti, un deterioramento della situazione interna tale da farla eventualmente culminare in convulsioni sociali, cui la classe dirigente non può non preferire le incertezze della guerra. Eppure, anche se la guerra appare come l’unica via d’uscita dal dilemma capitalistico, il sistema non sarà capace di portare la guerra alle sue estreme conseguenze, come dovrebbe fare per risolvere davvero le sue contraddizioni. A questo punto occorre richiamare ancora una volta alla memoria la legge dell’accumulazione capitalistica: quando il capitale accumulato ha assunto proporzioni gigantesche, non è più possibile reperire i profitti necessari ad incrementare questa massa mostruosa di capitale al saggio precedente, né tantomeno aumentare il saggio di crescita, come sarebbe necessario per evitare la crisi. In altre parole, i profitti realizzati, per ampi che possano essere, sono sempre insufficienti rispetto alle accresciute esigenze di una massa di capitale in continuo incremento; l’enorme esercito di disoccupati non sta ad indicare altro che una reale mancanza di forza-lavoro relativamente alla fame di profitto determinata da una progressiva espansione. Analogamente, la guerra che sarebbe necessaria alla riorganizzazione richiesta dal capitalismo per continuare ad esistere, può pretendere energie che il capitalismo non è più in grado di fornire. L’apparato bellico di cui ogni paese belligerante ha bisogno per schiacciare l’altro può essere al di là della loro portata. Proprio come le giacenze di capitale inattivo appaiono derivare dalla sovrabbondanza, mentre in realtà derivano dalla insufficienza del capitale esistente ai fini dell’espansione, anche gli eserciti e le apparecchiature belliche rimangono inattivi perché - nonostante appaiano giganteschi - sono insufficienti a garantire il successo di un’offensiva. Il capitale inattivo sta ad indicare la permanenza della depressione, e i soldati fermi sulle rive del Reno stanno ad indicare la permanenza della guerra. Se è inconcepibile, da un punto di vista capitalistico, mettere in circolazione un capitale incapace di realizzare profitti, altrettanto inconcepibile è mettere in marcia eserciti incapaci di spostare i rapporti di forza. Tuttavia, il capitale ha più peso delle vite umane, e i capitalisti rischierebbero certamente i loro soldati piuttosto che il loro capitale. Ma, anche se l’offensiva verrà infine sferrata, per la disperazione causata dalle crescenti pressioni economiche e sociali, essa dovrà di necessità avere luogo nel quadro di una guerra limitata, incapace di conseguire il suo obiettivo precipuo: la totale sconfitta del nemico.

Le spese per l’equipaggiamento ed il mantenimento di una divisione in campo si sono più che duplicate dall’ultima guerra. Il solo costo di una unità di equipaggiamento ammonta per l’aereonautica inglese a circa 2.000 sterline all’anno: il progresso tecnologico dell’apparato bellico ha enormemente accresciuto il costo delle operazioni militari, e si può affermare che per assicurare l’efficienza di un singolo soldato sono necessari, nell’attuale situazione, ben 10 operai.

Il mantenimento di enormi eserciti in costante stato di preallarme, l’incremento continuo della produzione per fini puramente distruttivi, il bisogno di portare avanti la guerra e la necessità di provvedere al sostentamento degli operai che lavorano ad un ritmo spaventosamente alto, tutto ciò divora il plusvalore ad una velocità senza precedenti e porta ad una crescente pauperizzazione di tutti i paesi, senza che nessuna delle potenze belligeranti abbia la possibilità di bloccare questo processo per mezzo di un improvviso sforzo gigantesco. Per un tale sforzo non ci sono energie sufficienti. Sorge così una situazione che richiede la permanenza di una guerra derivante dalla permanenza della depressione: una crisi che non può essere superata se non dai soldati stessi, dai soldati che stanno al fronte e da quelli che stanno nelle fabbriche, ormai unificati dalla tragedia capitalistica.

Da Living Marxism. International Council Correspondence cit., n. 1, primavera 1940; ora in New Essays cit., vol. V, pp. 1-27

(1) Cfr. Adolf Loewe, The Price of Liberty, London 1937, p. 38.

(2) In proposito, ci sembra che la migliore esposizione riassuntiva del fascismo e delle sue origini sia quella fornita da Max Horkheimer nel suo articolo, The Jews and Europe, in “Zeitschrift für Sozialforschung” VIII, n. 1-2, Paris 1939.

(3) Cfr. L. Miksch, Wirtschaftsgrossmächte und Nebenländer, in “Die Wirtschaf tskurve” II, Frankfurt am Main 1939.

(4) Cfr. A New Deal for Europe, del 17 febbraio 1940.

(5) Cfr. Discorso alla Camera dei deputati del 13 dicembre 1929.

(6) Cfr. A. Loewe, The Price of Liberty cit., p. 38.

(7) Ivi, p. 41.

(8) Cfr. numero del 9 dicembre 1939, p. 364.

(9) London, 3 febbraio 1940, p. 191.

(10) Cfr. “The Economist”, numero del 16 dicembre 1939.

(11) Cfr. “The London Times”, 14, 15 e 28 novembre 1939.

(12) Cfr. “The Economist”, 2 dicembre 1939, p. 320.

(13) Cfr. “Fortune”, gennaio 1940, p. 71.

(14) Cfr. l’art. The Economie Front, 9 dicembre 1939, p. 363.

(15) Citato in “Time”, 22 gennaio 1940, p. 18.

(16) Cfr. “Barron’s Financial Weekly”, 12 febbraio 1940, p. 3.

(17) 2 dicembre 1939, p. 320.

(18) L’“Economist” del 9 dicembre 1939, afferma (p. 365):

È ormai una necessità largamente riconosciuta l’impiego dell’arma della concorrenza dell’esportazione e dell’importazione contro la Germania nei mercati che sono ancora aperti per i tedeschi e per noi. Dobbiamo essere pronti a vendere in questi mercati a basso prezzo, se così facendo possiamo costringere anche la Germania ad abbassare i suoi prezzi; dobbiamo essere pronti a pagare prezzi esorbitanti per merci che non vogliamo se la Germania le vuole [...] Le industrie esportatrici non costituiscono un’alternativa alle industrie di munizioni; esse sono industrie di munizioni.

(19) Cfr. “The New York Times”, 10 marzo 1940.

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