L'operaio negli ingranaggi d'un grande complesso industriale

Le misure disciplinari e le dimissioni volontarie creano l'atmosfera della nave in pericolo. I sindacati gialli gridano contro l'allarmismo, dicendo che si tratta del solito allarmismo socialcomunista ad uso elettorale, e bevono le assicurazioni della direzione Ansaldo fino a raggiungere quello stato di ebbrezza che fa loro pronosticare per noi un sempre migliore avvenire. «Il sindacato di classe» alterna le cronometriche fermate ai soliti piagnistei sulla sorte dell'Ansaldo dilaniato dalle unghie dei monopoli. Si determina così quello strano fenomeno delle «convergenze parallele» che apre le porte al rullo compressore.

Per ora silenzio, la nuova vertenza non deve ancora risultare agli atti. Tanto è vero che la direzione, con insospettata sensibilità umanitaria, trasforma i licenziamenti per scarso rendimento in dimissioni volontarie: cioè offre ai licenziati la possibilità di dimettersi. È una prassi insolita, il cui vero scopo sfugge agli animi candidi. Gli operai colpiti sono invitati a consegnare la lettera di licenziamento alla Direzione. Con la data della stessa fa loro compilare una lettera di dimissioni i cui moduli sono già in possesso della C.I. Possono così beneficiare di un premio extra-liquidazione e la loro è una condanna col beneficio della non iscrizione: le loro carte n non risulteranno macchiate dallo scarso rendimento. Con un colpo di fortuna o, più concretamente, con delle buone raccomandazioni parrocchiali chissà che non trovino anche un nuovo lavoro.

Ma le dimissioni volontarie vere e proprie sono un capitolo a parte, possono avere la funzione di valvola alla compressione interna, una via d'uscita per i fortunati una fabbrica di sogni. Al solito vengono concordate dalle parti all'inizio di ogni vertenza per una prova di reciproca comprensione. Da noi, sono invece aperte di fatto da parecchio tempo senza preventiva contrattazione. L'operaio che vuole dimettersi per usufruire del premio extra, può interessare la C.I. al suo caso ma, al solito, il mediatore è un tipo più sicuro. È un ex operaio che avendo fatto carriera nella CISL, nelle ACLI e nell'Opera clerico-padronale «ONARMO» ha raggiunto tutte quelle virtù che fanno della sua persona un ente di assistenza. Egli ha un ufficio tutto per re, dove le pratiche di entrata e. uscita di una dispensa calibri-attrezzi servono appena a coprire la sua vera attività. E noi lo vediamo spesso contornato di postulanti che lo riveriscono e lo interessano ai proprio caso.

A questo modo, operai anziani che hanno pochi mesi alla scadenza della pensione, elementi che attraverso conoscenze, raccomandazioni e iniziative personali hanno trovato un'occupazione fuori abbandonano e alleggeriscono la fabbrica.

E man mano che la situazione si fa pesante, non sono pochi coloro che addirittura sognano l'occasione di poter levare il disturbo: «Se avessi un posticino fuori sottomano... Se tra premio e liquidazione potessi raggranellare più di mezzo milione...». E qualcuno, baciato dalla fortuna, o entrato nelle grazie di qualche raccomandatore di ferro, prende la via del magazzino «calibri-attrezzi», in cerca di quel tale - l'assistenza fatta persona - che lo faccia diventare quasi milionario col premio extra.

Qualche volta la fabbrica dei sogni sembra concretizzarsi davvero in una fabbrica extra Ansaldo, extra IRI. Allora la ricerca della soluzione personale, del «posticino», diventa un fenomeno collettivo. Un ex capo-disegnatore dello stabilimento incontra un operaio del nostro reparto e gli fa capire che, in qualità di direttore d'officina di una nuova fabbrica sorta in Val Polcevera, sarebbe disposto ad assumere operai del nostro reparto, da lui ritenuti particolarmente qualificati per il genere di produzione di cui adesso è responsabile.

La notizia si sparge immediatamente e ha così inizio il romanzetto dell'«Industriale». È una fabbrica specializzata nella produzione di fasce elastiche per pistoni. Sembra che sia stata impiantata dai tedeschi servendosi di un prestanome italiano dell'ambiente sportivo. Per il nostro caporeparto - un uomo nato per lavorare della Val Polcevera alta, che fa parte di quel ceto che è sempre ottimista in materia di rapporti di lavoro, quindi ammiratore della tecnica, dell'organizzazione e della disciplina dei tedeschi - per il nostro caporeparto, dicevamo, all'«Industriale» «stanno bene»: gli operai guadagnano 400 lire all'ora, non hanno di che lamentarsi e rivendicare.

Un fresatore che abita da quelle parti decide di fare una visita alla nuova fabbrica, e ne ritorna con qualche entusiasmo perché ha il vantaggio della modernità (nello spogliatoio ci sono persino i bidé, dice, mentre nel nostro non ci sono nemmeno le docce). Tuttavia devono piazzare ancora molte macchine; un fresatore lo vorrebbero soltanto per fare i piazzamenti, poiché faranno eseguire il lavoro meccanico alle donne; prestata la sua opera di fresatore, dovrebbe passare al tornio. Cercano tornitori che lavorino a due macchine, le quali sono state piazzate affiancate appositamente; appena l'operaio ha innestato l'automatico per la passata di tornitura, passa all'altra macchina ad eseguire un'altra operazione. L'ex tecnico dell'Ansaldo vuole instaurare una democrazia industriale tutta particolare: niente CI, niente sindacati, niente scioperi: «quando c'è qualche cosa che non va, venite da me che c'è sempre il modo di arrangiarsi» - e col suo fare dinamico, entusiasta, da ex sportivo, riesce a non irritare i suoi interlocutori.

Il nostro compagno fresatore fa la domanda di assunzione, altri tornitori lo imitano dopo aver visitato la fabbrica. In breve tempo altre domande piovono all'«Industriale» anche da parte di operai di altri reparti. Ci sarà posto per dieci, forse venti «operai buoni» (le piccole aziende sfruttano soprattutto donne, giovani apprendisti e manodopera non qualificata) e le domande saranno già un centinaio: la cernita scremerà gli operai «buoni» sotto tutti gli aspetti, quindi non solo professionali. Intanto la paga oraria non è più di 400 lire, come si diceva, ma supera appena le 300. Tuttavia la nuova fabbrica alimenta ancora dei sogni; due tornitori sono già assunti, sembrano avere prospettive sicure: «Come avrei potuto abbandonare le 150 mila lire che mi dava l'Ansaldo per venire a dirigere l'«Industriale»?...» ha assicurato l'ex capo disegnatore.

Quando si determina questo fenomeno collettivo di una soluzione ex novo al problema del posto di lavoro, è un segno che la linea sindacale della «difesa delle aziende IRI» e la tattica di lotta fin qui seguita, viene ormai considerata dagli operai soltanto un fucile puntato che non spara. È il segno di una delusione. E come fenomeno sembrerebbe accreditare la favola padronale sulla «mobilità della manodopera».

La mobilità della manodopera

Ma lo slogan padronale della mobilità funziona bene solo per determinate «elites» di cui abbiamo gli esempi. Funziona per il tecnico di cui si è detto che trova più conveniente lasciare l'Ansaldo, dove pur aveva garantite le sue 150 mila lire mensili, per diventare un padreterno nella nuova fabbrica. Funziona per quell'ingegnere che aveva l'aria dell'arrivato! perché dirigeva una sezione dello stabilimento e cantava glorie della tecnica dalle colonne dell'Ansaldino: anch'egli ha levato il disturbo lasciando stupiti i suoi colleghi con un contratto di assunzione presso una grande azienda dell'Italia centrale a 5 milioni annui di stipendio.

Questo tipo di mobilità, o premia pochi operai buoni che trovano il posticino «mangiaore» nelle piccole e medie officine dove la giornata di otto ore è sconosciuta, o è un cambiamento di professione che smentisce tutte le Panzane sulla disoccupazione, la più diffusa delle quali ne attribuisce la causa alla mancanza di qualificazione in chi chiede lavoro. Informatevi in comune quanti tornitori e fresatori dell'Ansaldo sono stati assunti negli anni scorsi come vigili urbani e ne avrete la prova. Altro che scuole di qualificazione!

Generalmente, noi facciamo le spese di un tipo di mobilità imposta dal padrone quando vuole appesantire il basto sulle nostre spalle. Ecco come funziona. Con la scusa che c'è poco lavoro, arriva in officina l'ordine di trasferire alcuni operai presso un'altra fabbrica del gruppo IRI. Il capo-officina, in base alla qualifica richiesta, si libera quasi sempre delle teste calde. La fabbrica prescelta è generalmente una di quelle ridimensionate, alleggerite di masse combattive e appesantite di lavorare e tacere.

Tempo fa, tre compagni del nostro reparto vennero trasferiti in una sezione dell'ex Ansaldo-Fossati ora assorbita dalla Fonderia Ansaldo. Immediatamente si trovarono proiettati in quel tipo di rapporti di lavoro che si vogliono generalizzare un po' in tutte le fabbriche. Si trovarono in mezzo a operai ormai ridotti a subire ogni sopruso perché si ritenevano fortunati di essere sopravvissuti al rullo compressore della liquidazione aziendale. Rientrare poi al reparto non fu facile: dei tre compagni, uno venne favorito dall'età già matura; un altro fece ricorso al certificato medico perché la polvere di quell'inferno dì sezione stampi gli aggravava un disturbo alla gola, ma quando ottenne il rientro, dopo un controllo del medico fiscale della ditta, venne punito con l'attesa-lavoro prolungata; il terzo compagno riuscì a rientrare soltanto quando il capo del reparto cui era stato assegnato si stufò di lui e decise di liberarsene.

Ora, altri tre compagni sono stati trasferiti. Destinazione la Nuova San Giorgio, un troncone della vecchia S. Giorgio protagonista di una lunga vertenza negli anni del primo ridimensionamento industriale del genovesato. La N.S.Giorgio ha ora sei anni: il tempo che è stato necessario ai 1160 operai che vi lavoravano per superare alcune fasi di decantazione e gettarsi nuovamente e disperatamente nella lotta. Hanno superato la fase della prostrazione che segue il passaggio del rullo compressore. Hanno superato la fase delle illusioni libertine, contraddistinte dalle speranze nell'aziendalismo e nella gestione C.I.S.L. in C.I. Si sono trovati a fare i conti con l'organizzazione-tempi in piena efficienza, cioè con i tempi-cottimo valutati al centesimo, con le percentuali livellate a un traguardo invalicabile, con le medie salariali di 50 mila lire mensili a pieno orario. E poi gli orologi per la timbratura dei cartellini di presenza installati nei reparti anziché in portineria, sicché la presenza nella fabbrica è nulla finché non è testimoniata dalla timbratura, e l'operaio può comodamente perdere la mezz'ora pur essendo già negli spogliatoi. E poi la ammonizione di scarso rendimento ai capi se non segnalano all'organizzazione-tempi quelle bolle che non hanno un tempo decente, fino a farli diventare gli aguzzini degli operai. E poi l'inutilizzazione della C.I. attraverso mille restrizioni; e la mancanza di mensa, e mille altre porcherie.

La N.S.Giorgio costruisce macchine tessili e per le calze. I dirigenti sindacali l'hanno aggregata al settore elettromeccanico in modo da farla partecipare automaticamente alla nuova moda sindacale delle rivendicazioni di settore. Gli operai aderiscono alla lotta indetta dai sindacati col sentimento della disperazione, per reagire a una situazione insostenibile. Pensano che non hanno più nulla da perdere e guai se pescano un compagno di lavoro a fare il crumiro.

In oneste condizioni si può capire quale significato abbia il trasferimento dei nostri compagni esteso a operai di altri reparti. Non solo costituisce un peggioramento alle loro condizioni, in particolare perché assegnati alle lavorazioni di serie i cui tempi-cottimo si misurano a frazioni di minuto, ma soprattutto dimostra la fragilità delle garanzie giuridiche, le cui espressioni contrattuali sono aleatorie e della più elastica interpretazione. Dimostra la assoluta potestà padronale che può usare la mobilità della manodopera anche come manovra di crumiraggio.

Tattica di divisione e di repressione

Infatti i nostri compagni sono stati messi nella condizione più balorda: o fare i crumiri e buscarsi le legnate degli operai locali, o aderire a uno sciopero che non li riguarda perché il loro trasferimento ha carattere temporaneo e la rivendicazione di settore li divide economicamente dagli operai della N.S.Giorgio. Comunque non possono opporsi al trasferimento pena la punizione dell'attesa lavoro permanente e la minaccia di licenziamento per scarso rendimento. Il segretario della C.I., ha preso in esame il caso, poi ha consigliato: «voi intanto andate, in seguito vedremo». Infatti il contratto di lavoro ha soltanto una voce che disquisisce sul trattamento degli operai in trasferta, ma non dice nulla circa la potestà padronale di trasferire la manodopera a suo piacimento.

Insomma, noi operai possiamo essere assegnati a un'azienda committente alla pari di una macchina e di un attrezzo qualsiasi. Il committente paga la nostra prestazione all'azienda che ha in proprietà la nostra forza-lavoro e noi possiamo trovarci soli contro due padroni intenzionati a imporci prestazioni di crumiraggio. Giuridicamente, nessuno potrebbe impedire all'Ansaldo di svolgere un'azione di lenocinio sindacale.

È stata impedita grazie alla compattezza degli operai della N.S.Giorgio, condivisa dai nostri compagni trasferiti che hanno colto l'occasione di un nuovo scioperò per recarsi dalla Direzione del Meccanico a protestare. Attraverso la C I hanno così ottenuto il rientro nello stabilimento per quei giorni in cui alla N.S.Giorgio si sciopera.

È una soluzione che attenua soltanto in parte il disagio dei nostri compagni, scongiurando l'azione di aperto crumiraggio. Ma altri trasferimenti si susseguono per soddisfare le richieste del committente. In quella fabbrica gli organici vennero sfoltiti dalla vertenza del 1954, quindi sono molto inferiori alla capacità degli impianti. Gli operai non hanno una macchina fissa in dotazione, ma devono alternare la loro attività a più macchine. I compagni trasferiti vanno a occupare le macchine libere e alcuni fanno due Direi a orario unico. In questo modo si cerca di limitare le conseguenze dello sciopero in una fabbrica che è al suo boom produttivo. Gli operai della N.S.Giorgio lo capiscono e fanno l'ostruzionismo ai nostri compagni che sono costretti a lavorare privi di attrezzatura e completamente spaesati. La loro situazione è penosa: alcuni devono lavorare al tornio, rispettando quote che hanno tolleranze al centesimo di millimetro, sprovvisti di quel corredo di utensili che ogni operaio si forma in anni di attività, e senza l'aiuto degli operai locali che si ritengono danneggiati dalla loro presenza. «Altro che lotte e rivendicazioni separate - commentava uno di questi compagni - siamo tutti sulla stessa barca, ma ci tengono giù nelle tanche, chiusi in compartimenti stagni, così affoghiamo tutti». E alle sue parole fa eco il ricatto del direttore della N.S.Giorgio: «Piuttosto che cedere un soldo - ha ammonito gli operai in lotta - licenzio tutti e chiudo la fabbrica». In barba all'idillio liberino dell'azienda-famiglia.

Sarà così anche da noi, fra qualche mese? È l'interrogativo che ci poniamo ascoltando quanto ci raccontano i compagni tornati in reparto per qualche giorno perché alla N.S.Giorgio si sciopera. Eppure anche all'Ansaldo non si scherza. E in particolare al Meccanico dove tutti gli esperimenti sui modo migliore di sfruttare e dominare la manodopera sono stati tentati. Solo che da noi l'ennesima crisi - con la mancanza di lavoro e le ore di attesa - ha spezzato il crescendo dei ritmi, ha scombussolato i piani e le forme cibi. «lavorare e tacere».

Ma se il rullo compressore del terzo ridimensionamento passa sugli organici e la produzione viene concentrata su poche «attività economiche», allora la nostra sorte è quella che ci viene dai compagni trasferiti.

La nostra sorte! Ecco il punto che, ovviamente, dovrebbe interessare maggiormente in ogni vertenza aziendale. Ma gli uomini del tempo lungo non la pensano così, e ci dicono che la nostra preoccupazione è quella dell'albero che nasconde la foresta. Da quando, partiti e sindacati, per rivendicare il ruolo dei lavoratori nello Stato e nell'organizzazione sociale capitalista, per la partecipazione alle decisioni economiche espresse dai rapporti di produzione capitalistici, hanno preso a cuore le sorti dell'economia nazionale e delle aziende IRI in particolare, la nostra sorte è sempre stata subordinata alle ragioni, agli interessi superiori, alla soluzione di quei problemi di fondo, che sembrano accreditare le illusioni riformiste sulla possibilità di modificare il sistema capitalista.

I problemi di fondo la rivendicazione del ruolo dei lavoratori nello Stato, sono stati gli argomenti sostenuti dai dirigenti della CGIL nell'attribuire un significato agli avvenimenti di luglio. Noi sosteniamo il contrario, non perché ci si preoccupi ristrettamente della nostra sorte di fabbrica senza avere presente il problema politico generale. Ma perché la nostra condizione di fabbrica esprime un rapporto generale che non tollera i sofismi della burocrazia politica e sindacale. La prova di luglio è che quando un elemento emotivo interviene incidentalmente a scaricare sulla piazza la nostra collera a lungo compressa dal Quel rapporto, ecco che riacquistiamo improvvisamente il senso Cella classe (e la forza della classe) nell'unica prospettiva valida che è quella dell'attacco frontale al sistema e allo stato capitalista. Ci siamo sentiti fregati, mentre il capitalismo trova nel ritorno di Scelba una garanzia per le sue istituzioni.

La nostra sorte

La condizione operaia non trova l'equivalente aziendale di quella distinzione capziosa tra IRI e monopolio, tra privato e statale, tanto cara ai dirigenti sindacali, ma che è soltanto una distinzione d'ordine giuridico, relativa ai rapporti di proprietà. Se avete presente la condizione operaia alla Renault descritte, dal compagno Mothè nei suo «diario» (e anche la Renault è un'azienda a controllo statale; solo che in Francia la tesi sulle «aziende pilota» è sconosciuta a quel movimento operaio), se volete fare un confronto tra la condizione Renault e quella che noi viviamo all'Ansaldo, avete gli elementi sufficienti per giudicare la uniformità di rapporti.

Ma vi sono anche le leggi dell'economia capitalista che non tollerano i sofismi e travolgono inesorabilmente gli slogans e le formule propagandistiche.

A Sampierdarena era stato costituito un Comitato cittadino per la difesa della Raffineria Eridania e dell'Ansaldo-Meccanico. Questo Comitato - costituito dai partiti d'opposizione, dalla CGIL e associazioni varie - era presieduto da uno notabile socialdemocratico quale prova dello , spirito unitario che animava il consesso. La manifestazione più importante organizzata dal Comitato è stato un comizio in piazza, indetto in occasione di uno scioperetto di un'ora al Meccanico. Di quel comizio, tra il pressapochismo che contraddistingue la «popolarizzazione» ,del problema IRI e controllo dei monopoli, notammo l'impegno del notabile socialdemocratico a rifarsi una verginità politica in vista della consultazione elettorale. Infatti la sua preoccupazione maggiore era quella di rigettare l'accusa democristiana di «utile idiota», sostenendo che il giuoco dei comunisti lo stavano facendo proprio i democristiani astenendosi dalle manifestazioni in difesa dell'economia cittadina.

L'opera di «popolarizzazione» della situazione delle due fabbriche venne portata avanti in base allo schema noto da ormai dieci anni. Il Comitato fece ancora delle riunioni e dei volantini, mentre la situazione peggiorava all'Eridania e al Meccanico. Ma l'Eridania, la cui vertenza, giunta all'invio delle lettere di licenziamento, aveva ormai una scadenza precisa, non venne salvata: i sindacati si sono accordati sul premio extra-liquidazione e sui corsi di riqualificazione per i licenziamenti.

Ora poniamo un interrogativo: Si poteva - stando nell'ambito dei rapporti di produzione capitalistici, accettandoli e non potendone contrastare le forme di sviluppo - si poteva impedire il monopolio zuccheriero di concentrare le sue raffinerie nei luoghi di produzione della materia prima? Si poteva impedire la liquidazione di un «ramo secco», l'Eridania di Sampierdarena?

Conosciamo la risposta che rientra nello schema di controllo democratico dei monopoli: il monopolio limita la produzione dello zucchero per tenere alto il prezzo; una riduzione del prezzo di vendita e lo sviluppo dei consumi avrebbe permesso a questa fabbrica di vivere, eccetera. Ma allora bisognerebbe dimostrare che, senza l'attacco frontale della classe operaia e la imposizione del controllo operaio sulla produzione il capitalismo può produrre per i beni d'uso e non per il profitto. Ciò che è un po' difficile.

L'esempio della vertenza Eridania ci porta alla conclusione sulla questione Ansaldo.

Il complesso Ansaldo, all'epoca della prima vertenza, nel 1949, prima che fosse attuato il piano di ridimensionamento, era costituito dai seguenti stabilimenti: 1) «Meccanico»; 2) Cantiere Navale di Sestri; 3) Allestimento Navi di Sampierdarena; 4) Fonderia; 5) Carpenteria; 6) Cantiere Cerusa di Voltri; 7) Elettrotecnico; 8) Fossati; 9) Ferroviario; 10) Delta; 11) Utensileria; 12) S.A.U. (servizi Ausiliari). Inoltre: 12) Cantiere di Livorno e 13) Cantiere Muggiano di La Spezia.

Nel giro di dieci anni, tra escorporazioni ed incorporazioni, il complesso si è ridotto ai seguenti stabilimenti: 1) «Meccanico»; 2) Cantiere Navale di Sestri; 3) Fonderia; 4) C.M.I.; 5) S.A.U.; più il 6) Cantiere di Livorno e quello di La Spezia. Le escorporazioni avevano portato alta costituzione di alcune società autonome: Ansaldo-Fossati; Ansaldo-San Giorgio (dall'unione dell'Elettrotecnico con un troncone della San Giorgio) e Delta. Mentre lo Allestimento veniva incorporato nel Cantiere di Sestri e la Carpenteria nel Ferroviario (dal -quale è risultato l'attuale «C.M.I.») Cerusa veniva liquidato e l'utensileria diluita parte al Meccanico e parte al C.M.I.

Dal Meccanico vennero eliminate produzioni di motori veloci, di rubinetteria. di valvolame e buona parte dell'utensileria, per concentrare tutto sulla produzione di grandi motori, turbine, apparati propulsori medi e calderaria. Ma anche le produzioni di piccola meccanica, di parti staccate per il montaggio motori e turbine, vengono man mano eliminate per poi rifornirsi alle officine private specializzate.

Ci sono aziende specializzate che già producono le palette per turbine con un sistema nuovo di stampaggio che ha dimezzato i costi di produzione; mentre al Meccanico, il reparto «palette» che è di recente organizzazione ha un sistema costoso di attrezzatura per la fresatura dei pezzi. Non tarderà molto che i nostri ex compagni di lavoro, ora passati all'«Industriale», ritorneranno a produrre le stesse fasce elastiche che si facevano una volta in reparto. Ma le produrranno per conto del committente Ansaldo, lavorando a due macchine appositamente attrezzate a questo genere di lavoro, con una resa di tempo molto inferiore. Recentemente un compagno licenziato per motivi disciplinari ha cercato lavoro presso una piccola officina di Sampierdarena dove ha trovato che stavano producendo la stessa attrezzatura motori che facevano nel nostro reparto.

I dati sulla composizione del complesso Ansaldo, nel confronto tra il 1949 e il 1930, possono essere utili per indulgere a quella sorte di retorica sulle unghie dei monopoli, ma è ormai evidente che lo schema della difesa delle aziende IRI, dal 1949 a oggi, non ha potuto salvare niente. Quindi è meglio son perdere di vista il problema generale del proletariato industriale, per una visione soggettiva del problema aziendale e settoriale IRI.

Il Comitato cittadino ci aveva portati al comizio di protesta, a lamentare la sorte del Meccanico che i muore ) con grave danno per l'economia cittadina. Per contrasto, mentre gironzoliamo nei reparti in attesa lavoro prevedendo, da vari sintomi, l'eliminazione della nostra sezione di piccola meccanica, notiamo intanto l'arrivo di nuove macchine nei reparti di media e grande meccanica. Poche macchine d'accordo, ma grandiose, che richiedono certamente forti investimenti, una delle quali si dice abbia impegnato una spesa di circa 50 milioni soltanto per i basamenti. Macchine complesse che riassumono le caratteristiche di varie macchine di tipo universale: macchine che da sole eliminano il lavoro di decine di operai.

Questa apparente contraddizione tra la crisi di un intero settore di produzione e l'investimento in nuovi impianti (l'ampliamento della sezione montaggio turbine e in corso da alcuni anni) rispecchia tutta una tendenza dello sviluppo economico capitalistico in Italia e nel mondo. Da una parte quel tipo di investimenti nella grande azienda che gli economisti borghesi chiamano «intensivi», cioè la costruzione di grandi impianti che eliminano l'attività di interi reparti e di centinaia di operai; dall'altra, gli investimenti cosidetti «estensivi», rappresentati dal potenziamento e dalla nascita di piccole e medie aziende specializzate che ruffiano, come tanti satelliti, intorno alla grande azienda. È cioè una divisione del lavoro, nell'ambito dell'economia capitalista monopolistica, che formalmente conserva il mito della «libera iniziativa», mentre conferma in pieno la legge della concentrazione capitalistica.

Ecco perché non riteniamo pertinente - in questa prospettiva - domandarci se il «Meccanico» è condannato a morire o ha possibilità di prosperare. Ci rifiutiamo di porre il nostro problema nei termini di allarmismo o di fiducia circa la sorte dell'azienda, anche se sappiamo che le unghie dei monopoli ci sono, e come, anche se sappiamo che il Meccanico n, produce quasi totalmente su licenza FIAT.

Concentrazione del capitale

Nell'attuale fase del capitalismo - caratterizzata da una forte concentrazione del capitale, che si sviluppa anche sotto forma di capitalismo di Stato - sarebbe abbastanza ingenuo porre la questione della sopravvivenza di una azienda facendo credito alle ragioni della concorrenza - fenomeno premonopolistico. Il capitale non è qualcosa che si possa personalizzare in Agnelli e Valletta, o passare al filtro magico del mito IRI-aziende di stato per metterlo a servizio della collettività contro i monopoli. Tra IRI e monopoli c'è un rapporto d'integrazione, non una possibilità di concorrenza. Del resto prendete quanto scrive Baldacci sul conto di Mattei; spersonalizzate la polemica, purgatela dell'ingenuità di credere che Mattei sia una specie di deus ex machina della favola: considerate il fatto significativo che, dagli investimenti nel solo settore degli idrocarburi, la dinamica del capitale ha portato PENI a investire in tutti i settori, compreso quello di pura speculazione, e avrete la spiegazione del fenomeno Mattei - manager del capitalismo di stato e ministro clandestino del governo D.C. - che sugli accordi di Mosca mette la firma anche per Valletta.

Bisogna anche dire che il nostro problema, ristretto nell'ambito aziendale, magari rispondendo a quest'esigenza elementare che tante volte ci ha fatto scrivere sui muri «vogliamo lavoro», ci getta in un ginepraio di contraddizioni. Ne segnaleremo alcune.

Circa un anno fa, alle prime avvisaglie della crisi, avvenne un incontro tra direzione-Ansaldo e le Commissioni interne. La direzione disse ai nostri rappresentanti che si adoperassero - attraverso la pressione di lavoratori - per ottenere dal governo il finanziamento di dieci miliardi per il rammoderna-mento del Cantiere. Per ottenere quel finanziamento facemmo anche una fermata di sciopero, probabilmente col consenso della direzione, la quale adesso sostiene che, a lavori ultimati, al Cantiere ci saranno 500 operai esuberanti.

Poi c'è la questione della acquisizione delle commesse di lavoro che è un po' la storia della coperta stretta che tutti tirano dalla propria parte. Il Cantiere di Sestri, ad esempio, è sempre in concorrenza con i Cantieri dell'Adriatico - anch'essi IRI - e spesso è soccombente. Per la fornitura di motori «Diesel» all'URSS, Mattei ha firmato per la FIAT - quindi a danno del Meccanico - ma anche per i Cantieri dell'Adriatico. Altro esempio, la concorrenza addirittura all'interno del complesso, come quella tra il Meccanico, primo produttore di turbine, e il C.M.I. che si è messo a costruirle proprio adesso.

Può anche succedere che la FIAT, umanitariamente, ritiri le unghie e ci venga incontro per alleviare la nostra crisi. Citiamo questo particolare per rilevare un'altra contraddizione. Alla notizia che la FIAT ci darà lavoro i capi-reparto si mettono all'opera per persuaderci che bisognerà lavorare di più. Questi signori rispettosi hanno una posizione tutta particolare, forse derivata dal fatto che guadagnano due-tre volte più di noi: anche se dirigono un reparto che una decisione direzionale orti far sparire da un momento all'altro, hanno sempre l'aria dell'elemento indispensabile dalla cui opera dipendono le sorti dell'Ansaldo. Cosi ci dicono che l'acquisizione del lavoro FIAT è condizionata al rispetto del tempo-cottimo come verrà commissionato alle macchine; ci dicono che i tempi FIAT saranno molto stretti, per cui bisognerà lavorare otto ore su otto, rispettando scrupolosamente l'orario- e accontentandosi di stare nel tempo-bolla quando sarà impossibile risparmiare i minuti del coefficiente-premio. Il nostro capo-officina ha fatto onesto ragionamento della necessità di lavorare otto ore su otto per la FIAT proprio all'operaio più timido, più giovane, ancora qualificato categoria «D» con 151 di paga-base il quale, quando lavora deve stare alla pari con tutti gli altri a paga più alta.

In seguito abbiamo saputo che nel prezzo di esecuzione del lavoro della FIAT commissionato (poca roba, per la verità) si è cercato di mettere in conto anche le spese generali che da noi sono molto superiori. Infatti non solo la attrezzatura del Meccanico non è nemmeno paragonabile a quella della FIAT, ma il rapporto impiegati-operai al Meccanico è da uno a tre (mille impiegati su tremila operai) mentre alla FIAT si dice sia soltanto di uno a otto (mille impiegati su ottomila operai).

Insomma, se ci riducono all'attesa-lavoro, siamo solo noi operai a pagare le conseguenze della crisi - con la decurtazione salariale. I tecnici e gli impiegati in genere hanno sempre garantito il loro stipendio che è di 50-100 mila lire superiore al nostro salario. Crisi o non crisi, il parco macchine - cioè le autovetture dei signori impiegati - progredisce continuamente. Se invece, per evitare che interi reparti si fermino, viene chiesto un po' di ossigeno alla FIAT o alla Giustina (adesso stiamo facendo qualche pezzo per questa fabbrica di macchine utensili) irrimediabilmente grava sulle nostre spalle l'eccessivo peso delle spese generali. Spese che alla fine fanno mancare anche quel poco ossigeno.

Si capisce che in questo groviglio di contraddizioni è poco entusiasmante andare per le strade a gridare «vogliamo lavoro». Si capisce per lo meno le ragioni della nostra indifferenza circa la sorte dell'Ansaldo e dell'economia cittadina, quando si fa astrazione dalla nostra condizione operaia che è riscattabile soltanto con una rottura aperta nei confronti del sistema capitalista. La soluzione del nostro problema, o è personalissima e illusoria - quella della ricerca del «posticino fuori» - o è possibile soltanto passando da quella porta che abbiamo tentato di aprire il 30 giugno: cioè ritrovando la prospettiva unitaria della classe operaia con lotta e rivendicazioni generali, fuori da tutte le concezioni aziendalistiche. Abbiamo voluto descrivervi la condizione operaia all'Ansaldo, al di fuori di ogni schema conformista, perché sia chiaro a tutti che non ci troviamo di fronte a un problema Ansaldo, a un problema IRI, ma a un problema generale della classe operaia, del proletariato industriale, senza distinzioni aziendali e di settore. Se l'Ansaldo verrà ulteriormente ridimensionato (e gli attuali inviti della direzione a emigrare in Germania e l'interessamento dei capisezione per farci assumere dalla Scarpa e Mangano di Savona, un'altra azienda che aveva dimezzato gli organici alcuni anni fa, prelude proprio a questo), una aliquota di noi rimarrà nell'azienda a subire quel trattamento di favore che già conoscono i compagni della Nuova San Giorgio, mentre un'altra parte verrà polverizzata nelle piccole officine e nelle attività terziarie. Magari ritornerà il lavoro, e all'Ansaldo si faranno ancora gli straordinari, e nelle piccole officine non conosceremo orari di lavoro basati sulla conquista delle «otto ore». Ci saranno fasi di prostrazione e di ripresa di lotta. Finché, attraverso rivendicazioni generali che potrebbero incominciare dalla lotta contro i salari a rendimento e per la riduzione generale delle ore di lavoro, non ci incammineremo sulla strada della rottura contro il «sistema».

Lorenzo Parodi

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.