I "Novatori" all'arrembaggio con una nuova teoria del valore e il malcapitato sig. Atlas

Note economiche

Desideriamo parlare del prurito veramente “giacobino”, piccolo borghese o meglio diremmo del puritanesimo di certi tipi spassosi che si illudono di conoscere a fondo l'economia marxista e soprattutto i problemi che ineriscono al periodo di trasformazione e alle fasi del comunismo e che questi problemi trattano con una disinvoltura veramente sorprendente in chi dovrebbe rimanere fedele a ben altra meritata “fama”. Per i quali il “valore” equivarrebbe a un “vade retro Satana”.

Purtroppo per loro esiste qualcosa detta dialettica, qualcosa che vede l'opposto come una forza da inverare tramite la negazione della negazione, è esistito un Hegel per il quale “il diavolo non è brutto come sembra”, per il quale il nocciolo sta nel lavoro del negativo e nella potenza della mediazione.

E allora già sul terreno generale teorico è scarsamente credibile che il loro piagnisteo moralistico possa avere un serio fondamento. La colpa di Stalin sarebbe di “aver mantenuta in piedi la legge del valore”. Ma “Il Capitale” è a portata di tutti, qualunque compagno può andare a vedere e concludere, che il “valore” in Marx riveste molti aspetti e che alcuni di questi permangono nella fase inferiore e scompaiono solo nella fase superiore. La situazione del valore per Marx non solo nel periodo di trasformazione ma anche nella fase inferiore è ancora dialettica (A = non A) nel senso che esiste, per riassumere una trattazione molto complessa, una lotta tra il bisogno e l'utilità sociale da una parte e la necessità di un valore dall'altra. Il sig. Stalin dunque ha le carte non in regola con il marxismo non perché ha mantenuto in piedi il valore, ma perché ha preteso che il valore fosse semplicemente “controllato” e “pianificato”, non concependo una lotta contro il valore sul terreno della mediazione dialettica. (Non dall'esterno come i su citati). Si ripete Stalin poi sulla questione finanziaria quando derideva i sostenitori dell'abolizione della moneta (1); egli appunto svirilizzava il momento opposto della dialettica, la spinta purtroppo allora solo di certe coscienze e molto poco delle cose verso un rivoluzionamento dell'economia russa su basi collettive .

Eccoli allora prendersela con il povero e malcapitato economista russo sig. Atlas il quale propone un “costo di produzione”, propone dunque un “valore”. Mentre il malcapitato potrebbe citando Marx schermirsi facilmente, ma non lo potrebbe se inchiodato sul motivo economico della sua nota formula, l'estorsione del profitto, oltre che naturalmente sul fatto che il valore socialista esiste senza “equivalente finanziario”, senza costo dunque. Questa formula è: r = ml./F. 100, dove r è la redditività, ml la massa del profitto, F i fondi fissi e circolanti e dove ml è dato da P - K, intendendo P come il prezzo delle merci e K il costo di produzione. Anche se è chiaro che la redditività è qui concepita, contrariamente a Strumilin per es., come originantesi da un risparmio, da una economia del capitale costante e non da un diretto sfruttamento della forza lavoro (salario, capitale variabile), ciò che offre l'occasione a importanti sospetti che questa formula esprima la necessità di un capitalismo evoluto di contrastare la caduta del saggio del profitto (2), in realtà chiunque vede che il macchinario, ecc., il capitale costante non è altro che lavoro passato accumulato, e che la redditività sta in relazione direttamente proporzionale con la massa di profitto, la redditività è “il maggior profitto possibile”.

Ma non ne sono convinti i predetti per i quali il vizio della formula risiede non solo nel profitto ma nel valore, urtandosi in tal modo con Marx. Se dovessimo alla Bucharin e cioè con una formula semplice esprimere invece il periodo di trasformazione e la fase inferiore scriveremmo: c + v + m; c + v + (m - x); c + v; c + (v - x); (c - y) + (v - nx); come si vede scompare il capitale variabile e costante e prima il plusvalore (m); e con cosa sostituire ciò?: evidentemente con delle entità materiali di valore prive naturalmente di “equivalente” finanziario, prive cioè di costo (moneta, ecc.) conteggiate in lavoro umano, mentre soltanto da un insieme di circostanze economiche, ecc. (sviluppo delle forze produttive, ecc.) dipenderà il deperimento del valore.

Del resto è chiaro che per Marx anche sul terreno della ripartizione vigore il valore: poiché nella fase inferiore i prodotti sono divisi secondo il lavoro, il valore continua a imperare in quanto scambio di valori eguali (scambio di equivalenti). Il salario scompare non perché scompare il valore ma perché a ogni produttore viene restituito sotto forma di “parte di prodotto sociale” (Bucharin) meno una porzione poco rilevante (da destinarsi a fini sociali) il valore del lavoro da esso fornito. La situazione a questo proposito è talmente complessa che si può dire scompaia il valore solo relativamente alla forza lavoro, ma non il valore del lavoro che domina nella restituzione (per così dire), scompare cioè quella situazione per cui il lavoro considerato come merce viene valutato al suo valore, che come per qualsiasi merce è la quantità di lavoro necessaria a costituirlo socialmente (nel caso della forza lavoro i mezzi di sussistenza), ma non scompare il fatto che la ripartizione avviene proprio secondo il valore, cioè ancora la quantità di lavoro. Non si dica che questo è ancora scambio mercantile poiché la forza lavoro non viene venduta secondo il suo valore e perché non esiste scambio, ma solo partita diretta.

Se ben si osserva anzi proprio la scomparsa della “legge anarchica del valore” (divario dei prezzi dal valore corretto spontaneamente dal mercato) dovrebbe far emergere come dominante senza fluttuazioni il valore, con una autodeterminazione diremmo originaria e prevista coscientemente.

Molta e supplementare confusione in merito è stata diffusa da un altro che si piccava di conoscere tali problemi, alludiamo a Giuseppe Stalin, per il quale - udite, udite! - “con la scomparsa della produzione mercantile scompariranno sia il valore che la legge del valore” e addirittura nel comunismo “la quantità di lavoro impiegata per la produzione dei prodotti, non si misurerà per via traverse, non tramite il valore e le sue forme, come accade nella produzione mercantile, ma direttamente e immediatamente con la quantità di tempo, con il numero delle ore impiegate nella produzione dei prodotti” (3), dal che si ricava che, tutto all'opposto di Marx: a) nel socialismo il valore non conta; b) conta invece nel comunismo!!! Il valore infatti, per Marx, non si riduce al meccanismo della sua affermazione diretto o indiretto, ma proprio nella “quantità di tempo impiegato nella produzione”, non si riduce al fatto che viene espresso in prezzo e così via, ma al fatto che esiste materialmente “un tempo di lavoro socialmente necessario”. Per noi tutto all'opposto si deve concludere con Marx: a) “il tempo di lavoro socialmente necessario” è in azione nel socialismo nella sfera del piano di produzione e nella ripartizione. Proprio questo fatto distruggerà gli schemi della riproduzione capitalistica, in quanto lo scambio di equivalenti sul terreno del reddito impedirà la valorizzazione e l'accumulazione: alla riproduzione del lavoro sotto forma di capitale succederà l'allargamento, lo sviluppo “lineare” delle forze produttive come conseguenza non dello sfruttamento della forza lavoro, sia sotto forma di plusvalore assoluto e relativo che di calcolo economico sul capitale costante, ecc. ecc. ma per Marx dello “sviluppo generale” degli individui: dopo di che se si vuole a qualcuno dare l'epiteto di idealista e campato in aria o di “piazzista del trotzkismo” ci si rivolga a Carlo Marx, via Critica del Programma di Ghota. b) nel comunismo il valore è scomparso sebbene non nel senso che scompare il lavoro, ma nel senso che dominerà un'economia dei bisogni in una società in cui i beni esistono in quantità proporzionale ai bisogni. Che le su citate sciocchezze fossero preventivate tra un massacro e l'altro di militanti e, nel quadro generale dei “meriti”, figurino come un effetto dell'idea fissa del “socialismo mercantile”, ben poco o nulla rileva un volta scritte queste eresie del marxismo.

In quanto poi a confusione se ne diffonde a piene mani in merito alle annose dispute degli economisti sovietici, poiché da taluno si solleva stupore e si tendono le orecchie al “nuovo” che va accadendo in Russia: circa la “redditività” la rivalutazione delle categorie del profitto, della domanda e offerta, ecc., ecc. Nulla abbiamo da sollevare in merito alla riemergenza di un capitalismo “classico” nelle campagne (legge sulle SMT) in grado di costituire un appesantimento della pressione delle strutture economiche mercantili che, come ammesso da Stalin (4) da sempre hanno costretto allo scambio di merci l'industria di Stato.

Ma torniamo alla novità del profitto, degli incentivi, ecc. novità ben inteso sempre dal punto di vista di una ammissione che oggi si fa di queste categorie mentre “una volta” non se ne parlava. Che oggi se ne parli di più e in modo spudorato e anche diverso è vero, ma si sa che l'uomo incomincia a parlare da bambino. Del resto questi bambini erano talmente consci di sé da chiamare molte cose con il loro nome, per es. nel calcolo dei prezzi figura da sempre un “profitto pianificato”, mentre altre ne rivestivano di nomi diversi: infatti il plusvalore era chiamato prodotto supplementare. Ecco infatti un sig. Gatovskij ammettere che la economia degli anni 1925-30 non è un'economia socialista poiché vi sussiste mercato, prezzo e moneta (5).

Mercato, prezzo e moneta erano chiamati con il loro nome da Stalin, quando negli anni 30-40 avendo alcuni economisti parlato della prossima fine della moneta e dello scambio diretto, liquidava queste idee definendole chiacchiere sinistroidi piccolo borghesi. Nel rapporto al XVII congresso diceva che tra le deficienze dell'industria era principale “un atteggiamento assolutamente inammissibile verso il problema del miglioramento della qualità della produzione e il ritardo persistente nell'aumento della produttività del lavoro, nella diminuzione del costo di produzione nell'applicazione del principio del rendimento commerciale”, parlava di salari e crediti, di commercio sovietico e aveva la faccia di bronzo di qualificare per leninista la posizione secondo la quale “il denaro esisterà ancora a lungo, fino a che non sia finita la fase prima del comunismo” (6). Lenin invece scriveva: “I mezzi di produzione non sono già più proprietà privata individuale. Essi appartengono a tutta la società. Ogni membro della società eseguendo una certa parte del lavoro socialmente necessario, riceve dalla società uno scontrino da cui risulta ch'egli ha prestato tanto lavoro”. Scontrino quindi, non denaro (7).

Salario, rendimento commerciale, ricerca della qualità, danaro, cred ito, tutte cose pienamente praticate e anche ammesse con il loro nome. Così pure parlano di costo di produzione. Strumilin (8) scrive nel 1956 che i nostri contabili hanno conservato per più di 40 anni accuratamente come la pupilla dei loro occhi, il concetto strettamente legato a quello di capitale di “profitto”. A un certo punto non si parlò più di plusvalore e capitale, ma si parlò sempre di profitto, costo di produzione, tassa di scambio. A questo proposito ricordiamo brevemente che Stalin si lamentava che certi compagni affermavano doversi ripristinare “tutte le categorie economiche propria del capitalismo: la forza lavoro come merce, il plusvalore, il capitale, il profitto del capitale, il tasso medio del profitto e così via” (9). Egli nascondeva però che il concetto di profitto era largamente usato dai contabili... socialisti. Scrive infatti ancora nel 1956, dopo la morte del predetto, Strumilin: “in luogo dell'attuale tassa di scambio noi avremmo così dei versamenti nel fondo di consumo sociale, o semplicemente dei versamenti; in luogo dei profitti il fondo di accumulazione o semplicemente le accumulazioni delle aziende: verrebbe in tal modo evitato l'uso di termini e concetti estranei alla nostra economia”. E che lo Strumilin faccia qui una questione di terminologia a tutti è evidente in doppio senso...

In realtà come sì costituisce in Russia da moltissimo tempo il prezzo di una merce? A tutti è noto che il prezzo di una merce pianificata è in Russia costituito sulla base del costo di produzione (c+v), del profitto pianificato e della tassa di scambio, la quale recupera conteggiando valore in un eccedere del profitto aziendale oltre la norma del profitto pianificato. Il recupero avviene, secondo Strumilin, nella sfera della circolazione, e costituisce la maggior fonte di entrate statali. In realtà è un recupero, nella circolazione, del plusvalore, ecc. creato dagli operai nelle aziende e sfuggito ai prelievi statali sul profitto, così come le imposte dirette. La tassa deriva dalla differenza tra il prezzo al dettaglio (meno il margine di profitto commerciale) e il prezzo all'ingrosso. È plusvalore sfuggito alle grinfie della burocrazia industriale, sul terreno degli stipendi che riaffluisce allo Stato della burocrazia. E questa tassa è stata chiamata da tempo un “profitto” dell'economia socialista, un profitto che, come per Marx occorre si realizzi sul mercato della vendita dei prodotti.

Quindi, come si vede, i bambini sapevano parlare. Sapevano anche che, essendo fisso il prezzo all'ingrosso, il profitto dedotto e la tassa, ecc. la redditività poteva solo essere ottenuta nel risparmio di c o nell'aumento della produttività del lavoro o diminuendo i carichi finanziari e accelerando la rotazione del capitale (10). Così aumenterà la parte di reddito netto lasciato all'impresa, poiché, come a tutti noto, in caso di extra-profitto all'azienda viene destinata una percentuale molto maggiore di quella destinata in caso di realizzazione del profitto minimo previsto dal piano.

Con tutto ciò, e sia ben chiaro, nessuno vuole negare la rinascita dell'economia politica russa dopo la morte di Stalin, rinascita determinata a nostro avviso sostanzialmente dalla necessità per un'economia enormemente sviluppata di fare maggior posto alla iniziativa autonoma delle aziende e di tenere in maggior considerazione le “esigenze del consumatore”.

Il piano ha portato cioè per diverse vie a un vero e proprio accumulo di beni invendibili e ognuno sa che in una economia di mercato per quanto pianificato ciò comporta tra l'altro un arresto della riproduzione allargata, che è lo scopo primo della politica di potenza della Russia. Il profitto deve servire all'investimento, ma anche se fosse vero che sia assente il momento opposto dell'investimento che serve al profitto (ciò non è, redditi della burocrazia) rimane sempre il fatto di un meccanismo tutto teso alla riproduzione “astinente” del Capitale (Marx la chiamava astinenza dei capitalisti, ironicamente).

I beni sono invendibili perché a) è aumentata la loro produzione; b) il consumatore può scegliere; il bene è privo di valore d'uso, come gli abiti con maniche diseguali. Del resto “è sbagliata -- scrive la Pravda -- la consuetudine di approvare i piani di produzione dei beni consumo senza tener conto delle esigenze richieste delle organizzazioni commerciali delle esigenze della popolazione. La pianificazione, di quasi tutti gli obiettivi dall'alto ostacola l'iniziativa delle industrie”.

Nel periodo staliniano bastava l'accumulazione al lordo del capitale, oggi occorre risparmiare, il saggio di profitto tende a cadere, le pressioni mercantili si rafforzano in un regime che non può più sprecare le vite umane.

È poi veramente tragicomico il fatto di importanza fondamentale che il bisogno dell'uomo, la ricerca dell'utile da parte dell'uomo (uomo sociale sempre) sia stata scoperta proprio in un momento in cui il capitalismo è oramai rafforzato: mentre nella prima fase come si diceva lo Stato deve servire il bisogno collettivo, che è quanto dire il valore d'uso, non solo quello supposto “collettivo” (questo poi per ironia è valore di scambio) ma anche quello di variazione individuale (“una società in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti, la radice dell'uomo è l'uomo stesso”, ecc. ecc.), nelle condizioni attuali della Russia ciò non può non portare a un rafforzamento della legge della domanda e offerta. Anche questa non è però una novità; e così pure non sono una novità gli incentivi (11).

I “consumatori” si sono permessi di rifiutare i beni, hanno osato interrompere il sacro ciclo della riproduzione allargata del capitale;la loro domanda deve allora stimolare l'offerta, determinare l'offerta: ciò accade perché lo Stato russo in omaggio al... socialismo ha sempre perseguito una politica basata sul valore di scambio, sull'estorsione del lavoro. Per noi il fatto è di importanza capitale: forse per la prima volta la Russia ha dimostrato alla Sinistra una contraddizione tra forze produttive rapporti forme di produzione, tra l'alto sotto la forma ben conosciuta dell'accumulo di merci.

I primi timidi esperimenti Liberman si spiegano semplicemente e borghesemente su questa base: simbolo ne è il famoso talloncino “alla Liberman” che la fabbrica Bolscevica cuce sugli abiti confezionati. Il talloncino ritorna dopo la vendita alla fabbrica e la Bolscevica può rendersi conto della preferenza dei consumatori. Poichè ovviamente vi sarebbe sempre un divario tra domanda e offerta è facile tra l'altro immaginare l'effetto sul valore di tale meccanismo: abiti venduti al di sotto o al di sopra del valore.

Rimandiamo a un prossimo articolo una discussione e illustrazione dettagliata della nuova economia politica sovietica che è di grande importanza per il marxismo: da Bucharin a Kantorovic molta acqua è passata sotto i ponti: oggi si parla di “costi a retroazione”, che molto poco hanno a che vedere con il classico e rivoluzionario punto di partenza del “Capitale”: c + v + m. Si tiene conto, come Novozhilov della “scarsità”, per aumentare il costo reale, cioè in pratica il valore; ma anche questa come la domanda e offerta non era novità sotto Stalin. Risorge o si rafforza una teoria soggettiva del valore, Nemchinov parla di “forma trasformata del valore”, corrispondente ai costi reali dal punto di vista della economia nazionale definiti da c+v e dal carico standard sul capitale più una rendita differenziale. Si ha un bel dire poi che la scarsità non è fonte di valore, ma lo è il lavoro: in pratica si ricade nel feticcio del prodotto come dotato di valore intrinseco.

Queste idee devono tuttavia ancora affermarsi in Russia, ma il feticismo si espande causato evidentemente dallo scambio: si insiste non solo sul profitto medio, ma soprattutto sul profitto delle aziende fino a un calcolo interaziendale (rendita differenziale). Da Strumilin a Kantorovic, malgrado le critiche di Gatovski e Sakov, esiste continuità: non basta rifarsi a una concezione del valore socialista basato sul lavoro (c + v + m) poiché questo valore sarebbe composto di plusvalore; non basta nemmeno fare come Gatovski per il quale il valore del prodotto è costo più un profitto del 3%. Su questa via, che esprime in realtà la necessità di una accumulazione di capitale è fatale che a un certo momento maggiormente e diversamente emergano, sia pure con una complessa problematica e con un grande impegno intellettuale, se si vuole tener dietro al ritmo inevitabilmente accelerato della riproduzione allargata, all'accumulo di profitto, financo i criteri della scarsità, soverchianti, in una atmosfera di marginalismo, i classici concetti marxisti di valore, ecc.

Riunita in sommo concilio nel 1957 la maggioranza degli economisti russi ha chiaramente ammesso quanto denunciato dalla Sinistra da vari decenni: non solo in agricoltura ma nell'interno del settore statale, nel cuore dell'economia proprietà di tutto il popolo (!) il movimento di beni tra le imprese è un processo di scambio di merci (Ostrovityanov, Gatovski, Kronrod) e per Kronrod “la produzione di merci è inerente ai rapporti di produzione socialisti. Essa non vi è introdotta dall'esterno” (12).

A tanto dovevamo assistere a quasi cinquant'anni dalla fulgida Rivoluzione d'Ottobre!

Armando Parlato

(1) Stalin, Questioni del leninismo; Rinascita, Roma, 1952.

(2) Così anche il “tasso di rendimento” di Liberman, diverso dal concetto di profitto adoperato da lungo tempo. È il profitto globale dell'azienda in rapporto al suo fondo di capitale fisso e circolante, non semplicemente ricavi meno costi.

(3) Stalin, Problemi economici del socialismo, Riuniti, Roma 1953.

(4) Stalin, cit.

(5) L. M. Gatovskij, Planovoe Hozjajstvo, n. 4, 1930.

(6) Stalin, Questioni, ecc.

(7) Lenin, Stato e Rivoluzione, ed. in due volumi opere scelte, Mosca.

(8) Strumilin, L'economia sovietica, Riuniti, Roma, 1961, dove si illude cambiando nome al plusvalore (propone di chiamarlo non tanto prodotto addizionale, quanto intero prodotto per la società), di far sparire il plusvalore; così le tasse dovrebbero essere chiamate versamenti nel fondo di consumo sociale, i profitti fondo di accumulazione: tuttavia la questione non è puramente... terminologica.

L'acrobazia terminologica è sempre evidente quando si vorrebbe fare del profitto semplicemente un indice di sviluppo della così detta economia popolare (non più socialista dunque?): che il profitto si stabilisca in modo anarchico o venga fissato, adoperato da uno Stato che conosce a menadito “Il Capitale” nulla muta evidente: mente: per questo Marx scrisse: “La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto sono valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell'umanità, ma non disperde affatto la parvenza obbiettiva del carattere sociale del lavoro”. Il valore per Marx è qui il feticcio della merce. Tradotto in termini di profitto significa questo, che i pianificatori russi potevano capire che il valore feticcio, il profitto dovevano scomparire, ma poiché rimanevano impigliati nell'uso d tali categorie necessariamente dovevano esserne determinati: in realtà dunque il piano è determinato da queste categorie. “Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificatamente sociale dei lavori privati indipendenti l'uno dall'altro, consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro appare cosa definitiva tanto prima che dopo di quella scoperta a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci; cosa definitiva come il fatto che la scomposizione scientifica dell'atmosfera dell'aria nei suoi elementi ha lasciato sussistere nella fisica l'atmosfera come forma corporea” (Il Capitale, I, 1, 88).

(9) Stalin, Questioni, ecc., cit.

(10) Un altro sistema denunciato da Marx e lamentato da Kruscev è la compressione del valore della forza lavoro al di sotto del valore. Nel '60, dopo il duro periodo staliniano, il salario medio deve essere di 750 rubli con un minimo anche inferiore a 350, e un massimo (eccettuati artisti, accademici, ecc.) di 8000 rubli al mese (questi naturalmente sono gli stipendi della burocrazia).

(11) Quanto agli incentivi, nel '32 il Consiglio centrale dei sindacati dettava i seguenti compiti: “curare che si faccia il massimo uso possibile del lavoro a cottimo e che il pagamento per il lavoro svolto sia fatto sulla base dei premi progressivi”. Marx invece scriveva del lavoro a cottimo: “Il salario a cottimo è la forza di salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico” e “lo sfruttamento degli operai da parte del capitale si attua qui mediante lo sfruttamento dell'operaio da parte dell'operaio” (1, 2, 272, 275).

(12) Zakon stoimosti i evo rol' v narodnom khozyaistve SSSR, Tsagalov, Mosca, 1959. Zakon stoimosti i evo ispol' zovanie v narodnom khozyaistve SSSR, Kronrod, Mosca, 1959.

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.