Sulla teoria della crisi in generale

Si è discusso, e ancora oggi si discute, sul perché delle crisi in regime di produzione capitalistica. Le teorie borghesi tendono a spostare le cause di queste all'esterno dei rapporti di produzione, cercando di dimostrare come le crisi non siano il prodotto di contraddizioni insanabili, ma soltanto la conseguenza di un mancato equilibrio distributivo per cui, è sufficiente intervenire sul rapporto domanda-offerta per rimettere le cose a posto

Le teorie di mercato, come quelle del sottoconsumo, pre tendono di eliminare le cause delle crisi intervenendo là dove sembrano presentarsi (mercato), agendo sugli effetti senza prendere in considerazione le cause effettive che ne sono i presupposti. Keynes, ad esempio, teorizza la superabilità delle crisi (carenza di domanda), imponendo allo stato di intervenire sul mercato come elemento complementare (domanda aggregata) in modo da ristabilire l'equilibrio tra domanda ed offerta.

Ci sembra che Marx abbia sufficientemente mostrato l'errore di fondo di queste teorie di mercato, riconducendo le cause delle crisi all'interno dei rapporti di produzione, ponendo in luce il limite obiettivo a cui va incontro lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici. Per Marx il problema non è quello del sottoconsumo e della sovrapproduzione, l'aspetto determinante della contraddizione non risiede nell'inevitabile disequilibrio tra produzione e distribuzione, tra capacita produttiva e possibilità di consumo, tra valore d uso e valore di scambio delle merci o nel rapporto tra domanda ed offerta. La contraddizione fondamentale che induce ed esaspera tutte le altre sta nel capitale stesso e nel suo rapporto con la forza lavoro, rapporto che è al contempo punto di partenza e limite al suo processo di valorizzazione. In altri termini è all'interno dei meccanismi di accumulazione che si generano e si esasperano i motivi delle crisi che finiscono poi per ripercuotersi sul mercato e non viceversa.

La teoria luxemburghiana

In campo marxista chi meglio di ogni altro ha abbracciato là tesi di mercato delle crisi per sovrapproduzione è stata Rosa Luxemburg. Sintetizzando il suo pensiero si ha questo quadro di sviluppo: il sistema produttivo capitalistico, nel suo aspetto complessivo, consta di due momenti tra loro complementari, il momento della produzione delle merci, nel quale si crea plus-valore, ed il momento della distribuzione nel quale questo plus-valore viene realizzato.

Se lo scopo del capitalismo è la valorizzazione del capi tale, non è sufficiente che si producano delle merci, è altresì necessario che queste merci vengano vendute perché si possa realizzare il plus-valore in esse contenute. Il profitto, infatti, non è altro che una quota di questo plus-valore. Non solo, ma essendo il profitto, per la Luxemburg, la condizione prima della riproduzione allargata, ovvero dell'accumulazione, quest'ultima è possibile alla sola condizione che le merci prodotte trovino sul mercato una domanda adeguata. In assenza di questa, niente profitti e nessuna accumulazione, il sistema entra in crisi perché il mercato è saturo.

È a questo punto dello schema che la Luxemburg entra criticamente nella questione: In una società capitalistica, in cui la borghesia detiene il capitale finanziario ed i mezzi di produzione e la classe operaia può disporre soltanto del misero salario che ottiene in cambio della vendita della sua capacità produttiva, chi rappresenta sul mercato la domanda sufficiente a pareggiare l'offerta?

Ovviamente non i lavoratori la cui capacità d'acquisto e quindi di consumo è determinata a priori dalle esigenze del capitale, non i capitalisti i quali dedicano al consumo solo una parte, della loro capacità d'acquisto. Ma così stando le cose, non tutte le merci trovano un acquirente, parte di esse rimangono invendute, incidendo sulle possibilità di realizzazione dei profitti ed andando ad inceppare lo stesso meccanismo di accumulazione. L'unica alternativa possibile è per la Luxemburg che esistano dei compratori esterni al capitalismo, che rappresentino quella quota di domanda che non esiste al suo interno, che acquistino tutto quanto è stato prodotto (eccezion fatta per quei beni strumentali che vanno a rimpiazzare quelli adoperati nella produzione, e di quei beni di consumo necessari alla stessa borghesia ed al proletariato, garantendo così al capitale profitti ed accumulazione. Completando sinteticamente lo schema, si ha che il capitalismo può vivere ed accumulare alla sola condizione che esistano aree di sottosviluppo o comunque precapitalistiche che assorbono l'eccedenza della produzione.

Quando queste aree diminuiscono o non assolvono più al la loro funzione, ecco che siamo in presenza di una offerta produttiva che non trova più una adeguata domanda di consumo.

Da qui la saturazione dei mercati, sovrapproduzione ecc. È indubbio che la tesi luxemburghiana sia suggestiva e contenga delle verità anche se parziali, ma è anche altrettanto vero che vi siano dei vizi di fondo quali: il considerare l'accumulazione soltanto in termini di valore monetario, di non ammettere a priori la possibilità di una accumulazione, anche se minima, all'interno del sistema, e di interpretare il comportamento del capitale complessivo nel problema dello scambio come fosse un capitalista singolo. È paradossalmente il suo sforzo per spiegare l'unica possibilità che ha il sistema per accumulare finisce per rivoltarlesi contro costringendola a dare delle crisi, del processo di accumulazione e dell'imperialismo una definizione quantomeno impropria.

Infatti, se così fosse, se cioè il processo di accumulazione potesse avvenire solo a condizione che tutte le merci prodotte (eccezion fatta per quelle a cui si faceva prima riferimento) vengano vendute per permettere la realizzazione del plus-valore in esse contenute, se ne dovrebbe dedurre che accumulare significhi accatastare una quantità di Valore sotto forma di denaro e niente più. Ma se accumulare significa allargare gli impianti aumentare la capacità produttiva, disporre di beni strumentali addizionali, occorre che siano disponibili sul mercato proprio quelle merci che invece sono state vendute al di fuori del sistema per garantire profitti, nella forma monetaria. In realtà non si può parla re di accumulazione solo in termini monetari, ma anche di merci. Il valore, ovvero una certa quantità di lavoro prodotto, può manifestarsi sotto forma di valore denaro o di valore merce, ed è la seconda, in questo caso, e non la prima che interessa maggiormente ai fini della accumulazione. Se per ammissione della stessa Luxemburg è solo all'interno del sistema capitalistico che si producono oltre ai beni di consumo i beni strumentali, e se accumulare significa aumentare la base produttiva, è inevitabile che tutto ciò avvenga sotto forma di valore merce (macchinari) e non di valore denaro. E quindi l'accumulazione è possibile non quando tutte le merci prodotte in eccedenza sono vendute, ma quando una quota più o meno grande di queste vada ad ingrandire la base produttiva. Allora e solo allora si porrà il problema di una vendita in eccedenza che comunque (la storia lo ha dimostrato) non si rivolge solo ed esclusivamente ad aree extracapitalistiche.

In secondo luogo, come è possibile tarare l'enorme sviluppo delle forze produttive in regime capitalistico, il frenetico processo di accumulazione su scala mondiale, sulla capacità d'acquisto di paesi sottosviluppati? Questi, proprio perché arretrati in tutti i sensi ed in modo particolare nella possibilità di creare valore, non hanno potuto e non possono sobbarcarsi interamente l'onere di mantenere i costi del processo di accumulazione del capitale mondiale. Se lo scambio di mercato tra le zone capitalistiche e quelle del sottosviluppo avvenisse per valori equivalenti, significherebbe che per lunghi periodi i paesi più arretrati sono riusciti a produrre (non si sa come) una quantità di valore perlomeno equivalente a quella prodotta in eccedenza nei paesi ad avanzatissima capacità produttiva.

Ed infine va chiarito una volta per tutte che cosa si deb ba intendere per sovrapproduzione, per saturazione di mercati. Se si considera il processo da un punto di vista meccanico per cui il mercato assume le sembianze fisiche di un recipiente la cui capienza ha dei limiti ben precisi e che si erge come ostacolo obiettivo alle necessità di espansione della produzione si arriva al paradosso di parlare di mercati che provocano una sovrapproduzione di merci perché non più in grado di contenerle, quando, invece, è il valore (prezzo in regime di monopolio) delle merci che allarga o contrae il mercato.

Seguire la Luxemburg in tema di possibilità di accumulazione, e di crisi significa correre il rischio di osservare un fenomeno solo per quello che appare e di scambiare gli effetti con le cause. Infatti da questa analisi discendono alcune considerazioni errate sul piano sia della definizione scientifica che della verifica storica:

  1. che le crisi siano il prodotto di una sovrapproduzione per mancanza di mercati extracapitalistici;
  2. che la chiusura o saturazione di questi mercati rende la caduta del saggio del profitto da tendenziale a reale;
  3. che la contraddizione fondamentale del sistema produttivo capitalistico sia nel rapporto produzione- distribuzione
  4. che la fase monopolistica (imperialismo) sia essenzialmente caratterizzata dalla ricerca di mercati extra-capitalistici dove collocare l'eccedenza della produzione.

La teoria delle crisi e la caduta tendenziale del saggio del profitto

Ripartiamo nel prendere in considerazione i punti che riguardano la supposta contraddizione fondamentale e le cause principali delle crisi in base ai quali il mercato ed i fenomeni che in esso avvengono sembrano essere il punto focale su cui far procedere l'analisi. In realtà il processo è inverso. Pur partendo dal mercato e dalle contraddizioni che in esso si manifestano (produzione distribuzione disequilibrio tra domanda ed offerta ecc..) è ai meccanismi che regolano l'accumulazione che bisogna riandare per avere una più corretta visione del problema. Il capitalismo, in quanto unità produttiva distributiva, impone che si guardi a ciò che avviene nel mercato come la conseguenza del giungere a maturazione delle contraddizioni che sono alla base dei rapporti di produzione e non il contrario. È il ciclo economico e la necessità di valorizzazione del capitale che condizionano il mercato. È solo partendo dalle leggi contraddittorie che regolano il processo di accumulazione che è possibile spiegare la "crisi di mercato".

II capitalismo, come particolare forma di produzione, nasce e si sviluppa ed ha il suo limite nel rapporto capitale-forza lavoro, ed ha come unico scopo la valorizzazione del capitale attraverso la produzione di merci. Queste ultime sono il mezzo e non il fine della produzione capitalistica. Per ottenere questo fine il sistema produttivo è costretto non solo a riprodurre il rapporto capitale-forza lavoro, ma a farlo su scala allargata. Fin dagli inizi il capitalismo si è mosso in questa direzione allargando la sua base produttiva, innescando cioè i meccanismi contraddittori del processo di accumulazione. È a questo punto che il capitalismo si è trovato ad un bivio. Accumulare significa creare di produzione in riproduzione una quantità di plusvalore sempre più grande e ciò era possibile, in periodo di libero scambio, solo a due condizioni. O prolungare la giornata lavorativa lasciando pressoché immutato il rapporto organico del capitale, o diminuire il tempo di lavoro necessario accumulando proporzionalmente più in macchine (capitale morto) che in mano d'opera (capitale vivo), andando così a modificare il rapporto organico. Storicamente il capitalismo, dopo una prima fase (manifattura) in cui batté la strada del prolungamento della giornata lavorativa, fu necessariamente costretto a ripiegare sulla seconda (macchinario) essenzialmente per tre motivi.

  1. L'allungamento della giornata lavorativa ha un limite invalicabile nella giornata stessa. Ovvero, pur facendo un paradosso, non è possibile far lavorare la classe operaia oltre le 24 ore giornaliere.
  2. In quei periodi l'orario di lavoro che andava dalle 12-16 sino ad una massimo "fisico" di 18 ore giornaliere per uomini donne e bambini, cominciava a creare sacche di resistenza che prima o poi avrebbero costretto le masse ad organizzarsi per contrattare orari di lavoro più umani tendenti a ridurre e non ad allungare la giornata lavorativa.
  3. Infine, aumentare, nella riproduzione allargata, la quota di capitale costante in rapporto al capitale variabile, significava agli occhi del capitalista diminuire il tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci, aumentare lo sfruttamento e la produttività e la quantità di plus-valore ed al contempo accelerare il processo di accumulazione battendo in breccia la concorrenza.

Ma la strada che il capitalismo si è imposto sulla base dello sviluppo delle proprie contraddizioni lo ha posto di fronte ad un vicolo cieco. Il costante aumento del rapporto organico, ovvero un incremento del capitale costante in rapporto a quello variabile, innesca la caduta del saggio dal profitto.

Quindi possiamo dire che l'accumulazione porta con sé la caduta del saggio del profitto che a sua volta accelera il processo di concentrazione nei modi precedentemente citati, inserendo il sistema produttivo in un circolo vizioso dal quale non può uscire, se non momentanea mente, cercando di aumentare la massa del plus-valore con un incremento della produttività. Ma tutto ciò non fa altro che riproporre il problema aggravandolo e che si ripresenta come forma inconciliabile tra uno sviluppo delle forze produttive e le specifiche condizioni di produzione entro le quali il capitale si muove. In altre parole la caduta tendenziale del saggio del profitto è conseguenza e motore dell'accumulazione capitalistica nelle specifiche condizioni date dal rapporto capitale-forza lavoro e del suo evolversi. Quando il sistema, nel suo complesso, perviene ad un momento del suo sviluppo in cui il rapporto profitti-quantità di plus-valore, prezzi delle merci prodotte- disponibilità del mercato,non è più coincidente con le esigenze di valorizzazione del capitale, è il momento che si determina il conflitto insanabile tra produzione e consumo, tra domanda ed offerta che porta alla cosiddetta sovrapproduzione-saturazione del mercato-crisi. Al riguardo così si esprime Marx:

Poiché le medesime circostanze che hanno accresciuto la forza produttiva del lavoro, aumentando la massa dei prodotti, ampliato i mercati, accelerato l'accumulazione di capitale come massa e come valore, e diminuito il saggio del profitto, hanno creato una sovrappopolazione di operai, che non possono venire assorbiti dal capitale in eccesso, perché il grado di sfruttamento del lavoro che solo consentirebbe il loro impiego non è abbastanza elevato, od almeno perché il saggio del profitto che essi produrrebbero a questo grado di sfruttamento è troppo basso. [...] D'altro lato la caduta del saggio del profitto, provocata dall'accumulazione, genera necessariamente la concorrenza.
Soltanto il capitale complessivo sociale ed i grandi capitalisti già saldamente installati trovano una compensazione alla caduta del saggio del profitto nell'aumento della massa dei profitti. Il nuovo capitale addizionale che funziona per proprio conto non trova tali condizioni di compensazione, deve cominciare a conquistarsele lottando; e così è la caduta del saggio del profitto che genera la concorrenza tra capitali, e non inversamente la concorrenza che determina la caduta del saggio del profitto... Poiché il capitale non ha come fine la soddisfazione dei bisogni ma la produzione del profitto, e poiché può realizzare questo fine solo usando dei metodi che regolano la massa dei prodotti secondo la scala della produzione e non inversamente si deve necessariamente venire a creare un continuo conflitto fra le dimensioni limitate del consumo su basi capitalistiche ed una produzione che tende continuamente a superare questo limite che le è assegnato.

Quindi si parla di sovrapproduzione non perché

vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente... Ma vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza, perché possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento degli operai a un determinato saggio del profitto. Vengono prodotte troppe merci, perché il valore ed il plus-valore che esse contengono possano essere realizzati e riconvertiti in nuovo capitale, e nei rapporti di distribuzione e di consumo inerenti alla produzione capitalistica... Non vie ne prodotta troppa ricchezza. Ma periodicamente viene prodotta troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, che hanno un carattere antitetico... L'estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione ed i bisogni sociali... ma... in base al profitto ed al rapporto fra questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio del profitto. (1)

In questi termini e solo in questi è possibile parlare di sovrapproduzione e di saturazione del mercato, e comunque resta il fatto che non sono questi motivi alla base delle crisi, bensì è la caduta del saggio del profitto che determina la impossibilità del capitale di valorizzarsi vendendo le merci a certi prezzi ed impiegando mano d'opera a certi livelli di sfruttamento, che esaspera la concorrenza che crea sovrapproduzione, crisi, ecc. né tanto meno che la caduta del saggio del profitto diventa operante solo a mercato saturo, quando è proprio dall'andamento della prima che si creano le condizioni di crisi nel secondo.

Quindi, se si vuole trovare un punto di contatto o di non contraddizione nella teoria marxista delle crisi tra la caduta del saggio del profitto e la saturazione dei mercati occorre innanzitutto ridefinire la seconda e subordinarla alla prima e non viceversa come ha tentato di fare la Luxemburg.

Il mercato non è una entità fisica persistente al di fuori del sistema produttivo capitalistico, colmata la quale, tutto il meccanismo produttivo si inceppa, al contrario è una realtà economica dentro e fuori il sistema che si dilata e si restringe a seconda dell'andamento contraddittorio del processo di accumulazione. Non esiste una domanda di una quantità di beni costante che se superata dalla capacità produttiva dell'offerta crea sovrapproduzione, ma si ha una offerta di beni ad un prezzo di mercato che sia remunerativo per il capitale che condizionerà la domanda, ovvero se il prezzo della merce è alto, minori acquirenti sono reperibili sul mercato e viceversa. Ben altrimenti è considerare i mercati come un qualcosa di riempibile, finché c'è spazio c'è vita e tutto viene rimandato.

In sistema capitalistico le crisi, invece, possono determinarsi prima dell'esaurimento fisico dei mercati. In altri termini la caduta del saggio del profitto, momento peculiare del processo di accumulazione può "saturare i mercati" prima ancora di averli esauriti.

Monopolio e decadenza

Tutta la storia del capitalismo è una perenne rincorsa verso un equilibro impossibile. Solo le crisi, che signficano fame, disoccupazione guerra e morte per i lavoratori sono i momenti attraverso i quali i rapporti di produzione ricreano le condizioni per un ulteriore ciclo di accumulazione che ha come punto di arrivo un'altra crisi più profonda e più vasta. Il capitalismo vive di contraddizioni, il suo sviluppo dipende dal maturare di queste contraddizioni, e le forme di questo sviluppo sono caratterizzate dai tentativi di superarle, con l'unico risultato di allontanarle nel tempo e di ritrovarsele, di lì a poco, ancora ben presenti e potenziate. Alla fine del periodo liberoscambista, quando ancora il prezzo delle merci oscillava tendenzialmente attorno al loro valore, il sistema produttivo, spinto dalle necessità di un'accumulazione che si mordeva la coda con la tendenziale caduta del saggio del profitto, stimolato da una concorrenza sempre più asfissiante, si trovò nella necessità di trovare nuove forme organizzative alla produzione in modo da limitare i danni provocati dal continuo aumento del rapporto organico del capitale. Se è vero che sino a quando l'aumento della produttività del lavoro, e quindi di creazione di plus-valore si mantiene superiore al tasso di caduta del saggio del profitto, cioè finché il capitale crea in proporzione maggiore alla caduta del saggio del profitto, il sistema può assolvere, entro certi limiti, alle esigenze di valorizzazione del capitale, è altrettanto vero che questo processo ad inseguimento matura gli ostacoli alla propria ulteriore espansione. Infatti con merci che venivano prodotte a valori sempre più bassi e con un capitale pervenuto ad un livello del rapporto organico già sufficientemente alto e con la necessità di reperire una quota di capitale minimo sempre più grande per perpetuare il ciclo produttivo su scala allargata, si sono create tutte quelle condizioni che rendevano impossibile un ulteriore sviluppo del le forze produttive sulla base delle leggi di una economia di mercato di libero scambio e di concorrenza per fetta. È più precisamente in questa fase storica che il capitalismo entra nella sua fase discensiva. La libera concorrenza esasperata dalla caduta del saggio del profitto crea il suo opposto, il monopolio, che si manifesta per essere quella forma di organizzazione della produzione che il capitalismo si è dato per contenere la minaccia di un ulteriore caduta dei profitti. Il monopolio infatti agisce sui tre momenti critici determinanti: reperire con la concentrazione una massa di capitale sufficiente per garantire entro certi limiti una creazione maggiore di plusvalore, l'eliminazione della concorrenza e le possibilità di imporre sul mercato prezzi più remunerativi all'attività imprenditoriale.

  1. L'ulteriore concentrazione di capitale finanziario e di mezzi di produzione tali da aumentare la massa del plusvalore in modo soddisfacente, in quella fase storica, era pressoché impossibile a qualsiasi capitale individuale. Solo il monopolio, inteso come unità tra più capitali (capitale bancario e capitale industriale) sarebbe riuscito, come di fatto è avvenuto, a dare una momentanea soluzione al problema. Il monopolio non è stato il frutto occasionale o volontaristico di questa o quella borghesia illuminata, ma l'unica soluzione che il capitalismo si impone, ad un certo stadio del suo sviluppò, per protrarre il suo processo di valorizzazione.
  2. Posto nella morsa della concorrenza tra prezzi e profitti e quindi nella impossibilità in mercato libero scambista di ottenere remunerativi profitti con la vendita di merci il cui prezzo era destinato a diminuire o tuttalpiù a rimanere inalterato, il capitale, nella fase del monopolio, entro limiti di una concorrenza più ristretta, riuscì ad imporre sul mercato un prezzo più alto rispetto al valore. In regime monopolistico si inizia quella divaricazione a forbice tra valore e prezzo delle merci che caratterizza il capitalismo nella sua fase di decadenza.
  3. Con il monopolio infine si rese possibile distogliere una quota di capitale finanziario così concentrato in aree che consentissero una realizzazione di extra profitti. La risposta monopolistica alla caduta tendenziale del saggio del profitto quindi è consistita essenzialmente in una concentrazione di capitali che non ha avuto precedenti, nelle possibilità di imporre, entro certi limiti prezzi più convenienti e nella sempre massiccia esportazione di capitale finanziario.

Ma tutto ciò se ha risolto temporaneamente i problemi del capitalismo della libera concorrenza, non ha potuto evitare che le stesse cause di questa crisi si riproponessero, questa volta ingigantite, nel regime di monopolio. Infatti l'ulteriore concentrazione è stata possibile solo a condizione di modificare il già alto rapporto organico favorendo di conseguenza l'accentuarsi della caduta del saggio di profitto. Riproponendo perciò e non eliminando il circolo vizioso con l'unica differenza di spingerlo verso livelli sempre più alti. L'esportazione di capitale finanziario, tipica espressione del capitalismo nella fase monopolistica, se da un lato ha il potere tonificante di rinsanguare il sistema con facili profitti, dall'altro si presenta come pericoloso veicolo di propagazione delle contraddizioni che vengono esportate insieme al capitale stesso.

La possibilità di collocare merci sul mercato ad un prezzo non coincidente con il loro valore, in quanto il monopolio elimina tendenzialmente la concorrenza del piccolo capitale privato, finisce solo per una conoscenza più ampia e ben più violenta tra i colossi monopolistici. Non solo, ma lo stesso vantaggio di imporre il prezzo di mercato che garantisca il più alto profitto finisce per restringere la domanda e "saturare il mercato" riproponendo su scala allargata le contraddizioni: produzione - distribuzione, valore d'uso - valore di scambio, disequilibrio tra domanda ed offerta.

La forma di organizzazione produttiva monopolistica se è stata la risposta che storicamente il capitalismo ha dato alla contraddizione: accumulazione - caduta saggio del profitto, non è stata certamente la sua soluzione, anzi. In questa fase di decadenza, le crisi economiche, ben lungi dall'essere superate, si ripresentano più gravi e vaste di quanto lo fossero nella fase di ascesa del capitalismo. Con il monopolio, il sistema produttivo si è inserito nel circolo vizioso di periodi di accumulazione che possono terminare solo con crisi violentissime e vastissime, la cui soluzione (guerre) non è altro che la condizione per un nuovo ciclo di accumulazione ecc. Due guerre mondiali e questa crisi sono la verifica storica di che cosa significhi sul piano della lotta di classe il permanere oltre di un sistema economico come quello capitalista.

La crisi degli anni 1970

Una teoria economica è valida solo a condizione che le sue aspettative vadano a coincidere con lo svolgersi degli accadimenti in caso contrario sarà la stessa realtà storica ad incaricarsi di bocciarla.

Se la teoria della crisi per mancanza di mercati extracapitalistici fosse valida, dovremo ritenere che questa crisi, nata agli inizi degli anni 1970 negli USA, rimbalzata in Europa e in Giappone, e successivamente, attraverso gli infiniti ma obbligati canali del mercato, in tutto il mondo, è ritornata come un boomerang là dove era partita, sia la conseguenza di uno spazio che si è definitivamente chiuso e che sia in procinto di esserlo.

Ovvero, lo sviluppo del capitale totale, avrebbe esaurito tutti gli spazi a sua disposizione eliminando così, oltre ai mercati, la possibilità di accumulare con tutto ciò che ne consegue? sul piano economico, finanziario e della tensione della lotta di classe. Solo a questo punto si inasprirebbe la concorrenza tra le centrali imperialistiche per la disputa dei mercati interni ed incontenibile diverrebbe la caduta del saggio del profitto. Se questa ipotesi fosse vera, come mai la crisi che il mondo produttivo sta vivendo, è partita proprio da quel paese (USA), che essendo, da un punto di vista imperialistico, più forte, e con a disposizione maggiori possibilità di mercati, avrebbe dovuto avere una più agguerrita possibilità di resistenza, e non da paesi meno agguerriti e competitivi che al contrario avrebbero dovuto vedersi chiudere gli spazi molto prima? In altre parole, una crisi per mancanza di mercati extra capitalistici avrebbe dovuto manifestarsi prima nei settori più deboli cioè alla peri feria del sistema, e soltanto più tardi nel suo centro vita le e non al contrario come è avvenuto. Sovrapproduzione, in questo caso, significa impossibilità per il capitale totale di collocare le proprie merci sul mercato. Come mai, allora gli USA industrialmente più forti e quindi, in teoria, più competitivi, si sono visti chiudere fin dal 1971 quei mercati che invece risultavano ancora aperti a potenze economiche nettamente più deboli?

Perché, dopo un andamento alterno, oggi, 1978, la bilancia dei pagamenti con l'estero di Washington registra un disavanzo di 18 miliardi di dollari mentre economie come quella tedesca e giapponese riescono, nonostante tutto, ad avere saldi positivi e a trovare ancora mercati disponibili, prima fra tutti, proprio quello americano? Perché, dunque, si parla soltanto in termini di sovrapproduzione e di chiusura dei mercati della crisi che ha come epicentro l'America, quando è lo stesso mercato americano che si mostra altamente ricettivo ai prodotti stranieri? Come parlare di saturazione di mercati quando ancora oggi interi continente come quello asiatico ed africano hanno estremo bisogno di beni di consumo, beni strumentali e tecnologia? Non è possibile dunque porre il problema solo da questo punto di vista, non si è prodotto troppo, non si sono esauriti, perché colmati, tutti i "recipienti di mercato", ma si è prodotto troppo in termini capitalistici, cioè a prezzi che siano remunerativi per il capitale investito in conformità al suo rapporto organico, ma a questi prezzi le merci non possono più trovare acquirenti, sia all'interno che all'esterno del sistema, in grado di soddisfare le esigenze di valorizzazione del capitale. Questa crisi mostra infatti che il capitalismo può "chiudere" o "saturare" i mercati prima ancora di averli fisicamente esauriti e che questo processo parte dall'interno dei rapporti di produzione per arrivare al mercato e non viceversa. Il ristagno degli investimenti, la diminuzione della produzione, l'affannoso attacco al costo del lavoro, la speculazione ecc. sono chiaramente i sintomi del limite a cui è pervenuto il sistema produttivo internazionale, stretto nella morsa accumulazione-saggio del profitto e che ha avuto ed ha tuttora negli Stati Uniti la punta più avanzata.

Se la caduta del saggio del profitto, con tutte le sue conseguenze, ha minori possibilità di essere arginata là dove maggiore è il rapporto organico del capitale, ciò non poteva essere che negli USA e non è un caso, quindi, che la crisi abbia preso le mosse dal cuore del capitale finanziario mondiale e da lì si sia propagata con andamento alterno ed a volte contraddittorio dappertutto,trascinando nel vortice della depressione le economie più deboli. A questo proposito è necessario rilevare come l'aumento delle più importanti materie prime aventi mercato internazionale, il relativo e pilotato aumento del prezzo del petrolio, l'inflazione monetaria, siano fenomeni la cui origine porta l'etichetta "made in USA". Già dal 1964 l'economia americana, vincitrice di due guerre mondiali, padrona pressoché assoluta del mercato internazionale, dotata di un apparato tecnologico avanzatissimo e per questo ad alto contenuto organico, si era trovata nelle condizioni di bilanciare le progressiva caduta del saggio del profitto della sua struttura produttiva con la ricerca di mercati in cui reperire mano d'opera a bassissimi costi (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong) e soprattutto con una crescente esportazione di capitale finanziario. Agli inizi degli anni 1970, buona parte dei colossi produttivi americani erano costretti a trovare all'estero i profitti più remunerativi per una incidenza nel fatturato complessivo superiore al 50%. Tra le imprese che nel 1972 realizzarono più del 50% dei loro profitti all'estero c'erano imprese come (2): I.B.M., HONEYWELL, COCA-COLA, MOBIL, STANDARD OIL, UNI-ROYAL, REYNOLDS-METAL, WOOLWORTH, UPJOHN, mentre la GENERAL MOTORS ottenne all'estero il 19% e la FORD il 24%. Lo stesso discorso vale per il capitale finanziario. Le sette maggiori banche americane importarono agli inizi degli anni 70 una politica finanziaria che prevedeva tassi di realizzo in termini di interessi non inferiori al 35%.

La FIRST NATIONAL CITY BANK di New York, nel 71 ottenne il 42% dei suoi guadagni dall'investimento di capitali all'estero. In questo senso è verificata la tendenza principale dell'imperialismo che consiste non tanto nel conquistare nuovi mercati per collocarci l'esuberanza delle proprie merci (anche se il fenomeno esiste) quanto per esportare capitale finanziario in modo da compensare la conseguenza contraddittoria del processo di accumulazione .

Ma l'attività monopolistica, sia privata che statale, non può che rappresentare una "soluzione" temporanea allo svilupparsi delle contraddizioni insiste nel processo di accumulazione. Nel lungo periodo il monopolio è costretto ad ingigantire tutte quelle disfunzioni per le quali era sorto, esaurendo così le misure di controtendenza alla caduta del saggio del profitto per dar sfogo a tutti quei fenomeni tipici delle crisi quali: incontrollabilità dell'aumento del prezzo delle materie prime e quindi delle merci, inflazione, disequilibrio tra offerta e domanda, rallentamento dell'attività produttiva, diminuzione degli investimenti, fughe sempre più consistenti di capitali verso l'avventura della speculazione, disoccupazione e fame per la classe operaia.

Anche per questo aspetto gli USA rappresentano la punta emergente dell'iceberg-crisi. Il fenomeno dell'aumento del costo delle materie prime aventi mercato internazionale vedeva l'America in testa come maggiore produttore.

- 1970 1971 1972 1973
Alimentari vari 360 330 440 515
Semi ed oli vegetali 245 220 240 365
Metalli non ferrosi 360 340 355 490
Ferro e acciaio 300 290 335 430
Indice SCHULTZE 1936 = 100

Gli ultimissimi dati non fanno altro che confermare la tendenza espressa agli inizi degli anni 1970 con 1'aggiunta di una disoccupazione che si aggira sui 14 milioni di ex lavoratori.

A questo punto dell'andamento irreversibile della crisi (indipendentemente dalle oscillazioni sinusoidali che si possono verificare al suo interno) il capitalismo però percorre solamente due strade.

  1. Cercare di resistere nel breve periodo agendo sul la classe operaia a colpi di produttività del lavoro e disoccupazione per rimanere a galla nel mare magnum della concorrenza.
  2. Mandare la classe operaia verso il terzo macello mondiale per ricrearsi le condizioni di un nuovo ciclo di accumulazione.

Ai rivoluzionari, dunque, il compito di denunciare gli aspetti e le conseguenze ultime di questa crisi perché una ripresa della lotta di classe avvenga su prospettive rivoluzionarie, le uniche che possono evitare una terza carneficina.

(1) Tutte le citazioni sono prese dal libro III cap.15 Capitale Ed. Riuniti.

(2) "Gli U.S.A e la crisi mondiale del Capitalismo" di J. Kolko - Einaudi.