1956: Rivolte di classe in Polonia e Ungheria

I1 1986 è anno di ricorrenze, di ricordi, tristi ma ricchi di insegnamenti per il proletariato: è il cinquantenario dell'inizio della guerra civile spagnola, è il trentennale dei moti di Polonia e di Ungheria. Volendo ben vedere è anche il trentennale di un altro avvenimento di grande portata nella storia del secondo dopoguerra, quale la crisi di Suez. Al cinquantennale della guerra civile spagnola il Partito ha dedicato relazioni e dibattiti nella sede di Milano e la pagine interne di Battaglia Comunista n. 12. Ai fatti di Polonia e di Ungheria dedichiamo queste pagine della rivista. È una necessità quella che ci spinge a ricordare quei giorni di ottobre e novembre 1956: la necessità di replicare e combattere i fumi della storiografia borghese e socialdemocratica che vuol vedere in quegli avvenimenti solo un episodio dell'eterno scontro fra libertà e assolutismo o, tuttalpiù, un episodio del confronto Est/Ovest, nella perdurante concezione storiografica che ignora la classe.

Riteniamo utile, in questo senso, ripubblicare gli articoli e le prese di posizione che il nostro partito dedicò in quel tempo agli avvenimenti dando le opportune repliche alle analisi che ne facevano borghesi e stalinisti.

Prima di dare la parola ai compagni che scrivevano nel 1956, riteniamo opportuno tracciare un sintetico quadro dei fatti sui quali essi scrivevano, ma che non avevano esposto perché allora sotto gli occhi di tutti i lettori.

Lo sfondo

Alla fine della II guerra mondiale, l'Armata Rossa occupava militarmente i paesi dell'Est europeo dove aveva battuto le truppe tedesche. Tutti presentano una struttura economica arretrata rispetto al resto dei paesi europei: enorme prevalenza della popolazione agricola in una agricoltura arretrata (larghissime proprietà fondiarie e bassa produttività), scarsa presenza industriale a prevalenza di capitale straniero, larga presenza dell'artigianato e della piccolissima produzione.

In Ungheria, dove un certo processo di industrializzazione si era avuto fra le due guerre, il II conflitto aveva causato danni e distruzioni enormi, aggravati poi dallo smantellamento e dalla asportazione di molte preziose attrezzature da parte dell'esercito di occupazione sovietico.

La situazione può essere sintetizzata dai seguenti dati: un quarto delle aziende industriali lavorava a percentuali bassissime delle possibilità, per mancanza di combustibili e di materie prime; in agricoltura (e nel 1946) la produzione superò di pochissimo la metà della produzione prebellica, nonostante l'enorme sforzo dei piccoli proprietari che avevano seminato il 95% della superficie coltivabile.

Nel dicembre 1944, il governo provvisorio costituitosi a Debrecen aveva operato una prima grande riforma agraria che sconvolgeva i precedenti assetti della proprietà terriera, per 1/3 concentrata nelle mani delle grandi famiglie che avevano avuto nel dittatore filo-nazista Horty la loro rappresentanza al vertice dello Stato. Le proprietà superiori ai 54 ettari furono spartite fra 600 mila famiglie di contadini poveri e braccianti agricoli, che fino ad allora avevano costituito la metà circa della popolazione. Di fatto, la spartizione era però avvenuta su iniziativa diretta dei contadini organizzati in comitati locali indipendentemente dalla direzione centrale. Ciò ave-va portato ad una eccessiva frammentazione degli appezzamenti che si farà immediatamente sentire con l'insufficiente sostentamento delle famiglie proprietarie.

Sotto la pressante influenza sovietica, resa ufficiale dagli accordi di Potsdam che avevano stabilito, fra l'altro che tutte le industrie di proprietà tedesche in Ungheria dovessero passare all'Unione Sovietica, si avviò subito la nazionalizzazione dell'industria pesante, salvo in quei settori (come l'estrazione della bauxite e quella del petrolio) dove i sovietici si erano assicurati in pratica il monopolio attraverso la creazione di parodie di società miste sovietico-ungheresi.

L'URSS aveva imposto subito (1945) pesantissime riparazioni belliche che essa aveva reso ancor più pesanti dagli accordi secondo cui:

  1. erano i sovietici a stabilire i prezzi all'importazione e all'esportazione cosicché facevano pagare al di sopra del prezzo del mercato occidentale le materie prime che gli ungheresi lavoravano per riesportarne i prodotti a prezzi più bassi del normale;
  2. avevano accesso privilegiato alle materie prime che iniziavano ad arrivare dall'URSS quelle aziende che producevano per conto delle riparazioni di guerra.

In una parola, con gli accordi di Potsdam e con l'accordo commerciale sovietico-ungherese del 1945, l'URSS iniziava da subito l'opera di salasso nei confronti dei paesi che sarebbero presto diventati anche formalmente suoi satelliti. Nel 1946 il 65 % della produzione ungherese fu consacrato alle "riparazioni" all'URSS, nel 1947 queste pesavano ancora sul 18% del bilancio nazionale!

Formalmente, sulla scena politica dal 1945 al 1948, fu alla ribalta non il PC ma il Fronte Popolare dei partiti comunista, socialdemocratico, nazionale dei contadini e quello dei piccoli proprietari, la solita grande coalizione di destre e sinistre borghesi che si rende necessaria un po' ovunque per la ricostruzione postbellica. Nelle elezioni di fine 1945 il PC aveva raccolto solo il 15% dei voti.

Ma la borghesia di tipo "classico", occidentale, era debole e in parte fuggita all'estero: decenni di vita facile, sotto il regime di Horty, l'avevano resa inetta alle battaglie politiche di tipo parlamentare. Gli stessi suoi rappresentanti nella coalizione (partito dei piccoli proprietari e una frazione del partito nazionale dei contadini) erano privi di programmi precisi e articolati. Gli altri partiti piccolo borghesi erano di fatto in preda a lotte di fazione, crisi politico-ideologiche e incapaci di rappresentare un ostacolo alla ascesa del PC, facilitato enormemente, per non dire in modo determinante, dall'appoggio sovietico.

Le elezioni del 1945 diedero la maggioranza (57% dei voti!) al partito dei piccoli proprietari, unica rappresentanza di destra ammessa alla elezioni dal comandante delle forze di occupazione sovietiche Voroscilov che aveva anche imposto a priori, indipendentemente da quello che sarebbe stato il risultato delle elezioni, la continuazione del governo di Fronte Popolare, sul modello del governo provvisorio costituitosi nel dicembre del 1944 a Debrecen. Così i comunisti erano riusciti a riservarsi il ministero degli interni affidato a Icore Nagy e dal marzo del 1946 a Laszlo Rajk, che avevano subito organizzato il loro "stato nello stato" con la polizia politica sul modello dell'NKVD sovietico.

È ancora sotto la decisiva influenza sovietica che nel gennaio del 1948, il CE del partito socialdemocratico espulse le sue ali destra e centrista, inclusi la vicepresidente dell'Assemblea Nazionale Anna Kethly e il ministro dell'industria Antal Ban, e decise di fondersi con il PC.

La stessa fusione, in tempi leggermente diversi, accadde d'altronde anche in Polonia, in Romania e in Cecoslovacchia.

Tale fusione dava al PC la maggioranza nel governo, che gli consentì di rafforzare la propria presenza nello Stato sino a monopolizzarlo di fatto.

Nel 1949 fu varata la nuova costituzione, fondata quasi letteralmente su quella staliniana.

In una prima fase l'ascesa del PC era stata sostenuta dall'appoggio di fatto delle masse proletarie e contadine che spingevano nel senso di un cambiamento radicale come appariva essere quello delle nazionalizzazioni delle industrie e delle banche, della campagna anticlericale, della distribuzione delle terre. Ma già nel 1949 molte illusioni cominciavano a crollare.

Già nell'agosto del 1947 era stato varato il primo piano triennale di investimenti e di produzione, accompagnato dalla nazionalizzazione di tutte le imprese commerciali e industriali con più di 100 dipendenti.

La sua messa in atto vide subito il ristabilirsi di ferree gerarchie fra operai e dirigenza quale era già stato conosciuto sotto il regime fascista di Horty. Questa volta la direzione stava passando ai membri del PC, che nel frattempo crescevano con l'ingresso di approfittatore e affaristi di provenienza da altri partiti.

E il proletariato? Il proletariato, dopo la sconfitta del tentativo rivoluzionario con il partito di Bela Kun, non si era più risollevato, La sconfitta militare di Bela Kun aveva enormemente facilitato lo spostamento a destra prima e la completa stalinizzazione poi del suo partito, mentre il regime aveva provveduto a mantenerlo in condizioni economiche gravissime. Prevalentemente costituito dal bracciantato agricolo, al momento della "liberazione", privo come era del suo strumento politico, privo di qualsiasi riferimento al suo programma storico al proprio interno, si presentava disarmato quale vittima sacrificale agli altari della ricostruzione capitalista. Qualunque cambiamento che gli potesse dare l'illusione di un miglioramento di condizioni era ben accettato, tanto più se presentato nel nome glorioso del socialismo. La componente agricola fu momentaneamente ipnotizzata dalla distribuzione delle terre. Aumenti (anche se non rilevanti) dei salari industriali addormentarono anche il proletariato industriale. La cloroformizzazione della classe era sufficiente perché questa costituisse la base di ascesa del PC, dando appunto al PC quel sostegno politico e soprattutto elettorale di cui si valse per il suo definitivo assestamento al potere. Non uno degli organi proletari propri del movimento rivoluzionario e socialista della classe era sorto (né tantomeno era stato caldeggiato dalle forze politiche in campo). Quelli che commentatori socialdemocratici più tardi vollero vedere come organi di democrazia diretta sorti a cavallo fra il 1944 e il 1945 (quali i comitati locali per la distribuzione delle terre, i comitati di liberazione, ecc.) erano tutt'altra cosa dei consigli operai che avevano conosciuto la rivoluzione russa, quella tedesca e che conoscerà l'ottobre ungherese del 1956. Erano le strutture locali del Fronte Popolare fra i partiti realizzato al vertice di questi, e fu questa loro caratteristica a far sì che i comitati si sciogliessero come neve al sole non appena il governo centrale poté materialmente (logisticamente) riprendere il controllo amministrativo su tutto il territorio. Non altrettanto sarebbe accaduto se quei comitati fossero stati l'espressione dell'organizzazione diretta e dal basso del proletariato agricolo e industriale, se fossero stati il prodotto, cioè, dell'ingresso della classe come protagonista della propria storia, e quindi portatori delle sue istanze immediate e storiche.

Qualcosa di simile era già accaduto in Spagna, all'alba della guerra civile, anche se in terra iberica la tragedia del proletariato fu ingigantita proprio dalla sua combattività e dal suo impegno diretto in quei comitati che le organizzazioni gli avevano offerto (v. BC 12/1986).

Il disastro ideologico nella classe era completato anche in Ungheria: l'illusione che socialismo fosse la conquista più o meno pacifica del potere da parte del partito che si diceva di classe, da parte del partito comunista, - indipendentemente dalla mobilitazione rivoluzionaria della classe nei suoi organismi di lotta prima e di potere poi - trionfava.

Ma cosa ha significato in realtà per il proletariato e per il contadiname la vittoria del PC e l'ingresso del paese nell'orbita sovietica?

Come era naturale che fosse, il modello sovietico doveva essere seguito anche e soprattutto nella "pianificazione" economica: industrializzazione forzata, collettivizzazione delle terre, aumento della produzione e della produttività furono da subito gli imperativi fatti valere dal PC.

La via era obbligata, oltre che dal vassallaggio ideologico politico del PC allo stalinismo sovietico, dalle impellenti necessità economiche dettate dal vassallaggio economico e commerciale che l'URSS aveva già imposto, all'Ungheria come a tutti gli altri paesi conquistati.

Le acciaierie lavoravano la materia prima di provenienza sovietica col carbone di provenienza sovietica, a costi elevatissimi, per rivendere acciaio ai sovietici a prezzi stracciati: è l'esempio sintomatico di una situazione complessiva.

Industrializzazione forzata particolarmente nell'industria pesante, collettivizzazione delle terre (subito spinta prima ancora che gli ex-operai agricoli divenuti piccoli proprietari si fossero resi conto della sua "opportunità") avevano altissimi costi per il proletariato tutto.

Lo standard di vita conosciuto sotto Horty, continuava di fatto, come continuava la dittatura dei capi per alzare i ritmi e gli orari di lavoro senza corrispondenti aumenti salariali. Stachanovismo, straordinari comunisti e tutte le dolcezze dell' organizzazioni sovietica del lavoro, venivano ora imposti da una dittatura altrettanto spietata di quella precedente. E più lo sfruttamento si faceva più pesante, più dura diventava la dittatura politica e più capillare il controllo inquisitorio dei torturatori della polizia di sicurezza.

Queste sono le caratteristiche che segnarono il decennio preparatorio dell'ottobre 1956.

Nel febbraio del 1956 (14-22) il PCUS tiene il suo XX Congresso: è il congresso della destalinizzazione.

Ravvedimento dei dirigenti sovietici rispetto agli "errori" e agli "eccessi" dello stalinismo, per un ritorno ai principi e alla prassi di uno stato operaio e socialista? No, affatto. Gli errori sono quelli di una politica economica ormai non più attuale; gli eccessi sono la politica fedelmente seguita da quegli stessi che ora li criticano; e che era resa necessaria da quegli errori; i principi e la prassi dello stato operaio rimangono nel bidone dei rifiuti in cui la controrivoluzione attuata sotto i baffi di Stalin li aveva gettati.

Il XX Congresso doveva sancire in realtà una nuova era, nella storia del capitalismo di Stato nell'impero sovietico: i piani economici dovevano essere riveduti nel senso di una diminuzione degli investimenti nell'industria pesante e una nuova attenzione doveva essere data all'agricoltura. Lo sforzo della prima grande industrializzazione era concluso e con esso doveva in qualche modo finire il regime di terrore politico che l'aveva consentito. Aumento dei consumi, aumento della circolazione monetaria e di merci, dovevano significare anche maggiore rilassatezza della vita civile. nella competizione internazionale con l'occidente l'URSS non poteva rimanere nelle condizioni precedenti.

Il XX Congresso ebbe questo significato.

Ma una nuova era, analoga era stata inaugurata da Imre Nagy in Ungheria già a partire dal 1953. Succedendo a Rakosi alla carica di Primo Ministro, dopo la caduta del suo piano quinquennale, Nagy aveva varato un altro piano in cui veniva esplicitamente sostenuto che dovevano essere sostenute le piccole imprese indipendenti anche fuori dal settore agricolo, si rinunciava all'ampliamento delle grandi acciaierie di Dunapentele, si sospendevano i finanziamenti all'industria pesante, veniva a cessare l'obbligo della cooperazione agricola. Il governo di Nagy inoltre aveva fortemente ridimensionato i compiti e le attività dell'AVO (la polizia politica) sciolto i campi di lavoro ed eliminati molti strumenti del terrore in fabbrica. Un po' d'aria per respirare, per la classe operaia ungherese.

Ma nel 1955 il cambio dei piani economici sovietici indusse una grave crisi industriale ed occupazionale. Nel marzo del 1955 la riunione di direzione del partito, a capo del quale era rimasto Rakosi, rimise quest'ultimo in sella.

Al proletariato questo apparve come un ritorno dello stalinismo, che si illudeva Nagy avesse per sempre eliminato. Il nuovo piano non differiva di molto da quello di Nagy, ma la sua provenienza faceva più chiaramente intendere la sua sostanza antioperaia.

Il XX Congresso, legittimò l'aspirazione delle masse a liquidare lo stalinismo fino in fondo. Ma è questo che i novelli anti-stalinisti di Mosca non potevano e non volevano consentire.

Le cronache

28 luglio

Poznam (Polonia). Gli operai delle officine Stalin, entrano in sciopero, tengono un'assemblea gigante, chiamano gli operai delle altre imprese e dopo aver sfilato scandendo "è la nostra rivoluzione. Pane, libertà, democrazia, abbasso i bonzi", attaccano la prigione e gli uffici della polizia di sicurezza. Non si sono accontentati della defenestrazione di qualche dirigente in omaggio alla destalinizzazione orchestrata da Mosca e avanzano le loro proprie rivendicazioni. Pane, perché il regime di capitalismo di Stato glielo negava; libertà e democrazia perché la loro negazione era l'aspetto più evidente dell'oppressione stalinista.

Troppo poco per parlare di rivoluzione di classe? Sì, ma abbastanza per parlare di rivolta della classe che può trascrescere. Libertà e democrazia per il proletariato, autorganizzazione del proletariato per la amministrazione del potere e dell'economia: questo sarebbe stato necessario per la rivoluzione. Ma questo è il prodotto di una crescita politica che può anche essere rapidissima, se all'interno del proletariato è attiva la sua parte politicamente più cosciente e organizzata, il partito. Le condizioni di partenza per la crescita c'erano, mancava lo strumento politico. Ma il proletariato era insorto sul suo proprio terreno autonomo. Il regime grida alla provocazione occidentale, tenta di gabellare l'episodio come l'azione disperata di una minoranza al soldo degli stranieri americani, ma è evidentemente un falso.

La campagna di destalinizzazione era stata fatta a Poznam in contemporanea con un ordine di aumento dei ritmi di lavoro e, per gli operai delle officine Stalin con una riduzione del 30% dei salari.

La repressione è durissima: gli operai devono affrontare i carri armati, inviatigli contro dal regime. Bastone e carota è la politica.

Contemporaneamente alla durissima repressione il governo annuncia che le richieste più immediate degli operai delle officine Stalin sono soddisfatte e promette che il processo di destalinizzazione andrà avanti.

Repressa nel sangue la rivolta si arresta, ma l'effervescenza continua. Da luglio a ottobre gli operai e molta parte della gioventù rimane sul piede di guerra.

A ottobre arriverà a Varsavia Krusciov, con 14 generali. C'è il timore di un colpo di forza dei sovietici. Ma i sovietici hanno capito che il partito polacco - che nel frattempo si è "epurato" richiamando al vertice Gomulka che era stato espulso dal partito nel 1949, perché titoista e opportunamente "riassunto" il 4 agosto - è ancora in grado di controllare la situazione e riportare l'ordine.

L'eroismo e la mobilitazione operaia non sono bastati a rompere la gabbia del regime di capitalismo di Stato. Ma sono state il primo segnale che veniva al proletariato europeo dalle "patrie del socialismo"; hanno costituito il primo grave colpo alla credibilità del "socialismo" alla sovietica. Avanguardie europee dovevano iniziare a trarre le lezioni. È quello che argomentavano i compagni nel 1956, sugli articoli che riportiamo.

23 ottobre

Budapest. Il circolo Petöfi ha indetto una manifestazione in solidarietà con i polacchi. Il governo l'aveva vietata, poi, all'ultimo momento, autorizzata. Masse di operai e di impiegati lasciano le officine e gli uffici e raggiungono gli intellettuali e gli studenti che avevano indetto la manifestazione. Inizialmente tutto fila liscio. Sembra che in sostanza, a Budapest ci si limiti a chiedere la riabilitazione di Nagy, a suo tempo (1955) defenestrato e lasciato fuori anche dopo il XX Congresso, a favore della cricca stalinista. I sovietici, in nome della sacra unità del partito, non se la sono sentita di eliminare tutto il gruppo di Rakosi, Geroe e Co. La cosa è vista dalle masse ancora generiche di Budapest come un atto di pervicacia stalinista. Nagy aveva rappresentato il "nuovo corso" destalinizzato ante-litteram. Sembrava dunque che il richiamo di Nagy potesse fermare il movimento. L'operazione era già riuscita a Varsavia. Ma Geroe attacca i dimostranti come provocatori. E i dimostranti contrattaccano. Una colonna di manifestanti si dirige sulla radio e cerca di penetrarvi. La polizia di sicurezza spara sulla folla, cadono i primi morti.

Nella notte gli scontri continuano, ma sono i soldati dalle caserme a fornire le armi agli operai, tramite gli operai degli arsenali.

E sono gli operai, anche a Budapest, la forza portante della lotta. A tarda sera Geroe ha annunciato il richiamo di Nagy al governo. Ma gli scontri continuano: segno evidente che non ci si accontenta più di un cambio di uomini. Gli operai ormai avanzavano le loro rivendicazioni e continuando la lotta si trascinavano dietro anche quegli intellettuali che solo a Nagy avevano pensato. Gli operai non volevano più le cadenze di produzione imposte dal governo; non volevano più ordini del partito e del sindacato, agenti dello Stato tali e quali i direttori d'impresa; volevano il diritto di sciopero che il regime aveva sempre negato (virtù del socialismo reale!) e volevano il ritiro delle truppe sovietiche di occupazione.

24 ottobre

Budapest. Davanti al parlamento si svolge una vera battaglia, fra gli operai e i giovani, che hanno

avuto le armi dai soldati, da una parte, le forze di sicurezza e le truppe sovietiche armate di carri armati dall'altra. Radio Budapest annuncia che è intervenuta anche l'aviazione sovietica. Gli operai delle officine Cespel formano l'avanguardia della lotta e costituiscono lo stato maggiore dell'insurrezione, che dichiara lo sciopero generale.

In serata la radio ufficiale chiama gli operai a riprendere il lavoro l'indomani mattina, nel mentre stesso che annuncia che disordini si sono verificati in molte industrie in provincia.

Resto del paese. In effetti a Miskolc, a Gyoer, a Szeged e in altri centri minori, gli operai scendono in lotta appena hanno notizia degli scontri di Budapest. Ovunque si formano consigli e comitati operai. È la grande novità che offre il proletariato ungherese. L'esempio di Miskolc è significativo. Qui tutti gli operai delle officine eleggono un consiglio che indice immediatamente lo sciopero generale, salvo che nei settori dell'elettricità, dei trasporti e degli ospedali e manda immediatamente una delegazione a Budapest, per collegarsi con gli operai della capitale. Pubblica anche un programma in 4 punti:

  • ritiro immediato delle truppe sovietiche;
  • formazione di un nuovo governo;
  • riconoscimento del diritto di sciopero;
  • amnistia generale per gli insorti.

Intellettuali e studenti hanno lanciato un iniziativa il giorno prima; oggi è già tutta in mano agli operai, organizzati nei consigli.

La radio ufficiale invita ancora gli operai a tornare al lavoro: è segno che lo sciopero generale dura ancora; nonostante Nagy sia di nuovo capo del governo.

25 ottobre

A Miskolc, la radio in mano al consiglio operaio è già ascoltata nell'intero paese. In un comunicato il consiglio di dichiara di essere per:

un governo ove siano installati dei comunisti devoti al principio dell'internazionalismo proletario, che sia prima di tutto ungherese e che rispetti le nostre tradizioni nazionali e il nostro passato millenario.

Paradossale l'internazionalismo frammisto al nazionalismo? No, se si considerala portata di quel nazionalismo. Esso era rivolto contro i sovietici, che sino ad allora (e per quanto ancora! visto che dura tutt'oggi) avevano dominato i fatti della politica d'Ungheria e della sua economia, per succhiarne ogni linfa vitale. Nel momento in cui la rivolta esplode i suoi atti politici sono necessariamente confusi, inadeguati all'ipotesi rivoluzionaria, ma mai privi di senso. Ancora una volta, si trattava di sviluppare il senso internazionalista di quella posizione, chiamando gli operai degli altri paesi alla medesima rivolta contro lo Stato su un programma genuinamente comunista. Questo sarebbe stato sufficiente a superare i rischi contenuti in quel richiamo alle "tradizioni millenarie". Ma il proletariato era anche in Ungheria politicamente e teoricamente disarmato. Avrebbe avuto buon gioco chi fosse riuscito a porre l'accento sul contenuto nazionalistico: o i borghesi-burocrati ungheresi per una soluzione pacifica di compromesso o i sovietici per una denuncia al mondo del nazionalismo reazionario che giustificasse l'intervento dell'esercito agli occhi dei proletari degli altri paesi. In questo senso, furono alla fine i sovietici a vincere, anche in quel modo. Ma era nella natura delle cose e del loro movimento che dagli operai ungheresi del 24 ottobre 1956 venissero quelle dichiarazioni; esse erano d'altronde sufficienti a marcare come potentemente eversivo il movimento in atto.

D'altra parte gli operai di Myskolc non si accontentano delle promesse di Nagy che il giorno prima, insieme a Kadar, aveva annunciato per radio che avrebbe richiesto la partenza dei sovietici. Né sono d'accordo con le iniziative del leader nazionalista che chiama al governo esponenti del partito reazionario dei piccoli proprietari. Eppure Kovacs e Tildy, i "piccoli proprietari" richiamati da Nagy, erano buoni rappresentanti dell'odio nazionalista anti-sovietico, visto che Kovacs era stato imprigionato dai sovietici per "spionaggio" e che Tildy era stato presidente della repubblica subito dopo la guerra! In un comunicato straordinario del 27, il consiglio di Myskolc dirà infatti che ha:

preso in mano il potere in tutta la contea di Borsod. Condanna severamente tutti coloro i quali qualificano la nostra lotta come lotta contro la volontà e il potere del popolo.

E aggiunge:

Noi abbiamo fiducia in Imre Nagy ma non siamo daccordo con la composizione del suo governo. Tutti questi politicanti che si sono venduti ai sovietici non devono avere posto nel governo. Pace, libertà, indipendenza.

Lo sciopero generale continua. Le misure di Nagy possono aver soddisfatto i piccoli borghesi di Budapest e una parte del contadiname, ma non gli operai, né di Budapest né delle altre città.

In questo stesso giorno infatti un operaio delle officine Csepel della capitale dichiara sul giornale della gioventù comunista:

Fino ad ora non abbiamo fatto parola. Abbiamo imparato, in questi tempi tragici ad essere silenziosi e ad avanzare a passi di lupo. Ma state tranquilli, parleremo anche noi.

Avevano dunque altre cose in testa: per esempio l'autogestione operaia.

26 ottobre

I diversi Consigli Operai, hanno emesso tali e tante dichiarazioni che i sindacati ungheresi, sotto pressione della base, non possono fare a meno di pubblicare a tre giorni dalla insurrezione una dichiarazione con contenuti che riportiamo per esteso.

Sul piano politico i sindacati chiedono:

  • la cessazione della lotta, la concessione di una amnistia e l'inizio di negoziati anche con i delegati della gioventù;
  • che si costituisca un governo allargato, con Nagy presidente, che comprenda rappresentanti dei sindacati e della gioventù; che la situazione economica del paese sia esposta con franchezza;
  • che venga accordato un aiuto alle persone ferite nei tragici scontri che si sono verificati e che lo stesso aiuto sia esteso alle famiglie delle vittime;
  • che la polizia e l'esercito vengano rinforzati per il mantenimento dell'ordine con una guardia nazionale composta di operai e giovani;
  • che si costituisca una organizzazione della gioventù operaia con l'appoggio dei sindacati;
  • che il nuovo governo avvii subito delle trattative per il ritiro delle truppe sovietiche dal territorio ungherese.

Sul piano economico i sindacati chiedono:

  • la costituzione di consigli operai in tutte le officine;
  • l'instaurazione di una direzione operaia;
  • la trasformazione radicale del sistema di pianificazione e di direzione economica esercitata dallo Stato;
  • revisione dei salari, aumento immediato del 15% dei salari inferiori agli 800 fiorini e del 10% per i salari inferiori ai 1500 fiorini
  • fissazione di un minimo salariale di 3500 fiorini mensili;
  • soppressione delle norme di produzione, salvo nelle officine in cui i consigli operai ne chiedano il mantenimento;
  • soppressione dell'imposta del 4% sui celibi e sulle famiglie senza figli;
  • aumento delle pensioni più deboli;
  • aumento degli assegni familiari;
  • accelerazione della costruzione di alloggi da parte dello Stato;
  • che sia mantenuta la promessa fatta da Nagy di avviare trattative col governo dell'URSS e degli altri paesi al fine di stabilire relazioni economiche sulla base del vantaggio reciproco e del principio di uguaglianza.

A conclusione del documento è detto che i sindacati ungheresi devono tornare a funzionare come nel 1948 e dovranno cambiare la propria denominazione e chiamarsi "sindacati liberi ungheresi".

È un tipico esempio del comportamento dei sindacati in situazioni insurrezionali: da una parte, riflette le spinte della base nel senso che è portato dalla forza delle cose ad assumere nei suoi "programmi" e documenti le rivendicazioni più immediate che vengono dalla base e che si sono già espresse (senza e prima di loro), dall'altra ripropongono in forma più o meno nuova il contenuto congenitamente riformista, compromissorio con il capitale ed il regime che lo esprime, in una parola controrivoluzionario del sindacato stesso. Si consideri, per esempio, la parte del documento relativo alle rivendicazioni salariali. Esse risultano sostanzialmente sconvolgenti rispetto alla norma sino ad allora seguita. Lo stalinismo, così come qualunque regime capitalistico, tende alla differenziazione salariale (in URSS le paghe nell'ambito dell'industria dall'operaio salariale al direttore erano differenziate su tutto il ventaglio compreso fra 100 e 2000) con la tendenza a lasciare la maggioranza dei lavoratori nelle fasce salariali più basse. Le rivendicazioni espresse nel documento sindacale del 26 ottobre tendono nell'immediato:

  1. a perequare i salari riducendo fortemente il ventaglio;
  2. a svolgere tale operazione con l'innalzamento immediato dei salari più bassi tenendo fermi quelli più alti.

Qui non è il sindacato, che parla, ma la spinta che il sindacato subisce. Torniamo a sottolineare che il documento sindacale segue l'espressione di decine di comunicati della base organizzata nei consigli di fabbrica. Perché il sindacato nega tutta la sua politica precedente, che è stata evidentemente di accettazione dei criteri e delle norme imposte dall'alto e di complicità diretta nel farle rispettare, per assumere le rivendicazioni operaie? È fuori di dubbio e di discussione che la ragione sta nella necessità di recuperare credibilità presso la base operaia, per meglio controllarla.

Al controllo e al contenimento della classe operaia, nel suo moto ascensivo di lotta contro il capitale, è dedicata praticamente tutta la parte politica del documento che esprime la linea del sindacato in quel momento. Anche qui alcune concessioni all'autorganizzazione proletaria è gioco forza farle, per il sindacato.

Di qui la paradossale richiesta di un affiancamento all'esercito di una guardia nazionale fatta di quegli stessi operai ora in armi contro i sovietici, ma anche contro il regime. Tutto il resto, compreso il mantenimento di polizia ed esercito, rientrano in una linea che si pone nella prospettiva della stabilizzazione senza alcuna rivoluzione. Che senso ha infatti, se non questo, la richiesta di una stabilizzazione nei o con i sindacati di "una organizzazione della gioventù", quando i giovani sono già organizzati nelle scuole, in circoli culturali e politici e danno prova di una capacità di azione militare che presuppone già l'esistenza di una organizzazione di base? Quale senso, cioè, se non quello di sottoporre i giovani al controllo delle medesima istituzioni contro cui si stanno battendo eroicamente, naturalmente tramite la mediazione del sindacato? Allargamento del governo? È ritocco del regime per la sua stabilità sostanziale. Chiedono che la lotta cessi; ma il governo e lo Stato restano intatti. Questo significa chiedere agli operai e ai giovani di cedere le armi, visto che Nagy è già il governo e gli si chiede solo di allargarlo.

Nel primo pomeriggio di questo venerdì 26 ottobre torna a infuriare la battaglia di strada contro i carri armati sovietici. Il governo, che ritiene di aver già fatto delle concessioni sufficienti a che i consigli, i quali hanno espresso fiducia in Nagy, obbediscano, lancia un ultimatum: che le armi vengano deposte entro le 10 di sera. Ma, il 27 ottobre di prima mattina riprendono i combattimenti. La radio ufficiale dichiara che quelli che continuano a combattere sono dei "banditi" e saranno trattati come tali. Ancora a fianco delle truppe sovietiche si trovano le forze di sicurezza del regime ungherese. Nella notte fra sabato 27 e domenica 28 gli insorti danno l'assalto alla prigione di Budapest e vengono uccisi i due Farkas, capi della polizia del governo ultrastalinista di Rakosi.

28 ottobre

È domenica. I consigli rivoluzionari di provincia si sono moltiplicati, ma di essi fanno parte diversi strati della popolazione. Il proletariato è una componente che tende a caratterizzarsi, di questo movimento, ma non ne ha la guida. Casualità storica? No; la situazione resta confusa perché il proletariato non ha gli strumenti per portare a fondo questa sua tendenza esistente alla caratterizzazione di classe e quindi alla direzione sociale: non ha il suo partito, né - cosa ancor più gravemente importante - non ha mantenuto memoria storica delle sue passate esperienze. La controrivoluzione stalinista, a partire dalla metà degli anni 1920, ha sradicato completamente il programma di classe - dalla sua articolazione teorico-programmatica sin fino alle più elementari nozioni - dalle coscienze e dalla memoria dei proletari e delle loro avanguardie di lotta. È così che si rende possibile la situazione in cui mentre per tutta fa domenica continuano i combattimenti di strada, il governo, impressionato dall'estensione della lotta a tutti gli strati di popolazione civile, accetta la trattativa con rappresentanze della gioventù studentesca e pattuisce con queste un armistizio. Ma, nonostante l'armistizio, la battaglia, appunto continua a infuriare. Evidentemente l'annuncio dell'armistizio non produce effetti. Così il governo fra le 13 e le 14 annuncia l'ordine alle sue forze armate di cessare il fuoco.

Alle 15 Radio Budapest (ufficiale) dichiara:

Presto i combattimenti cesseranno. Le armi tacciono. La città è silenziosa. Silenzio di morte. Conviene riflettere sui motivi di questi atroci ammazzamenti, le cui vere cause sono lo stalinismo e la demenza sanguinaria di Rakosi.

Alle 16.30 lo stesso Nagy dichiara che le truppe sovietiche si ritireranno "immediatamente".

Ma i sovietici non escono da Budapest e invece di andarsene attaccano.

29 ottobre

I combattimenti continuano. I sovietici dicono di aspettare ad andarsene che gli insorti depongano le armi. I consigli di Gyor e di Miskolc incitano a non cedere e rifiutare l'invito. I sovietici dicono che usciranno in serata, e di fatto escono dalla città. Ma si concentrano a una certa distanza in attesa dei rinforzi.

Nel clima di effervescenza e di confusione tipico di ogni momento insurrezionale, si sono ricostituiti i vecchi partiti. Nagy si prepara ad allargare il governo a queste forze. Il proletariato resta nella condizione di prima: esprime le sue rivendicazioni di classe immediate, è ara testa dei combattimenti di strada, ma non riesce ad esprimere il suo autonomo programma politico. Anche ne: consigli di provincia, originariamente solo operai, ma ora aperti alle altre componenti sociali, iniziano a echeggiare con peso crescente le rivendicazioni democratiche e nazionaliste. Il Consiglio di Gyor pubblica un programma che viene sottoposto ai consigli di Pecs, Debrecen, Szekesfehevar, Nyregyaza, Solnok, Magyarovar, e altre città di provincia in cui si legge:

Noi esigiamo dal governo:
1. l'edificazione di un'Ungheria libera, sovrana, indipendente, democratica e socialista;
2. la legge istitutiva di elezioni libere a suffragio universale;
3. la partenza immediata delle truppe sovietiche;
4. l'elaborazione di una nuova costituzione;
5. l'abolizione della AVH (polizia politica). Il governo non dovrà appoggiarsi che su due forze armate: l'esercito nazionale e la polizia ordinaria;
6. amnistia totale per tutti quelli che hanno preso le armi e messa in stato di accusa di Ernoe Geroe e dei suoi complici;
7. elezioni libere entro due mesi con la partecipazione di più partiti.

È evidente il passo indietro anche solo rispetto alle ri- chieste del sindacato di tre giorni prima. In quelle si chiedeva l'estensione del governo alle forze sindacali e alle rappresentanze della gioventù rivoluzionaria. In queste si apre ai partiti borghesi risorti, compreso quello scopertamente reazionario dei "piccoli proprietari". Là si chiedeva il rinforzo di polizia ed esercito con milizie operaie e studentesche; ora ciò è sparito a vantaggio di un semplice mantenimento di esercito e polizia.

E ancora, là - anche se strumentalmente - si faceva un seppur minimo riferimento ai consigli operai che erano il dato realmente esistente; qui il governo dello Stato è affidato semplicemente alle forze elettoralmente vincenti in una elezione democratico-borghese. I sindacati, il 26, avevano avanzato richieste di politica economica precisa, quali la "radicale trasformazione del sistema di pianificazione", il consiglio di Gyor chiede rincula sulla richiesta generica, ma borghesissima, di una Ungheria "libera, sovrana, indipendente, democratica e ...socialista" (che non c'entra niente).

I consigli indietro rispetto ai sindacati? Sì e no. Sì perché nella forma le richieste sono di un ritorno all'indietro; no perché il consiglio è ancora (e lo sarà per poco) espressione diretta di quanto in esso si muove: è espressione... della base.

Chi mitizza i consigli, per contrapporli al partito, ha di che riflettere. Il consiglio è diventato ora l'espressione diretta della società civile indifferenziata, dal punto di vista di classe (lo abbiamo visto aprirsi alle altre stratificazioni sociali). Lo è diventato, essendo nato però come espressione organizzativa della mobilitazione operaia.

Ciò significa che lasciandosi penetrare da altre classi si è snaturato; ciò significa che il proletariato non aveva la forza di trascinare sul suo terreno programmatico le altre stratificazioni. Ha allargato le sue organizzazioni ad altri, senza averle prima caratterizzate per sé, perché non aveva in sé il programma, la chiarezza di una linea su cui attestarsi e chiamare gli altri a schierarsi. Non aveva il partito.

Ancora una volta, leggendo i fatti, i consiliaristi appaiono come quelli che pretendono di contrapporre le condizioni e i reagenti di una serie di reazioni con l'innesco e la metodica delle reazioni stesse, e non capiscono che in nessun laboratorio è possibile che le reazioni avvengano senza uno, o l'altro o l'altro dei fattori.

Tutte le condizioni sono pronte per offrire a Nagy delle vie di uscita.

30 ottobre

Nagy annuncia la fine del regime di partito unico e il ritorno ad un governo di coalizione nazionale analogo a quello del 1946; crea un nuovo governo riservando ai comunisti solo due ministeri e spartendo gli altri fra socialdemocratici, partito contadino e partito dei piccoli proprietari; fonda il nuovo partito "socialista operaio"; enuncia un progetto di neutralità per l'Ungheria e di denuncia del patto di Varsavia; promette elezioni libere a suffragio universale.

Certamente l'accordo di vertice va incontro alle richieste del citato Consiglio di Miskolc, così come il programma enunciato da Nagy. Ma la mobilitazione e la lotta non si arrestano.

1 novembre

Grossi contingenti sovietici entrano, coi blindati, in Ungheria. Si tratta di truppe fresche, dell'interno sovietico, più protette dal rischio di solidarietà, che si era già espresso fra i soldati sovietici nei confronti dell'insurrezione ungherese.

Le forze frontalmente contrarie ad ogni forma di comunismo ("reale" o vero) iniziano a parlare più forte.

Alla base si teme sempre di più l'intervento sovietico. Diverse dichiarazioni di Consigli e organizzazioni giovanili, fra cui la Federazione della gioventù esprimono la ferma opposizione a qualsiasi tentativo di tornare indietro.

2 novembre

La Federazione della gioventù in un appello dichiara:

Noi non vogliamo il ritorno del fascismo dell'ammiraglio Horty. Non renderemo le terre ai grandi proprietari fondiari, né le fabbriche ai capitalisti.

La disposizione della base, in cui la forza operaia è nonostante tutto ancora quella prevalente, è tale per cui Tildy, leader del partito di piccoli proprietari, dichiara:

La riforma agraria è un fatto acquisito. Ben inteso i kolchoz spariranno, ma la terrà rimarrà dei contadini. Le banche, le miniere rimarranno nazionalizzate, le fabbriche rimarranno proprietà degli operai [sic!]. Noi non abbiamo fatto né una restaurazione, né una controrivoluzione, ma una rivoluzione.

È evidente la malafede. Ma Tildy è costretto a dire queste cose dalla realtà che si trova a "governare" con Nagy e altri compagni. Non ha tanto timore dei sovietici, quanto degli operai, che romperebbero subito l'armistizio di fatto raggiunto.

Lo sciopero generale continua, mentre la radio continua a supplicare gli operai di deporre le armi, che essi mantengono saldamente, e di tornare al lavoro. È ancora ai Consigli creati dagli operai che vanno le altre stratificazioni sociali, e i diversi partiti per farsi sentire alla base e far passare le loro tesi e indicazioni.

Abbiamo visto e detto che i Consigli rilanciano il prodotto del compromesso politico che al loro interno si realizza, che non è affatto rivoluzionario. Ma i Consigli rimangono pur sempre l'esperienza nuova, dirompente generata dalla iniziativa operaia. Nagy, mentre fa concessioni crescenti alla destra borghese, riconosce gli organismi autonomi della classe operaia. Costretto, ma li riconosce. Ed è qui il suo "tragico errore", nell'ottica del politico borghese (quale era anche lui). I sovietici utilizzeranno la scusa delle mene di destra, della controrivoluzione montante, del pericolo reazionario, per giustificare l'attacco definitivo e il massacro, ma in realtà temono molto di più i consigli operai. Ne temono il pericolo di contagio, anche se i consigli non hanno ancora un programma, non hanno ancora come referente una linea rivoluzionaria e un partito rivoluzionario.

Il governo di coalizione lo avevano ammesso, e avevano concesso le condizioni perché si formasse all'uscita dalla guerra; avevano già sperimentato con successo le vie per addomesticarlo alla propria politica. Perché avrebbero dovuto temerlo ancora? Perché intervenire con i blindati, se il pericolo vero non fosse stato un altro, e precisamente quello operaio? Attenzione: l'Ungheria del 1956 non era la Cecoslovacchia del 1968. Nei dodici anni che separano le due date sono venute maturando nuove condizioni e nuove tensioni all'interno dei blocchi imperialistici; il nazionalismo cecoslovacco non è il nazionalismo di forze sociali declinanti di fronte all'emergere di una borghesia rossa, di Stato e rampante. È invece il nazionalismo della borghesia di Stato cecoslovacca che osa sentirsi tanto forte e al contempo pressata dall'orso sovietico, da tentare di sfuggirgli. Non ci sono consigli operai nella Cecoslovacchia del 1968, ma i carri armati sovietici intervengono a stroncare velleità nazionaliste della borghesia di stato e della piccola borghesia praghese.

Nell'Ungheria del 1956, tutto questo non c'era ancora. Nagy, che a fine ottobre promette l'uscita dal Patto di Varsavia, costretto dalla mobilitazione proletaria e contadina, due anni prima, nel suo piano, non aveva minimamente contestato i rapporti con l'URSS. Nell'Ungheria del 1956 ci sono invece i consigli, c'è stata una mobilitazione autonoma del proletariato per avanzare rivendicazioni di classe contro uno Stato che si scopriva così per sfruttatore, agli occhi della classe operaia mondiale. Questo era intollerabile per il Cremlino.

Agli occhi dei sovietici ancora il 2 novembre, la situazione è aperta e in un certo senso lo è realmente. Lo stallo politico interno, fra governo e consigli, fra governo e insorti è aperto a due ipotesi di uscita:

  • la prima è che le continue concessioni del governo Nagy alle destre riaprano lo scontro militare fra governo e consigli operai, con la rischiosa possibilità di radicalizzazione nella quale non si può escludere una rinascita di avanguardie internazionaliste; comunque già la riapertura dello scontro diretto fra governo e operai, costituirebbe un esempio "impresentabile" al proletariato degli altri paesi, URSS compreso;
  • la seconda, molto meno probabile, è che le continue concessioni a destra riescano a passare, col rischio di uno spostamento reale dell'orientamento di politica internazionale dell'Ungheria, e conseguentemente il gravissimo rischio di ripercussioni in una congiuntura internazionale fortemente problematica (crisi di Suez, guerra fredda, ecc.).

Perché è meno probabile questa ipotesi? Perché le forze sociali cui fare concessioni a destra non sono quelle di una forte borghesia privata (ormai fuggita all'estero o risistemata nelle maglie del capitalismo di stato e quindi in subordine all'URSS). Sono tuttalpiù quelle del contadiname e della piccola borghesia urbana, insufficienti a rappresentare la forza portante di uno Stato che si voglia porre come protagonista della rottura di un-impero quale quello sovietico.

I sovietici possono e "devono" prendere l'iniziativa di uscita dalla situazione di stallo. E lo fanno con prontezza e rapidità.

4 novembre

I blindati sovietici attaccano. Come previsto, si trovano di fronte gli operai dei consigli, con tutta la rabbia, con tutta la forza e la capacità di eroismo di cui solo il proletariato è capace. È un massacro, ma la resistenza armata degli operai ai carri armati e alle sofisticate armi dei soldati sovietici va avanti per ben sei giorni!

9 novembre

Il proletariato ha lasciato migliaia di morti, infliggendo discrete perdite anche al nemico. La resistenza armata cessa. Va avanti invece lo sciopero generale.

Il governo è ora di Kadar, che si è messo sotto la protezione dei sovietici. Accetta nel suo programma gran parte delle rivendicazioni operaie, fra cui la gestione operaia delle fabbriche. Ma gli operai, che rimangono organizzati nei loro consigli, non tornano al lavoro nei giorni successivi.

16 novembre

Dopo una settimana di inviti e preghiere inascoltate agli operai perché tornassero in fabbrica Kadar è costretto a scendere alla trattativa diretta con il consiglio centrale degli operai di Budapest.

È segno che Kadar prende atto che il solo modo per far riprendere il lavoro è far sì che la decisione sia dei consigli. Ancora una volta, anche dopo una sanguinosissima repressione, i consigli sono la realtà potente espressa dalla rivolta ungherese, e tuttora esistente.

Alla condizione esplicita che una serie di loro rivendicazioni vengono immediatamente soddisfatte e dichiarando che non verrà abbandonata una virgola di tutto il resto, il consiglio di Budapest dà per radio l'ordine del rientro al lavoro.

Ma dopo una breve pausa le lotte operaie riprendono. Scioperi e agitazioni si registrano per molti mesi successivi, al punto che Kadar è "costretto a stabilire la legge marziale". La scusa delle mene reazionarie serve a coprire e giustificare in qualche modo agli occhi del proletariato occidentale le fucilazioni, gli internamenti e la pesantissima repressione che nuovamente si scatena (e questa volta ad opera del governo nazionale sul proletariato). I consigli operai resistono. Sconfitti nel momento in cui potevano dare l'assalto, hanno ripiegato su un terreno puramente difensivo e rivendicazionista, ma resistono.

E questo registravano ancora nel 1957 i nostri compagni.

La rivoluzione non è avvenuta; lo Stato capitalista non è stato abbattuto e sangue proletario è scorso a fiumi. Ma un grande risultato politico è stato conseguito: i consigli sono riapparsi quale genuina espressione della iniziativa operai, quale forma" finalmente scoperta" della lotta insurrezionale e del potere proletario - in uno dei paesi satelliti della patria del "socialismo reale"; il mito degli Stati dell'Est quali "stati operai" ha iniziato a crollare: si è confermato che anche "là" la classe operaia ha da fare la sua rivoluzione e che la farà riappropriandosi delle sue organizzazioni di massa e dei suoi strumenti politici, riappropriandosi dello strumento consiliare e del partito di classe internazionalista.

I nostri compagni, nel 1956, salutavano nel sacrificio dei compagni ungheresi tutto questo. Diamo loro la parola. (1)

m. jr.

(1) Vedi “Documenti del 1956” su questo stesso numero di Prometeo.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.