La crisi dell'URSS e dei paesi dell’Est

Immagine - Produzione manifatturiera netta, impiego nella produzione manifatturiera e produttività del lavoro nei sette paesi dell'Europa dell'Est; tasso di crescita annuale 1976-1983 in % - Fonte: Studio sulla situazione economica dell'Europa nel 1983 (proiezione), Nazioni Unite, New York, 1984 - Da: Marcel Drach, La crise dans les pays de l'Est, Ed. La Decouverte, Parigi 1984

Da almeno 10 anni i paesi dell'Est sono interessati da una crisi economica di così vaste proporzioni da suscitare l'interesse di un po' tutti gli “addetti ai lavori”; ma nonostante l'intensità e la vastità della crisi, ancora oggi essa viene considerata avulsa dalla più generale crisi dell'intero sistema capitalistico mondiale e le sue cause identificate in contraddizioni sovrastrutturali che ammettono riforme e, quindi, riformatori.

In ciò è implicito il tentativo più o meno cosciente di mantenere intatto il giudizio critico su quelle società che si vogliono considerare tuttora socialiste e, nella migliore delle ipotesi, quando le si assume come realtà di capitalismo di Stato, che questo sia un ibrido a metà strada tra capitalismo e socialismo.

Hanno giocato, e giocano ancora, a favore di tali mistificanti tentativi, le specificità proprie di quelle realtà dove la centralizzazione dei processi di gestione del ciclo economico è stata spinta al più alto grado, per cui i fenomeni che accompagnano la crisi si manifestano in maniera sotterranea o addirittura in forme che sembrano, appunto, contraddire quelle più nette e limpide che si sono manifestate nel mondo occidentale; ma se il capitalismo di stato è una formazione economica che rientra integralmente in quella capitalistica, la crisi che lo attraversa deve a sua volta poter essere identificata come equivalente a quella che vivono i paesi capitalistici tradizionali.

Gli ostacoli che si oppongono a tale identificazione sono costituiti dall'apparente assenza della concorrenza, della disoccupazione, dell'inflazione e delle difficoltà di valutazione degli andamenti relativi al saggio medio del profitto non figurando quest'ultimo, in maniera esplicita, in alcun rilevamento statistico.

L'altro ostacolo è dato dalla discrepanza temporale con cui la crisi si è manifestata all'Est rispetto al mondo occidentale. I dati, a tale riguardo, mostrano infatti che, almeno per i primi anni, mentre nei paesi occidentali la crescita del PNL e della produzione industriale fletteva visibilmente, all'Est si registravano tassi di crescita ragguardevoli. Il raffronto fra le due esperienze mostra che dal 1976 al 1982 mentre nei paesi occidentali il tasso di crescita si situa mediamente al di sotto dell'1,5% (Europa Occidentale: 1,40%, America del Nord: 1,25%) nei paesi dell'Est, esclusa la Polonia con un - 3,3, si ha un tasso di crescita del 4% (3,8% per l'Europa Orientale, 4% per l'Urss).

Ma anche nell'ambito di tale discrepanza possiamo rilevare l'esistenza di sintomi di crisi nei paesi dell'Est tali da rendere non certo arduo il collegamento di essi, anche da questo punto di vista, con la più generale crisi mondiale. Il grafico che pubblichiamo offre un quadro abbastanza chiaro degli andamenti del ciclo economico nei paesi dell'Est e rende possibili non pochi confronti con il mondo capitalistico occidentale.

Per una lettura attenta del grafico si impongono, però, alcune precisazioni. Il calcolo del Reddito Nazionale nei paesi dell'Est differisce da quello in uso nei paesi occidentali. Nei Paesi dell'Est il reddito nazionale o, più precisamente, il prodotto nazionale netto, tiene conto soltanto delle attività produttive così come le definisce il marxismo; pertanto la maggior parte dei servizi, considerati improduttivi, non entrano nel calcolo così come restano esclusi gli investimenti e i relativi ammortamenti che vengono computati a parte in un'unica voce come capitale lordo, ed è per questa ragione che il prodotto viene considerato "netto", e corrisponde in qualche modo a ciò che da noi viene definito valore aggiunto.

Fatta questa dovuta precisazione, possiamo procedere nella valutazione dei dati disponibili per cogliere che se è vero che i paesi dell'Est non conoscono nel periodo 1975-1982 una crisi classica, denunciano di già un rallentamento nei tassi di crescita e che il punto di inversione si colloca nel 1976 allorché si ebbe un tasso di crescita del 6%. Dal 1976 in avanti la crescita continua, ma il tasso rallenta fino ad annullarsi nel 1982. L'osservazione vale in modo particolare per l'Urss che passa da un 6% nel 1976 a poco più del 2% nel 1979 e si stabilizza leggermente al di sotto del 4% fra il 1980 e il 1983.

Un andamento simile si constata anche per gli investimenti (vedi tab. 1) sebbene l'evoluzione delle discrepanze, in questo caso, sia ancora più accentuata. La comparazione con i paesi occidentali, mostra che la contrazione degli investimenti in questi ultimi è molto più pronunciata di quella che si registra nei paesi dell'est, fatta eccezione per la Polonia, ed è ancora più netta se il raffronto avviene con la sola Unione Sovietica. In effetti dal 1975 al 1982, gli investimenti diminuiscono di mezzo punto nell'Europa Occidentale e di 2 punti nell'America del Nord (Canada e Usa), mentre progrediscono ad un ritmo del 3% in Urss. Tuttavia, dal 1976 in avanti, i paesi dell'Est registrano una forte flessione nei tassi di crescita degli investimenti anche se meno accentuata di quella dei paesi occidentali.

La tendenza al ristagno, tanto degli investimenti che del prodotto netto nei paesi dell'Est, peraltro, come si evince sempre dalla tabella n. 1, si inserisce in un movimento di lungo periodo. I tassi di crescita ad essi relativi diminuiscono regolarmente da oltre trent'anni. Il tasso di crescita del Prodotto netto è passato, per esempio, dal 10,7% all'anno fra il 1951 e il 1955 al 6,1% fra il 1971 e il 1975 e al 4,2% dal 1976 al 1980. Il piano quinquennale 1981-85 ha infine segnato un assestamento intorno al 3,4 per cento per altro non raggiunto.

Paese 1951-55 1956-60 1961-65 1966-70 1971-75 1976-80 1980 1981 1982 1983 1981-85 (piano)
Bulgaria 12,2 9,6 6,7 8,7 7,9 6,1 5,7 5,0 4,2 3,0 3,7
Ungheria 5,7 6,0 4,5 6,8 6,3 3,2 0,8 2,5 2,3 0,0/0,5 2,7/3,1
Polonia 8,6 6,6 6,2 6,0 9,7 1,2 -6,0 -12,0 -5,5 4,0/5,0 3,5/5,6
RDT 13,2 7,4 3,3 5,2 5,4 4,2 4,4 4,8 2,5 4,4 5,1
Romania 14,2 6,6 9,1 7,7 11,3 7,3 2,9 2,2 2,6 3,4 7,1
Cecoslovacchia 8,1 7,0 1,9 6,8 5,7 3,7 2,9 -0,1 0,2 2,2 1,6/2,2
URSS 11,3 9,2 6,6 7,2 5,1 4,3 3,9 3,3 4,0 4,0 [*] 3,4
Europa orientale e URSS 10,7 8,3 6,1 7,4 6,1 4,2 2,7 1,7 2,7 3,8 3,4
Tabella 1-a. Crescita del reddito nazionale dal 1951 al 1983 (tasso di crescita annuale, in %)

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Paese 1951-55 1956-60 1961-65 1966-70 1971-75 1976-80 1980 1981 1982 1983 1981-85 (piano)
Bulgaria 26,0 [a] 16,0 8,0 12,4 6,7 4,0 7,5 10,5 3,6 0,5 3,6
Cecoslovacchia 13,5 [b] 13,6 2,7 8,3 7,8 3,5 1,4 -4,6 -2,3 n.d. -1,7 [*]
RDT 15,0 16,4 6,4 9,7 3,8 3,4 0,3 2,8 -6,5 3 [*] 0,5
Ungheria 16,0 [c] 15,8 3,5 11,0 5,6 2,4 -5,8 -5,1 -2,2 -5 [e] 0,0
Polonia 22,0 [d] 8,7 7,7 8,0 17,1 3,0 -12,3 -22,4 -12,1 4,8 [] -6,4 []
Romania 15,0 11,6 12,8 10,5 10,7 8,5 3,0 -7,1 -2,5 2,9 5,2
URSS 8,9 11,0 8,0 7,8 6,8 3,4 2,4 3,8 3,6 5,0 2,0
Tabella 1-b. Crescita degli investimenti dal 1951 al 1983 (tasso di crescita annuale, in %)

Fonte: Studio sulla situazione economica dell'Europa nel: 1956, 1957, 1958, 1960; 1961-1970; 1970- 1980; 1983, Nazioni Unite, New York [a] 1949-1952 - [b] 1949-1953 - [c] 1951-1954 - [d] 1950-1955 - [e] Solo settore socialista [*] Stima. n.d. - non disponibile. (Da: Marcel Drach, op. cit.).

Ora, se si tiene conto, che anche negli Stati Uniti la flessione degli indici di crescita inizia a manifestarsi già agli inizi degli anni sessanta, il confronto fra le due economie ci conferma, se non altro, che fra i “due mondi” esistono elementi di continuità a dir poco sospetti, almeno nell'esprimersi entrambi secondo andamenti ciclici. Il muoversi della struttura economica per cicli ammette, di conseguenza, un processo di accumulazione anarchico e soggetto non tanto ad un piano, quanto all'agire di forze economiche legate ad interessi particolari in contrasto con quelli più generali della società. All'interno del piano devono dunque sussistere gli spazi per attività concorrenziali o assimilabili ad esse, che interagiscono con i processi di formazione del saggio medio del profitto rendendo possibile il manifestarsi della tendenza alla sua diminuzione.

Una simile indagine vorrebbe, intanto, che si potesse dimostrare che anche nei paesi dell'Est, così come è stato per i paesi occidentali, la flessione del ciclo sia coincisa con una inversione di tendenza dell'andamento del saggio medio del profitto.

E qui ci scontriamo con un ostacolo pressoché insormontabile, in quanto il profitto, essendo negato, non viene rilevato statisticamente. Esistono, però, rilevamenti del rapporto fra capitale lordo e lavoratori impiegati e fra produzione lorda e unità di capitale fisso che ci consentono di verificare, se non altro, quella che potremmo definire “l'efficacia” del capitale costante rispetto alla produzione di merci e di plus valore.

Benché i dati in questione non soddisfino pienamente la bisogna, essi ci consentono, però, di cogliere il prodursi all'Est, in concomitanza di una flessione dei tassi di crescita, di un fenomeno non molto dissimile da quello che in occidente è stato identificato e quantificato come motore della crisi, ovvero la caduta del saggio medio del profitto.

La tabella due ci offre il dato relativo al rapporto fra capitale lordo e manodopera impiegata e da essa rileviamo che a partire dal 1976 e fino al 1982, si è verificato un calo costante che si ritrova ancora più accentuato (vedi tabella 1) nel rapporto fra capitale e reddito nazionale che, come abbiamo già notato, non coincide con quello dei paesi occidentali, ma con la produzione lorda.

Paese 1961-1965 1966-1970 1971-1975 1976-1979 1980 1981 1982 1983
Bulgaria 7,0 6,9 6,4 4,4 3,1 3,2 3,8 2,8
Cecoslovacchia 3,2 5,5 5,5 4,0 2,8 1,7 0,6 2,2
RDT 5,7 6,1 5,4 4,5 4,5 3,8 2,6 -
Ungheria 5,1 3,5 7,4 5,1 0,6 4,9 5,2 3,4
Polonia 5,1 5,0 7,6 4,3 -0,2 -10,7 2,8 7,8
Romania 6,2 7,3 6,4 5,8 3,2 0,6 -1,0 2,7
URSS 4,5 5,5 6,2 2,8 2,5 2,5 1,9 3,5
Tabella 2. La crescita della produttività del lavoro nell'industria dal 1961 al 1983 (tasso di crescita annuale in %)

Fonte: Studio sulla situazione economica dell'Europa nel: 1970; 1971-1980, 1982, 1983 (proiezione), Nazioni unite, New York (da: Marcel Drach, op. cit.).

L'obiezione che potrebbe essere mossa all'adozione di questi dati, come strumenti di verifica di un fenomeno assimilabile alla caduta del saggio medio del profitto, è quasi ovvia, ma siamo indotti ad assumerli come tali anche in considerazione del fatto che nel periodo considerato non si sono verificati sostanziali miglioramenti nelle condizioni di vita dei lavoratori, quali riduzioni d'orario reali o incrementi dei salari reali, tali da suggerire l'ipotesi di una riduzione "dell'efficacia" del capitale costante a favore del capitale variabile. In assenza di ciò, dunque, siamo legittimati ad assumere che il fenomeno è legato a contraddizioni strutturali operanti nel processo di accumulazione in modo tale da determinare, periodicamente, situazioni di crisi. D'altra parte, se così non fosse, dovremmo ammettere di essere in presenza di una crisi congiunturale; cosa che mal si concilia tanto con i dati degli altri indici economici che di seguito esamineremo, quanto con la stessa riforma gorbacioviana che mira, appunto, a modificare di attuali criteri di gestione al fine di realizzare sostanziali recuperi di produttività e profitti per le imprese. (Vedi Prometeo n. 10).

L'anarchia delle forze produttive

Nonostante i dati che confermano l'esistenza, nei paesi dell'Est di una crisi profonda, ciò che impedisce, ancora oggi, la sua assimilazione alla teoria delle crisi capitalistiche classiche così come elaborata dal marxismo rivoluzionario e confermata dalle grandi crisi della seconda metà del secolo scorso e di quelle di questo secolo, è l'esistenza di un piano economico generale che fissa centralmente le proporzioni fra i diversi settori, i prezzi delle merci e i salari.

Teoricamente, in un'economia pianificata non dovrebbero prodursi squilibri fra mezzi e fini, fra forze produttive e bisogni essendo l'accumulazione legata non al mercato, ma al censimento dei bisogni e perciò sottratta all'anarchia del mercato stesso, sia nella determinazione dei rapporti fra i diversi settori, sia nella determinazione del rapporto capitale costante/capitale variabile; ma in realtà la pianificazione sovietica, essendo capitalistica, non è affatto in grado di evitare squilibri e contraddizioni né più ne meno di qualunque piano economico di un qualunque gruppo monopolistico.

La specificità della pianificazione sovietica è data dal fatto che il Gosplan (la commissione statale che provvede all'elaborazione tecnica del piano) é sottoposto al partito-stato cui è riservato il compito di definire gli indirizzi generali, che rispondono pertanto agli interessi di una classe, che non rischia i suoi privilegi in relazione all'andamento di singole aziende o di singoli settori produttivi; ma all'integrità del sistema nel suo insieme. Specie in Urss ciò ha coinciso con il conseguimento di obiettivi mirati al raggiungimento, prima, e al mantenimento, poi, di posizioni imperialistiche in concorrenza con l'altra grande centrale imperialistica di marca statunitense.

Ciò ha prodotto un modello di sviluppo di tipo quantitativo più che intensivo, ma, nondimeno, non ha soppresso, all'interno, comportamenti concorrenziali fra i diversi gruppi di potere così come non ha impedito che il mercato internazionale influisse nelle determinazioni degli obiettivi economici nazionali nella loro totalità.

Nella distribuzione settoriale degli investimenti scorgiamo immediatamente il vincolo esterno. In Urss, ad esempio, ciò si è tradotto nella destinazione al budget militare del 12-14% del PNN contro il 6% degli Stati Uniti (però negli ultimi anni anche quello USA è in forte aumento) e all'impiego, nel settore, di circa 15 milioni di lavoratori effettivi pari al 17% della popolazione attiva. (1)

Ma, a parte ciò, trattandosi di un paese imperialistico, che mira ad egemonizzare aree sempre più vaste, è costretto continuamente a rincorrere l'avversario o a difendersi dai suoi attacchi e ciò implica necessariamente l'adeguamento del proprio potenziale economico-militare a quello dell'avversario e quindi ad adeguare le proprie scelte strategiche in base a rapporti che nulla hanno a che vedere con i bisogni della società.

Di contro, all'interno, troviamo un regime di tipo oligopolistico quasi classico, nel senso che il mercato è completamente sottoposto alla volontà dei venditori per segmenti considerevoli, ma mai acquisiti definitivamente, dovendo ogni gruppo di potere (ogni concentrazione oligopolistica) difendersi dalla concorrenza degli altri centri di potere.

L'immensa forza del “venditore” è determinata proprio dal modello di sviluppo quantitativo e dal fatto che il potere è fortemente centralizzato. Il Gosplan, infatti, dopo che nel partito sono state compiute tutte le mediazioni politiche fra le diverse fazioni, ognuna delle quali spinge per ottenere per il comparto o per l'area geografica nei quali esercita la propria egemonia e l'assegnazione di quote maggiori di investimenti, in relazione all'equilibrio determinatosi in sede politica, elabora i piani di produzione per le diverse imprese assegnando a ciascuna di esse le quantità da produrre. In una seconda fase si procede al cosiddetto bilancio dei materiali rispetto al quale ogni impresa è posta in relazione con le imprese operanti negli altri segmenti del ciclo produttivo cui è interessata.

Poiché l'assegnazione di capitale per investimenti è determinata dal raggiungimento degli obiettivi fissati in termini quantitativi dal piano, ecco che ogni impresa in quanto acquirente viene a trovarsi nell'infelice condizione di dover accettare dall'impresa fornitrice il prodotto così come questa glielo fornisce, poco importa se di scarsa qualità; d'altra parte rifiutare significa aprire un contenzioso giuridico-burocratico così lungo e farraginoso da rendere problematico il raggiungimento degli obiettivi nei tempi stabiliti dal piano. Ogni venditore ha dunque un potere enorme che si concretizza nell'imposizione al consumatore di un prodotto finale ad un prezzo che assomma tutti i costi dell'inefficienza oltre che i costi di mantenimento dei privilegi della classe dominante.

Tanto maggiore è il segmento di mercato che ogni gruppo controlla e tanto più grande è la rendita di posizione che gli spetta per cui ogni gruppo cerca, attraverso il partito, di ottenere segmenti di mercato sempre più ampi e a sconfinare nell'orticello del vicino. Il risultato di questa lotta è una sorta di anarchia della produzione con risultati che contraddicono la stessa pianificazione.

Il ministero ufficialmente incaricato della produzione di lavatrici ne produce solo il 40%, mentre il rimanente 60% è distribuito fra altri cinque ministeri; la produzione di frigoriferi è ripartita fra ben undici ministeri e così via per quasi tutte le attività legate all'industria leggera. (2)

Come si può constatare, dunque, il piano non impedisce discrepanze fra i diversi settori produttivi né può prevenire fenomeni di sovraccumulazione o di sottoaccumulazione essendo esso soggetto ad interessi del tutto privati esattamente come in occidente. In un simile meccanismo sono, dunque, impliciti tutti i motivi di crisi ed anche la tendenza alla caduta del saggio medio del profitto. Provenendo la spinta all'accrescimento della produzione non da un censimento dei bisogni eseguito dai produttori direttamente mediante i soviet, ma dalla concorrenza fra i diversi gruppi di potere interessati all'allargamento della propria rendita da oligopolio, si riproducono nei processi di accumulazione le stesse contraddizioni fra capitale costante e capitale variabile che si hanno nei sistemi capitalistici di tipo tradizionale con la differenza che, essendo qui il monopolio spinto fino alle più estreme conseguenze, la tendenza al ristagno, una volta raggiunti certi livelli di accumulazione, è ancora più forte che a Occidente.

Dato l'enorme potere del "venditore" rispetto all'indifeso "consumatore", di innalzare i prezzi oltre il reale valore delle merci, ne consegue una maggiore rigidità del sistema e una sorta di attitudine all'immobilismo che rende estremamente arduo dar mano a processi di ristrutturazione degli apparati produttivi che implicano necessariamente la caduta di alcuni gruppi di potere e l'ascesa di altri.

In fondo lo scontro che sta vivendo il PCUS in questi ultimi tempi può essere letto anche e soprattutto come lo scontro fra ristrutturazione e mantenimento dello status quo in relazione al fatto che la ristrutturazione implica l'abbandono di certe proporzioni fra i diversi settori produttivi per altre che avvantaggerebbero altri gruppi di potere ed altre fasce sociali.

La divaricazione fra il piano economico generale e il ciclo economico reale è inoltre aggravata dal fatto che spesso, quando un gruppo di potere riesce ad ottenere il placet per nuovi investimenti, lo fa sottostimando il valore degli investimenti occorrenti nella convinzione che una volta avviato il processo non lo si arresterà quando i finanziamenti saranno esauriti, ma, proprio grazie al "cantiere in opera", altri finanziamenti affluiranno verso quella iniziativa e così fra piano preventivo e piano consuntivo si determinano differenze abissali e contraddizioni spesso incolmabili.

L'inflazione nascosta

La ricerca affannosa di una rendita sempre più elevata, motivata dalla modificazione della composizione organica del capitale che si concretizza con l'accrescimento del capitale costante in misura maggiore di quello variabile e quindi con la tendenza alla diminuzione del saggio medio del profitto, ha determinato nei paesi occidentali una produzione fittizia di valori monetari che ha trovato il suo riscontro nello sviluppo di processi inflazionistici di gigantesche proporzioni nei paesi dell'Est.

Per quanto attiene i paesi dell'Est, come si evince dalla tab. 3, fatta eccezione per la Polonia non si può parlare di una inflazione in qualche modo comparabile con quella dei paesi occidentali, ma nondimeno, anche qui si può verificare uno scarto costante tra la crescita dei prezzi e quella del reddito nazionale. Soprattutto per i prodotti alimentari e quelli energetici lo scarto si è fatto, rispetto al reddito nazionale sempre più consistente. (3)

Inoltre, se si sposta lo sguardo dal mercato ufficiale a quello parallelo non controllato dallo Stato ci si rende facilmente conto che l'inflazione ha assunto qui semplicemente forme diverse, nel senso che essa, anziché manifestarsi sul livello generale dei prezzi fissati centralmente dallo stato, è sfociata in fenomeni quali la penuria e l'allargamento del mercato parallelo.

Paese 1976-1980 1979 1980 1982 -
Bulgaria 4,0 4,6 14,0 0,5 -
Ungheria 6,3 8,9 9,1 4,6 6,9
Polonia 6,8 7,0 9,4 21,2 100,2 [a]
RDT 0,1 0,2 0,5 0,2 -
Romania 1,4 2,0 2,2 1,8 3,0 [*]
Cecoslovacchia 2,1 3,9 2,9 0,8 4,0 [*]
URSS 0,7 1,3 1,0 0,9 -
Tabella 3-a. Indice dei prezzi al consumo nei paesi dell'Est e nei paesi occidentali 1976-1982 (percentuale di variazione annuale) - Paesi dell'Est

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Paese 1978 1979 1980 1981 1982
Europa occidentale 6,9 7,8 11,4 11,4 9,6
Francia 9,1 10,8 13,5 13,4 11,8
RFT 2,7 4,1 5,5 5,9 5,3
Stati Uniti 7,7 11,3 13,6 10,4 6,1
Tabella 3-b. Indice dei prezzi al consumo nei paesi dell'Est e nei paesi occidentali 1976-1982 (percentuale di variazione annuale) - Paesi occidentali

Fonte: Studio sulla situazione economica dell'Europa nel 1982. Nazioni unite, New York, 1983 (da: Marcel Drach, op. cit.) - [*] Stima. [a] Indice del costo della vita per i salariati del settore socializzato dell'economia.

Ad esempio, un'autovettura Traband, nella Germania dell'Est, costa ufficialmente 8.000 marchi, ma essendosi le liste di attesa allungate fino all'inverosimile (dai sette ai dieci anni), essa viene rivenduta, di seconda mano, ad un prezzo quattro volte maggiore quello d'acquisto. Spesso però non si tratta di una vendita dell'usato come figura ufficialmente, ma di una “gabola” che serve a mascherare il sovraprezzo che intascano i burocrati che fanno scorrere più velocemente la lista di attesa.

La penuria ha assunto dimensioni tali da costituire ormai l'argomento del giorno e viene ammessa pubblicamente tanto dalle autorità che dalla stampa. La Litteraturnaja Gazeta ce ne fornisce un esempio lampante, si chiede infatti il giornale: “Che cosa ci manca?” e fa seguire un elenco interminabile di prodotti: la mostarda, le macchine da cucire, le cipolle, il rimmel, vasellame smaltato (di piccole dimensioni), ventilatori, tessuti di cotone, biciclette e ancora un'infinità di prodotti d'uso corrente in occidente.

Il contraltare della penuria è l'abbondanza di risparmio che giace inutilizzato presso le banche, i depositi bancari sono infatti enormemente cresciuti negli ultimi dieci anni (4) e sono costituiti da quote di salario non spendibili sul mercato per mancanza di beni. Ora, se si tiene conto che l'inflazione non costituisce altro che la svalutazione progressiva della moneta, la costante riduzione del suo potere d'acquisto, è come se un operaio dell'est acquistasse con una quantità cresciuta di moneta una stessa quantità di beni, poiché le quote di risparmio altro non sono che moneta priva di alcun valore.

A ben vedere, dunque, il fenomeno inflattivo esploso nei paesi occidentali qui è stato opportunamente mascherato, ma il mercato ha di fatto sancito con la penuria un costante aumento dei prezzi che si ritrova poi, anche nominalmente nel mercato parallelo dove un bene costa mediamente, come ha ammesso lo stesso Gorbaciov, quattro cinque volte di più di quanto dovrebbe costare nei magazzini di stato, qualora fosse effettivamente disponibile.

La disoccupazione

A riprova della superiorità del sistema “socialista” i dirigenti russi, ivi compreso Gorbaciov, vantano (o almeno vantavano) la piena occupazione che esisterebbe all'Est ed in realtà la crisi economica, a differenza che in Occidente, nei paesi dell'est non ha dato luogo ai licenziamenti di massa e alla nascita di un immenso esercito di disoccupati. Ma ciò non deve in alcun modo trarre in inganno, in quanto si tratta di una specificità che non contraddice in alcun modo le linee di sviluppo della crisi economica.

Ad evitare l'esplosione della disoccupazione, non è stato, infatti, il buon andamento dell'economia quanto:

  1. la possibilità di determinare centralmente il livello medio del salario;
  2. il calo demografico;
  3. il ritardo tecnologico che non ha consentito l'introduzione generalizzata della microelettronica nei processi produttivi.

Per quanto riguarda quest'ultimo punto rinviamo all'intervista rilasciata da Gorbaciov a l'Humanité e da noi già citata in Prometeo n. 10.

Per gli altri due occorrono invece alcune considerazioni chiarificatrici.

La disoccupazione altro non è che una delle risposte della borghesia alla riduzione del saggio medio del profitto mediante la quale viene diminuita la quantità di valore trattenuta dagli operai sotto forma di salario.

Negli Stati Uniti, ad esempio, Reagan si è sempre vantato di aver fornito con la sua politica la creazione di 6-8 milioni di nuovi posti di lavoro, ma si è sempre ben guardato dall'aggiungere che per acquistare la stessa quantità di merci che prima si acquistava con un salario medio dell'industria automobilistica, oggi ne occorrono due e che mediamente il potere di acquisto dei salari è diminuito del 30-40%.

In poche parole, alla riduzione del numero degli occupati si è preferita una diversa ripartizione del monte salari complessivo in modo tale che la sua riduzione anziché concentrarsi unicamente sui disoccupati venisse estesa a tutti gli occupati.

In Urss si è avuto un processo simile resosi necessario dalla mancanza cronica di manodopera conseguente ad un accentuato calo demografico che ha origini lontane. Ad esempio ha sicuramente giocato un ruolo determinante l'elevato numero di vittime nella seconda guerra mondiale che ha comportato l'ingresso nel mondo del lavoro del 90 per cento della popolazione femminile senza che venissero create adeguate strutture pubbliche che rendessero meno gravoso l'onere dell'allevamento puerile.

La penuria di manodopera ha dato luogo, in Urss, al fenomeno solo in apparenza contraddittorio con quello verificatosi in occidente. È vero che nel periodo 1976-1980 si è avuta una crescita dei salari nominali maggiore di quella della produttività, ma se si guardano attentamente i dati del 1981, più che scorgere un aumento dei salari reali si evidenzia una caduta della produttività del capitale per unità di salario che viene camuffata come crescita del salario reale.

Nel 1981, come ci informa l'economista Karpoukhine con il suo “Rapporto fra la crescita della produttività del lavoro e la crescita dei salari” (5) il piano prevedeva una crescita dei salari, per ogni punto supplementare di produttività, dello 0,64%, mentre in realtà vi è stato un aumento dello 0,85% con una crescita complessiva della produttività dell'industria del 2,7% ed una dei salari del 2,3%. Ora, è evidente che se si assume il tasso di crescita preventivato dal piano come ottimale, in relazione alle performance precedenti, si registra un rallentamento della crescita della produttività rispetto alla crescita dei salari, ma se si tiene conto che la crescita dei salari non si è discostata da quella prevista dal piano, se ne deve, per forza di cose, de-durre che la combinazione produttiva ipotizzata dal piano (il rapporto cioè fra capitale costante e capitale variabile) modificandosi ha dato luogo a tassi di crescita via via decrescenti rispetto alle combinazioni precedenti e sulla base delle quali è stato stimato il tasso di crescita in sede di preventivo. La cosa non è per nulla misteriosa visto che siamo in presenza di un sistema dove la crescita si misura in termini puramente quantitativi e dove, all'epoca, neppure si erano affacciate le nuove tecnologie capaci di imprimere alla produttività ritmi di crescita rivoluzionari.

Dal 1981 in avanti il fenomeno si è sempre più accentuato anche se durante l'XI piano (1981-85) vi è stato qualche miglioramento complessivo; negli ultimi due, però, la tendenza si è assestata e non vi sono più stati segni di un'inversione. Ma lo stesso Karpoukhine, che sostiene la necessità di ridurre i salari, ammette che da ciò non vengono benefici ai lavoratori:

"Il risultato - egli dice - è che la domanda non viene soddisfatta e i prezzi aumentano senza parlare delle ripercussioni sull'accumulazione, sull'accrescimento dei fondi sociali di consumo [...] I bisogni non possono essere soddisfatti e ci si trova di fronte ad una situazione di penuria di cui non si riesce di venire a capo." (6)

Non c'è disoccupazione, dunque, ma c'è un progressivo deterioramento del salario medio che nonostante continui a crescere in valore nominale meno della produttività, perde in valore reale (penuria e aumento dei prezzi); praticamente è come se il monte salari complessivo venisse costantemente ridotto e la diminuzione ripartita fra tutti i lavoratori impiegati non potendosi procedere ai licenziamenti per mancanza di manodopera.

La caduta della produttività

Gli elementi fin qui esaminati mostrano sicuramente l'esistenza, nella crisi dei paesi dell'Est, di specificità che rendono i fenomeni che normalmente accompagnano le crisi capitalistiche - potremmo dire - meno classici, ma tutti conseguenti ad una contraddizione strutturale che è tipica del processo di accumulazione capitalistica e che si evidenzia ad un certo grado di sviluppo con una diminuita capacità del capitale di incrementare, in relazione alla crescita della sua parte costante, una proporzionale crescita di plusvalore tanto che, anche in presenza di una caduta dei salari reali, le unità di capitale costante aggiuntive, non danno luogo ad una proporzionale crescita della produttività. In poche parole, l'aumento del capitale costante, nonostante la svalutazione dei salari, si trasforma in merci in quantità via via decrescenti rispetto ad ogni unità di capitale costante aggiunta.

Per produrre una certa quantità di merci, occorrono, cioè, quote di capitale costante sempre maggiori e ciò, nei paesi dell'est, emerge manifestandosi con una costante perdita di produttività, che diviene cronica nella misura in cui vi sono difficoltà ad introdurre tecniche produttive più avanzate.

Il confronto con i paesi occidentali mostra bene come, in coincidenza dell'espandersi in questi ultimi della microelettronica, i paesi dell'Est, pur avendo mantenuto tassi di investimenti, come abbiamo visto in precedenza, sicuramente più alti, non riescano a mantenere il passo. Nel periodo che va dal 1975 al 1980 essi fanno registrare un tasso di crescita medio delle importazioni dall'occidente del 7% che passa all'11,3% tra il 1980 e il 1982. Di contro, le esportazioni in senso opposto passano da una crescita del 14% nel periodo dal 1975 al 1980, ad una dell'1,3% nel periodo 1980-82. Il fenomeno assume ancora più rilevanza se si mettono a confronto i dati della tab. 1 con quelli della tab. 4. Da essi risulta in maniera inequivocabile che, a fronte di un tasso di crescita degli investimenti calante, ma sempre positivo, corrisponde un tasso di crescita della produttività da capitale sempre negativo.

Una simile forbice avrebbe mandato a gambe all'aria anche la più solida delle imprese inserita sul mercato e soggetta in modo tradizionale alle sue leggi; ma qui la resistenza è maggiore perché, paradossalmente, sono più avanzati, in senso capitalistico, gli strumenti di controllo del ciclo economico e più efficaci le barriere che si pongono in controtendenza rispetto alla legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto.

Paese 1971-1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 [*]
Bulgaria -1,0 -3,0 -1,6 -3,9 -0,3 -2,6 -2,3 -1,8 -3
Cecoslovacchia -0,1 -2,1 -3,2 -1,7 -2,8 -2,8 -6,2 -6,1 -2,4
RDT -0,5 -2,0 0,2 -2,4 -1,1 -0,8 -0,6 -2,4 -0,8
Ungheria -0,5 -3,3 1,6 -2,2 -4,5 -6,1 -2,0 -1,8 -3
Polonia 1,1 1,7 -4,2 -5,2 -8,2 -7,0 -15,8 -9,7 2-3
Romania -0,5 -1,9 -1,5 -2,1 -3,0 -5,7 -5,8 -4,0 -4
URSS -2,8 -2,6 -2,9 -2,2 -4,8 -3,6 -3,4 -2,6 -2,6
Tabella 4. Evoluzione della produttività del capitale di beni prodotti dal 1971 al 1983 (tasso di crescita annuale in %)

Fonte: Studio sulla situazione economica dell'Europa: 19 71 e 1983 (proiezione), Nazioni Unite, New York, 1972 e 1984 (da: Marcel Drach, op. dr.). - [*] Stima.

La sovraccumulazione

Quando il ciclo di accumulazione entra in crisi, nelle economie capitalistiche di tipo occidentale si manifesta una eccedenza di capitali e una eccedenza di merci.

I primi trovando difficoltà a trasformarsi in capitale industriale a causa dei bassi saggi di profitto, tendono a privilegiare la sfera finanziaria dando luogo a fenomeni speculativi molto intensi: instabilità dei cambi, oscillazioni dei prezzi delle materie prime, esplosione dei mercati borsistici con brusche impennate ed altrettanto brusche cadute dei corsi azionari, sono la risultante più tangibile della formazione di queste eccedenze. Le merci invece, benché la produzione tenda a diminuire, risultano in quantità sempre maggiori di quanto il mercato riesca ad assorbirne e ciò a causa della contrazione della domanda conseguente alla espulsione di forza-lavoro dal processo produttivo e/o la svalutazione dei salari reali; il riscontro è costituito dalla scarsa utilizzazione degli impianti che rimane sempre al di sotto delle capacità potenziali esistenti e che, pure, grazie alle innovazioni tecnologiche ed agli incrementi di produttività, continuano a crescere.

Con la crisi strutturale, insomma, si determinano fenomeni di sovrapproduzione, tanto di capitali che di merci. Dai dati che abbiamo fin qui analizzato, nei paesi dell'est, si evidenzia invece una penuria spaventosa di merci e di capitali da far pensare ad una crisi del tutto particolare, dove più che di sovraccumulazione si dovrebbe parlare di sottoaccumulazione. Qualche autore ha parlato di “sovraccumulazione negativa” per indicare quel particolare processo per il quale quote crescenti di capitale costante danno via via saggi di rendimento decrescenti. (7)

Per parte nostra, invece, riteniamo che si debba e si possa parlare correttamente di sovraccumulazione e di sovrapproduzione, anche in presenza di così vasti fenomeni di penuria, solo che si tengano ben presenti le caratteristiche peculiari del sistema.

La soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione consente, infatti, che la quasi totalità del capitale possa essere considerata come capitale azionario, come capitale che...

"quantunque investito in grandi imprese, come per es. le ferrovie, una volta dedotti tutti i costi, rende semplicemente degli interessi più o meno considerevoli, i cosiddetti dividendi. Questi capitali non entrano nel livello del saggio generale del profitto, dando essi un saggio del profitto inferiore alla media." (8)

Nella fattispecie, questi capitali non danno neppure dividendi, ma potere sulla cui base si articola il dominio di classe. Il “singolo capitalista”, in questo caso i potenti burocrati del partito, possono mantenere la loro posizione anche con saggi di profitto più bassi dei dividendi azionari o addirittura negativi non ripercuotendosi in alcun modo il danno sul proprio patrimonio. Quel che qui conta è il mantenimento del controllo e del capitale sociale e soltanto quando questo diminuisce o si annulla che la crisi si trasferisce anche al burocrate. Egli, pertanto, avrà sempre tutto l'interesse a che quote crescenti di capitali si trasformino in mezzi di produzione anche se i rendimenti sono negativi. La sovraccumulazione, che pure si determina, viene mascherata dal fatto che i capitali non restano apparentemente “inoperosi”, ma vengono comunque trasformati in capitale industriale nel senso che per la produzione di una stessa quantità di merci si impiegano capitali sempre più grandi che è un modo come un altro di “parcheggiare” un capitale che non riesce ad accrescere la sua valorizzazione e quindi a svolgere coerentemente la sua funzione.

L'arretratezza del sistema

L'ultima obiezione che viene mossa a chi accosta la crisi dei paesi dell'Est a quella dei paesi occidentali è data dall'arretratezza del sistema per cui la crisi andrebbe meglio considerata come crisi di “sviluppo”.

Certamente il modello di sviluppo dei paesi dell'est appare obsoleto, ma qui quel che conta non è tanto il grado di sviluppo tecnologico, quanto il fatto che ad un certo grado dello sviluppo, dato un determinato livello tecnologico, il sistema vada in crisi e che la crisi si manifesti con fenomeni si differenziati rispetto a quelli classici, ma ad essi del tutto assimilabili. Il cecoslovacco Mlynar ad esempio, sostiene, nonostante l'esperienza del 1968 praghese vissuta in prima persona, che il problema in Urss sia costituito dalla necessità di assicurare il passaggio...

"dell'economia da uno stadio in cui lo sviluppo è assicurato prevalentemente da fattori estensivi (crescita numerica della forza-lavoro sempre nuovi investimenti, nuove fabbriche ecc.), a un moderno sviluppo industriale, nel quale la crescita sia assicurata da fattori intensivi (la produttività del lavoro, l'efficienza della gestione, un maggiore peso di fattori quali la scienza e la tecnica ecc.)." (9)

Ma è esattamente quanto è stato fatto in occidente negli ultimi quindici anni e senza cavare un ragno dal buco. La ristrutturazione è una risposta alla crisi senza la quale essa rischia di esplodere - come dire? - anzitempo ma il suo ritardo nella sua attuazione non è né la causa né la soluzione della crisi stessa. Se si fosse in presenza di una società socialista un tale passaggio avverrebbe spontaneamente e senza traumi, mentre qui siamo allo scontro aperto fra i diversi gruppi di potere, siamo alla concorrenza più sfrenata, alla lotta più feroce esattamente come fra i grandi gruppi monopolistici multinazionali occidentali impegnati in una lotta al coltello per il controllo di ogni pur minimo segmento di mercato.

Ogni crisi è ad un tempo crisi “per eccesso di sviluppo” e crisi di sottosviluppo. Lo è stata quella che ha preceduto il primo conflitto mondiale e quella del 1929. In entrambe vi era la prospettiva di ulteriore sviluppo delle forze produttive, ma entrambe le volte, dato il livello tecnologico esistente, vi erano anche troppi capitali, cioè sovraccumulazione e sovrapproduzione e il passaggio da uno stadio inferiore ad uno superiore ha richiesto entrambe le volte la distruzione delle eccedenze, ha richiesto la guerra.

Conclusioni

Benché si siano presi in considerazione soltanto i fenomeni più vistosi della crisi dei paesi dell'est, essi, seppure fortemente caratterizzati da specificità dovute al tipo di organizzazione politica e sociale che vi domina, sono risultati sempre riconducibili e confrontabili con quelli più classici che si manifestano nelle economie di mercato. Gli indici di crescita, l'andamento degli investimenti, la crescita dei prezzi e la penuria delle merci, la caduta della produttività del capitale, tanto rispetto alle quantità prodotte che alla forza-lavoro impiegata, e nonostante la svalutazione dei salari reali, stanno ad indicare che un'epoca si è chiusa e che anche ad est il ciclo di accumulazione iniziato con la fine della 2a guerra mondiale, dopo aver garantito, pur nella specificità di quelle situazioni, un poderoso sviluppo economico, è in fase di declino. Formulazioni che mirano a fare di quelle specificità la prova della specificità dei rapporti di produzione vigenti e quindi della possibilità di una soluzione riformistica della crisi appaiono tanto più inconsistenti, quanto più si evidenzia che la riforma di Gorbaciov altro non è che una variante dei grandi processi di ristrutturazione che hanno già preso piede in occidente e che, ovviamente, qui devono percorrere, data la grande centralizzazione del potere, sentieri diversi. Lo stesso scontro interno al PCUS, se si vuole, può essere letto in chiave economica come lo scatenarsi della concorrenza fra i diversi “capitalisti” sotto l'incalzare della crisi. Vincerà non tanto la ristrutturazione, o la perestrojka che dir si voglia, o l'attuale modello di sviluppo che alla ristrutturazione qualcuno vuole contrapporre, ma il gruppo di potere che potrà disporre della maggiore quantità di mezzi di produzione e di capitali esattamente come nelle economie di mercato dove a vincere, alla fine, sono sempre i capitali più grandi.

La ristrutturazione è una necessità, è una via obbligata per tutti che certamente lascerà sul terreno un numero grande di sconfitti, ma essa, qualora dovesse giungere a termine, non restituirà economie sane ed avviate a chissà quali meravigliosi traguardi, ma solo economie più competitive rispetto all'avversario di sempre, economie meglio attrezzate a reggere lo scontro finale verso il quale, d'altra parte, non si è mai smesso di marciare, come dimostrano le ingenti e crescenti spese militari di entrambi.

Ad est come ad ovest l'alternativa alla crisi è la rivoluzione proletaria, di quel proletariato sulle cui spalle, vuoi con l'inflazione e i licenziamenti, vuoi con la penuria endemica e i salari da fame, pesa come un immenso macigno la crisi capitalistica.

Giorgio

(1) Marcel Drach, La crise dans les pays de l'Est, Ed. La Decouverte, Parigi 1984.

(2) Ibidem, p. 33.

(3) M. Drach, op. cit., p. 17.

(4) Ibidem, p. 18.

(5) Problèmes politiques et sociaux, n. 508, marzo 1985.

(6) Ibidem.

(7) Marcel Drach, op. cit., pag. 42.

(8) K. Marx, Il capitale, Libro III, cap. 14, Ed. Einaudi.

(9) Il progetto Gorbaciov, Ed. Rinascita, p. 15.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.