Professionalità: un mito che il marxismo ha liquidato da tempo

Mentre grida allo scandalo dell'appiattimento salariale quale risultato di una nefasta influenza egualitaria tardo-marxista che ha gravato sul movimento sindacale tra la fine degli anni 1960 e l'inizio degli anni 1970, la grancassa della propaganda borghese sottolinea oggi, a gran voce, la necessità di riconoscere adeguatamente il lavoro qualificato e le nuove professionalità che scaturirebbero dall'impiego delle moderne tecnologie. Il concetto di professionalità viene usato per giustificare qualsiasi politica salariale che miri a differenziare le retribuzioni paventando vantaggi diffusi a vasti strati di lavoratori dalle più disparate mansioni. Noi invece abbiamo sempre sostenuto che il concetto di professionalità è solo un artifizio ideologico, abilmente rielaborato e riproposto, per introdurre nuove divisioni retributive e ostacolare quella tendenziale omogeneità lavorativa e salariale che la dinamica capitalistica continua a determinare soprattutto nei periodi di crisi economica; per ostacolare cioè quella tendenziale unità di classe stimolata dai vasti processi di proletarizzazione interni ed esterni alla fabbrica. (1)

In questo articolo non vengono trattate tanto le conseguenze sul lavoro delle ultime innovazioni tecnologiche, quelle che hanno investito l'apparato produttivo negli ultimi quaranta anni; piuttosto vengono presi in considerazione i grandi effetti sulla qualificazione dell'attività lavorativa che si sono avuti con l'affermarsi del modo di produzione capitalistico, in un periodo in cui il vecchio impianto produttivo della società, basato sulla bottega artigiana, veniva sostituito da una nuova ed originale forma economica che avrebbe completamente sconvolto la fisionomia del lavoro. L'analisi ci è servita, oltre che per individuare le grandi trasformazioni del lavoro operaio di questo periodo, per individuare le tendenze generali alla dequalificazione, operanti all'interno del processo di sviluppo del capitalismo e per metterle in rapporto con i meccanismi stessi della produzione capitalistica. Per questo lavoro ci siamo avvalsi abbondantemente dell'elaborazione a suo tempo compiuta da Marx che, anche per ciò che concerne il tema della qualificazione del lavoro, ha dato in proposito esaurienti riposte. Sebbene il lavoro di Marx sia stato fatto in un periodo in cui l'industria era ben lontana dal raggiungere il livello di meccanizzazione odierno, le deduzioni circa il progressivo svuotamento professionale del lavoro che vi sono contenute sono di probante attualità e sono di fondamentale aiuto per comprendere non solo quanto è accaduto successivamente ma anche i fenomeni dell'epoca, caratterizzata dal rapido susseguirsi di grandi mutamenti qualitativi del lavoro, in cui viviamo. Per i marxisti, come vedremo, la questione della professionalità del lavoro è ormai chiarita da tempo; se rimane importante trattarla è perché la borghesia, con la sua schiera di mestatori, oggi la ripropone col fine di occultare, soprattutto agli occhi dei lavoratori, la realtà di un lavoro enormemente degradato che con i suoi effetti può contribuire ad innescare il detonatore del conflitto di classe.

Marx e la dequalificazione del lavoro

Marx, per analizzare le leggi di funzionamento della società e di quella capitalistica in particolare, parte dal lavoro, da quella attività che pone l'uomo in rapporto con la natura e che lo differenzia da tutti gli altri animali. Ciò che contraddistingue l'attività lavorativa umana da quella degli animali è innanzi tutto la consapevolezza del fine da raggiungere:

il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue celle di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla di cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. (2)

In questa attività peculiare dell'uomo, per Marx riveste una enorme importanza il mezzo di lavoro:

l'uso e la creazione dei mezzi di lavoro, benché già propri, in germe, di certe specie animali, contraddistinguono il processo lavorativo specificamente umano. (3)

E inoltre:

non è quel che vien fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi di sviluppo della forza lavorativa umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro viene compiuto il lavoro. (4)

Dunque, l'analisi del lavoro, delle forme che esso assume e dei mezzi che esso impiega, permette a Marx di studiare l'anatomia della società, cioè le leggi del suo funzionamento e i rapporti tra gli individui che la compongono.

Analizzando il processo di formazione della società capitalistica, egli coglie il fondamento su cui esso si svolge: la progressiva espropriazione del lavoratore dei suoi mezzi di produzione. (5) Prima della società borghese, quando la forma dominante della produzione manifatturiera è quella della bottega artigiana con il tipico rapporto medievale-corporativo tra maestro e garzone, la separazione tra mezzo di produzione e lavoratore è solo agli inizi. Il maestro, nel processo produttivo, è un artigiano in mezzo ad altri artigiani che lavora con grande virtuosismo e conoscendo tutti i segreti dell'arte di compiere il suo mestiere. Egli domina lo strumento di lavoro, in quanto lo possiede, e l'attività lavorativa, in quanto si avvale dell'esperienza e delle conoscenze tramandategli dai precedenti maestri artigiani e dalla abilità acquisita in lunghi anni di apprendistato. Egli domina la sua attività lavorativa anche perché la conosce.

Con la società borghese la separazione tra lavoratore e mezzo di produzione si compie pienamente e il rapporto del primo sul secondo si rovescia:

qui non è l'operaio che utilizza i mezzi di produzione ma sono i mezzi di produzione che utilizzano l'operaio. Non è il lavoro vivo che si estrinseca nel lavoro materiale come nel suo organo oggettivo, ma è il lavoro materializzato che si concentra e accresce succhiando lavoro vivo, divenendo così valore che si valorizza, capitale, e come tale funzionando. I mezzi di produzione non appaiono più che come assorbitori, succhiatori, della quantità maggiore possibile di lavoro vivo, e il lavoro vivo non appare più che come mezzo per valorizzare valori esistenti e quindi capitalizzati. Proprio perciò, a prescindere da quanto è stato già esposto, ancora una volta e in grado preminente, i mezzi di produzione si ergono di fronte al lavoro vivo come esistenza del capitale e, a questo stadio, co me dominio del lavoro passato, morto, sul lavoro presente, vivo. (6)

Il lavoratore, membro di una classe di individui a cui è stato lasciato il solo possesso della capacità lavorativa, si trova dunque, innanzi tutto, nella condizione (e per questa condizione egli è costretto a sot tomettersi come lavoratore salariato alla volontà del capitalista), di espropriato del mezzo di produzione.

Questa separazione tra lavoratore e mezzo di produzione, all'inizio, nella fase chiamata da Marx del dominio formale del capitale sul lavoro, non intacca il processo lavorativo dal punto di vista tecnologico. Sostanzialmente, esso continua a compiersi nello stesso modo in cui esso si svolgeva nella bottega artigiana e ciò che risulta modificata è solo la scala della produzione, ora più ampia, oltreché, naturalmente, il rapporto tra maestro e garzone trasformatosi ora nel rapporto tra capitalista e operaio salariato.

Nel processo lavorativo dunque, vi è ancora sostanziale unità tra l'operaio e l'arte del mestiere artigiano; egli si avvale ancora di quel grande patrimonio di conoscenze, di esperienze e di destrezza tipico del periodo precedente. Anche se la scala della produzione porta immediatamente ad una nuova divisione del lavoro che inizia a modificare l'attività concreta dell'operaio, egli rimane ancora, con la sua attività creatrice e con la sua abilità, il centro del processo produttivo, che resta basato sulla attività personale dell'operaio, sulla sua individualità.

Il dominio del capitale sul lavoro, dei mezzi di produzione sull'operaio, questo dominio rovesciato delle cose sull'uomo come lo ha definito Marx, si amplifica, si estende e si approfondisce man mano che si afferma il modo di produzione specificamente capitalistico, man mano che si passa, secondo Marx, dal dominio formale del capitale sul lavoro a quello reale. Egli coglie l'importante trasformazione del processo lavorativo, che assume ora una forma specifica e le conseguenze sul lavoro:

l'incremento del le forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all'interno della fabbrica, l'impiego delle macchine, e, in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente... questo incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell'individuo singolo, e con esso l'applicazione della scienza... al processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale, anziché come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione. (7)

Qui viene evidenziata l'altra fondamentale separazione, quella che avviene tra il lavoratore e la conoscenza del processo lavorativo. Quest'ultimo ora appartiene al capitale che strappa all'operaio quel controllo dell'attività lavorativa che egli ancora possedeva, quale retaggio del passato, nella fase del dominio formale del capitale:

la scienza come prodotto intellettuale generale dell'evoluzione sociale appare essa stessa come direttamente incorporata al capitale (e la sua applicazione in quanto scienza al processo di produzione materiale appare come distinta dal sapere e dalle capacità del singolo operaio), e lo sviluppo generale della società, essendo sfruttato dal capitale - e agendo come forza produttiva del capitale - di contro al lavoro, appare a sua volta come sviluppo del capitale, e ciò tanto più in quanto, per la grande maggioranza, gli si accompagna di pari passo uno svuotamento della capacità lavorativa. (8)

Così,

mentre ai precedenti livelli di produzione l'ambito limitato delle conoscenze e l'esperienza erano collegati direttamente al lavoro stesso, non si sviluppavano come forza autonoma e separata e perciò, nel complesso, non superavano mai i limiti di una tradizionale raccolta di ricette, attuata da lungo tempo e in sviluppo assai lento e graduale, (9)

[... adesso] la scienza opera come forza estranea, ostile al lavoro, come forza che lo domina; e il suo impiego - che per un verso è accumulazione, e, per un altro, sviluppo entro la scienza di dati, osservazioni, segreti del mestiere ricavati, sperimentalmente, per l'analisi del processo di produzione, come applicazione delle scienze naturali al processo materiale di produzione - si fonda sulla separazione delle forze spirituali del processo delle conoscenze, nozioni e capacità del singolo operaio, esattamente come l'accumulazione e lo sviluppo delle condizioni di produzione e la loro trasformazione in capitale si fondano sulla privazione-separazione dell'operaio da queste condizioni. (10)

Da questo momento l'operaio è un individuo totalmente espropriato che ha perso anche la conoscenza di ciò che fa e di come lo fa. Con questa perdita di conoscenza avviene un generale processo di dequalificazione del lavoro che abbraccia la quasi totalità degli operai nonostante si formi, come non manca di rilevare Marx:

anche un piccolo gruppo di operai di più elevata qualifica, ma il loro numero non è in alcun modo paragonabile con le masse 'prive di conoscenze' degli operai. (11)

All'interno di questo schema generale troviamo l'analisi delle forme concrete, storiche, del lavoro e, in relazione a ciò, l'analisi del processo di generale dequalificazione che questo stesso subisce. Nella manifattura, fondata sulla cooperazione dei lavoratori, in cui

vengono riuniti in una sola officina, sotto il comando di uno stesso capitalista, operai di mestieri differenti e indipendenti (12)

[oppure] vengono occupati contemporaneamente [...] molti artigiani che fanno la stessa cosa o cose analoghe. (13)

Il lavoro viene suddiviso.

Questa suddivisione casuale si ri pete, manifesta i suoi vantaggi peculiari, e a poco a poco si ossifica diventando la sistematica divisione del lavoro. Da prodotto individuale d'un artigiano indipendente, che fa tante cose, la merce si trasforma nel prodotto sociale d'una associazione d'artigiani, ciascuno dei quali esegue continuamente solo un'unica operazione parziale e sempre la stessa. (14)

Questa divisione del lavoro, ancorata alla base tecnologica preesistente, modifica la figura dell'operaio-artigiano che svolge diverse attività per realizzare il prodotto finito e crea l'operaio parziale, dotato ancora di grande virtuosismo e abilità ma limitati ad una o a poche operazioni dell'intero processo produttivo.

Per intendere esattamente la divisione del lavoro nella manifattura è d'importanza essenziale tener fermo ai punti seguenti: in primo luogo, qui l'analisi del processo di produzione nelle sue fasi particolari coincide completamente con la disgregazione d'una attività artigianale nelle sue differenti operazioni parziali. Composta o semplice l'operazione rimane artigianale, e quindi dipendente dalla forza, dalla abilità, dalla sveltezza e dalla sicurezza dell'operaio singolo nel maneggio del suo strumento. Il mestiere rimane la base. Questa base tecnica ristretta esclude una analisi realmente scientifica del processo di produzione, poiché ogni processo parziale percorso dal prodotto dev'essere eseguibile come lavoro parziale artigianale. E proprio perché a questo modo l'abilità artigianale rimane fondamento del processo di produzione, ogni operaio viene appropriato esclusivamente ad una funzione parziale, e la sua forza-lavoro viene trasformata nell'organo di tale funzione parziale, vita natural durante. (15)

Marx coglie la contraddittorietà di questo processo sia quando mette in evidenza il virtuosismo dell'operaio specializzato, parziale, prodotto dalla manifattura ma che:

esegue per tutta la vita sempre la stessa ed unica operazione semplice (16)

[e che] trasforma tutto il proprio corpo nello strumento di quella operazione, automatico e unilaterale, (17)

sia quando evidenzia come la manifattura generi in ogni mestiere anche una classe di operai senza abilità dato che la divisione del lavoro, scomponendo le diverse operazioni del processo produttivo, separa le attività semplici da quelle complesse e separa con ciò il lavoro specializzato da quello non specializzato, cioè semplice, senza abilità. Per quest'ultimo le spese di tirocinio scompaiono del tutto mentre si riducono, in confronto all'artigiano, per l'operaio specializzato in conseguenza della semplificazione della funzione.

D'altro canto, in un altro passo si legge, a conferma di questa contraddittorietà tipica di un modo di produzione che non si è ancora imposto pienamente, che:

durante il periodo della manifattura vero e pro prio, cioè durante il periodo nel quale la manifattura è la forma dominante del modo di produzione capitalistico, la piena esplicazione delle sue tendenze urta in molteplici ostacoli. Benché la manifattura, come abbiamo visto, crei accanto alla graduazione gerarchica degli operai una separazione semplice tra operai abili e non abili, il numero di questi rimane assai limitato per via della influenza predominante dei primi (18)

[e che] benché la scomposizione della attività di tipo artigianale faccia calare le spese di addestramento e quindi il valore dell'operaio, per lavori particolari più difficili rimane necessario un più lungo periodo di apprendistato. (19)

Inoltre Marx individua proprio nella manifattura l'avviarsi del processo di separazione tra operaio e conoscenza, una separazione che prenderà corpo con l'avvento della grande industria:

questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia dalla cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta l'unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai; si sviluppa nella manifattura, che mutila l'operaio facendone un operaio parziale; si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro e la costringe a entrare al servizio del capitale. (20)

L'introduzione delle macchine modifica radicalmente questa situazione. Essa avviene come risultato di un lungo periodo di scoperte scientifiche, di invenzioni e di applicazioni tecnologiche che investono il processo produttivo solo a un dato grado del suo sviluppo. (21) Con l'impiego delle macchine e con la nascita della grande industria che soppianta la manifattura, il modo di produzione assume una sua forma specifica, quella propriamente capitalistica, ed assurge, superando lo stadio di vita infantile, alla piena maturità, quella che Marx chiama la fase del dominio reale del capitale, quella fase in cui avviene la separazione tra operaio e conoscenza di cui si è già detto. L'impiego della macchina non avviene per alleviare la fatica umana, né per promuovere la qualificazione o l'emancipazione dell'operaio ma solo per...

ridurre le merci più a buon mercato ed abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l'operaio usa per se stesso, per prolungare quell'altra parte della giornata lavorativa che l'operaio dà gratuita-niente al capitalista per la produzione di plusvalore. (22)

La macchina non aumenta solo lo sfruttamento del capitalista sull'operaio; essa, man mano che si evolve diventando più complessa, sottrae al lavoro sfere di attività sempre più ampie. Con la macchina, lo strumento di lavoro, l'utensile, trapassa dall'operaio ad un organismo meccanico dotato, ad un certo punto, di forza motrice propria, esterna al corpo e alla forza fisica dell'operaio stesso.

Insieme allo strumento da lavoro anche il virtuosismo trapassa dall'operaio alla macchina. La capacità d'azione dell'utensile è emancipata dai limiti personali della forza-lavoro umana. Con ciò è soppressa la base tecnica su cui si fonda la divisione del lavoro nella manifattura. Alla gerarchia di operai specializzati che caratterizza quest'ultima, subentra quindi nella fabbrica automatica la tendenza dell'eguagliamento ossia del livellamento dei lavori da compiersi dagli addetti al macchinario, alle differenze prodotte ad arte fra gli operai addetti a singole parti subentrano in prevalenza le differenze naturali dell'età e del sesso. (23)

È avvenuta qui una profonda trasformazione del lavoro tipico della manifattura. Esso ora risulta svuotato di ogni significato professionale, privato di ogni capacità, quindi dequalificato al rango di puro accessorio della macchina:

l'abilità parziale dell'operaio meccanico individuale svuotato, scompare come infimo accessorio dinanzi alla scienza, alle immani forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema delle macchine e che con esso costituiscono il potere del 'padrone'. (24)

Con ciò il lavoratore viene ridotto a dipendente del mezzo di produzione:

dalla specialità di tutt'una vita, consistente nel maneggiare uno strumento parziale, si genera la specialità di tutt'una vita, consistente nel servire una macchina parziale [qui Marx considera l'evoluzione successiva della fabbrica, quella che impiega un sistema combinato di macchine che cooperano tra loro, ndr] ... Così, non solo si diminuiscono notevolmente le spese necessarie alla riproduzione dell'operaio, ma allo stesso tempo si completa la sua assoluta dipendenza dal capitalista. (25)

E ancora:

nella manifattura e nell'artigianato l'operaio si serve dello strumento, nella fabbrica è l'operaio che serve la macchina. Là dall'operaio parte il movimento del mezzo di lavoro, il cui movimento qui egli deve seguire. Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un meccanismo vivente. Nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente da essi, e gli operai gli sono incorporati come appendici umane. (26)

[Di conseguenza] il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, sopprime l'azione molteplice dei muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale. La stessa facilitazione del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l'operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro. (27)

Alla vecchia divisione tra operai abili e non abili della manifattura si sostituisce una nuova divisione del lavoro in cui l'attività complessa e qualificata rimane relegata ad un ambito ristretto di tecnici:

la distinzione sostanziale è quella fra gli operai i quali sono realmente occupati alle macchine utensili (si aggiungono ad essi alcuni operai per la sorveglianza, rispettivamente per l'alimentazione della macchina motrice) e i semplici manovali (quasi esclusivamente fanciulli) di questi operai addetti alle macchine...
Oltre a queste classi principali si ha un personale numericamente insignificante che si occupa del controllo del macchinario nel suo insieme e della sua costante riparazione, come ad es. ingegneri, meccanici, falegnami, ecc. Si tratta di una classe operaia superiore, in parte scientificamente istruita, in parte di tipo artigiano, che è al di fuori della sfera degli operai di fabbrica ed è soltanto aggregata ad essi. (28)

Oltre a questa divisione, si forma una iniziale categoria di persone che si occupano del controllo e della direzione degli operai:

la subordinazione tecnica dell'operaio all'andamento uniforme del mezzo di lavoro e la peculiare composizione del corpo lavorativo, fatto di individui di ambo i sessi e di diversissimi gradi d'età, creano una disciplina da caserma che si perfeziona e diviene un regime di fabbrica completo e porta al suo pieno sviluppo il lavoro di sorveglianza già prima accennato, quindi insieme ad esso la divisione degli operai in operai manovali e sorvegliatiti del lavoro, in soldati semplici dell'industria e in sottufficiali dell'industria, (29)

la cui unica funzione è di sostituire

alla frusta del sorvegliante di schiavi il registro delle punizioni. (30)

Data la semplificazione delle operazioni compiute dall'operaio a causa dell'impiego della macchina, il lavoro perde ogni caratteristica individuale, personale, e per la prima volta è possibile l'intercambiabilità del lavoratore:

il funzionamento a macchina elimina la necessità di consolidare questa distribuzione [di differenti gruppi di operai fra le differenti macchine, ndr] come accadeva per la manifattura, mediante l'appropriazione permanente dello stesso operaio alla stessa funzione. Siccome il movimento complessivo della fabbrica non parte dall'operaio ma dalla macchina, può aver luogo un continuo cambiamento delle persone senza che ne derivi un'interruzione del processo lavorativo. (31)

Ormai la dequalificazione è tale che il lavoro può essere preso senza alcuna fatica eliminando il lungo apprendistato tipico del lavoro artigiano e della manifattura:

la velocità con la quale il lavoro alla macchina viene appreso nell'età giovanile, elimina anche la necessità di preparare una particolare classe di operai esclusivamente al lavoro delle macchine. (32)

Marx svolse questa mirabile analisi quando la grande industria si affacciava sulla scena sociale, quando cioè la macchina era ancora, nonostante i prodigiosi risultati produttivi di allora, un organismo antidiluviano rispetto a quello attuale. Egli riuscì a cogliere il nesso strettissimo che vi era tra introduzione ad evoluzione delle macchine e dequalificazione del lavoro. Gli sviluppi successivi dell'industria dovevano confermare sistematicamente la sua analisi dato che dovevano portare alle estreme conseguenze i fenomeni da lui individuati.

Il taylorismo

Con la manifattura la direzione del processo produttivo inizia a contrapporsi all'operaio:

col cresce re del volume dei mezzi di produzione che l'operaio salariato si trova davanti come proprietà altrui, cresce la necessità del controllo affinché essi vengano adoprati convenientemente... la connessione delle loro funzioni e la loro unità come corpo produttivo stanno al di fuori degli operai salariati, nel capitale che li riunisce e li tiene insieme. Quindi agli operai salariati la connessione fra i loro lavori si contrappone, idealmente come piano, praticamente come autorità del capitalista, come potenza d'una volontà estranea che assoggetta al proprio fine la loro attività. (33)

La direzione non è però ancora direzione tecnica e si limita al controllo del lavoratore, a far in modo che egli si assoggetti alla dura disciplina dello sfruttamento. Anche dopo l'impiego delle macchine, sebbene l'utensile trasferisca l'abilità della mano dell'operaio ad un organo meccanico, l'iniziativa, la sequenza e i tempi delle diverse operazioni, i movimenti per svolgere queste ultime, rimangono ancora di competenza del lavoratore. A lui spetta, nel processo produttivo, un ruolo direttivo, tecnico, in quanto si avvale della sua esperienza e delle sue conoscenze per prendere una grande quantità di decisioni e per operare seppure nelle condizioni restrittive che abbiamo visto. Il capitalista, in queste condizioni, si limita ad assegnare, riguardo allo svolgimento tecnico del lavoro, le istruzioni generali interferendo minimamente nel modo in cui il lavoratore le deve realizzare.

Questa è la situazione quando, verso la fine del XIX secolo, Frederick Winslow Taylor, sintetizzando e sistematizzando una lunga serie di sperimentazioni e di enunciazioni riguardanti l'organizzazione del lavoro durate più di un secolo, (34) elabora la teoria della direzione del lavoro. Lo scopo di Taylor è quello di ottenere la massima produttività dall'operaio agendo sull'organizzazione del lavoro. Egli mette l'accento sulla necessità di togliere al lavoratore il controllo della sua attività.

Taylor afferma che la direzione aziendale, per essere all'altezza dei suoi compiti, deve prescrivere imperativamente al lavoratore l'esatta maniera in cui il lavoro deve essere eseguito, in modo da minimizzare

i movimenti dell'operaio e di conseguenza il tempo di lavoro necessario per compiere il lavoro assegnatogli. Egli formula tre principi che saranno a fondamento della moderna direzione aziendale:

il dirigente si assume [...] l'incarico di raccogliere tutte le nozioni tradizionali possedute in precedenza dagli operai, e di classificarle, ordinarle in tabelle e ridurre queste conoscenze in prescrizioni, leggi e formule; (35)

[inoltre] tutto il lavoro intellettuale deve essere tolto dall'officina e concentrato nell'ufficio di programmazione o progettazione; (36)

[infine] l'elemento di maggior rilievo della moderna direzione scientifica è l'idea del compito. Il lavoro di ciascun operaio è interamente programmato dalla direzione con almeno un giorno d'anticipo, e ciascuno riceve quasi sempre delle complete istruzioni scritte, in cui è descritto particolareggiatamente il compito che deve eseguire, nonché i mezzi da usare... La direzione scientifica consiste in ampia misura nella preparazione e nello svolgimento di questi compiti. (37)

Ciò che Marx aveva anticipato a proposito della separazione tra lavoro e scienza e della incorporazione di quest'ultima al capitale, trova ora piena enunciazione con la teoria di Taylor. Infatti, come ha affermato concisamente Harry Braverman nel suo Lavoro e capitale monopolistico:

se il primo principio è la raccolta e l'elaborazione delle conoscenze relative al processo lavorativo, e il secondo la loro concentrazione sotto l'esclusivo dominio della direzione - insieme al suo essenziale rovescio, ossia l'assenza di queste conoscenze nei lavoratori - il terzo principio sarà quello dell'uso di questo monopolio della conoscenza per controllare ogni fase del processo lavorativo e del suo modo d'esecuzione. (38)

Pertanto, con l'affermarsi della grande industria, nel momento in cui si sviluppano processi produttivi sempre più complessi caratterizzati dall'impiego massiccio della scienza, l'operaio viene espropriato della conoscenza di tali processi e del loro controllo. All'operaio, a cui viene tolto il controllo persino della sua particolare (e semplice) attività lavorativa, il processo produttivo diventa sempre più oscuro e incomprensibile. La scienza e la tecnica, ormai diventate fattori determinanti del lavoro, sono completamente separate dall'operaio, a lui estranee. Il suo impoverimento professionale subisce qui una enorme accelerazione.

Il sistema di principi elaborato da Taylor determina una ulteriore dequalificazione del lavoro quando egli riprende l'enunciato di Charles Babbage, che assegna ad ogni mansione l'operaio dotato dei requisiti minimi per svolgerle, e lo applica alla sua organizzazione del lavoro fondata, è il caso di sottolinearlo, su compiti semplificati. Taylor afferma infatti che le potenzialità del suo sistema...

non saranno pienamente realizzate fino a che quasi tutte le macchine dell'officina non saranno azionate da uomini di più bassa levatura e di più limitata esperienza, quindi meno costosi di quelli necessari col vecchio sistema. (39)

La semplificazione in attività elementari dell'attività lavorativa permette di ridurre molte professioni al loro simulacro, a lavori che richiedono solo una minima parte delle vecchie capacità e pertanto permette al capitale di abbassarne il livello generale della qualificazione operaia.

Il concetto di controllo elaborato da Taylor e limitato alla nozione di compito, viene ulteriormente articolato da un suo seguace, Frank B. Gilbreth, che lo estende ulteriormente per limitare ancora di più la residua autonomia di movimento dell'operaio. Egli afferma che lo studio dei tempi elaborato da Taylor deve ampliarsi fino alla definizione esatta dei tempi relativi ai singoli movimenti che compongono il compito. In questo modo la direzione assume il controllo del movimento dell'operaio fin nei minimi particolari togliendogli qualsiasi possibilità decisionale, anche quella limitata al singolo movimento di un braccio o di una mano. Soprattutto con le ulteriori evoluzioni del metodo di Gilbreth svolte dai centri di studio dell'organizzazione del lavoro finanziati dalle aziende americane tra le due guerre e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, il movimento dell'operaio viene ricondotto ad una sequenza di micro movimenti che vengono classificati, standardizzati, ridotti al minimo e tempificati con unità di misura ridotte a frazioni di secondo che danno idea di quale controllo la direzione aziendale eserciti sul movimento dell'operaio.

Quest'ultimo ora è ridotto a passivo esecutore di decisioni prese da altri, a individuo privato di ogni consapevolezza di ciò che fa. La sua autonomia d'azione, la possibilità di prendere decisioni, anche per operazioni lavorative molto elementari, è praticamente annullata. La legge che regola il suo movimento, anche nei minimi particolari, non sorge più dal suo istinto, dalla sua esperienza e dal suo cervello ma scaturisce, potente e coercitiva, dal cronometro tenuto in mano da un altro individuo, un tecnico dei tempi e dei metodi dell'officina al servizio del capitalista, e da uno studio del processo produttivo fatto in un remoto ufficio della direzione aziendale, sconosciuto all'operaio, da lui separato e a lui estraneo. L'operaio viene dunque ridotto alla stessa stregua di una macchina, ad un oggetto, ad un meccanismo privato di ogni individualità che deve eseguire passivamente, senza alcuna interferenza, senza la benché minima intromissione, fonte per il capitalista di pericolose ed improduttive perdite di tempo, gli ordini decisi dalla direzione aziendale. In questo modo egli viene privato del suo specifico attributo umano: pensare, decidere ed operare in funzione di uno scopo, di un fine ben presente e definito nel suo cervello.

In questa riduzione dell'operaio parziale ad operaio ultraparcellizzato che esegue senza pensare ciò che il capitale gli comanda, vi è una spoliazione totale del contenuto professionale del suo lavoro. La scelta dei materiali, il loro approntamento e trasporto, la definizione delle operazioni da compiere, la scelta delle macchine da usare e la relativa scelta degli utensili da impiegare, delle velocità di lavoro di questi ultimi, la scelta delle differenti operazioni da svolgere con i relativi tempi d'esecuzione e tante cose ancora, tutte le scelte cioè di ordine tecnico relative al contenuto professionale di un mestiere, sono incorporate al capitale attraverso gli uffici della direzione aziendale. Braverman ci fornisce una interessante descrizione della stretta connessione che vi era tra il lavoro dell'operaio di mestiere, ai tempi della manifattura, e le conoscenze tecniche e scientifiche di quel periodo (40). L'apprendistato comprendeva oltre all'acquisizione pratica del mestiere fondata sulle nozioni tecniche relative alla professione, lo studio di molteplici discipline scientifiche; tutto ciò avrebbe permesso agli operai di essere, in molte occasioni, protagonisti delle scoperte e delle invenzioni della rivoluzione tecnico-scientifica che si compie tra il XVIII e il XIX secolo. Tutto ciò scompare definitivamente con la grande industria e con la definitiva separazione tra ideazione ed esecuzione del lavoro, separazione che si realizza compiutamente, come abbiamo visto con il taylorismo. Da questo momento, lo sviluppo scientifico è completamente separato dall'operaio e sottomesso al capitale che se ne impossessa unilateralmente per subordinarlo al processo della sua valorizzazione.

Vale la pena evidenziare un altro importante fatto che segna il processo di progressiva spoliazione del lavoro di ogni suo contenuto professionale: nel 1914 viene inaugurata alla Ford, negli USA, la prima catena di montaggio. Questa innovazione nell'organizzazione del lavoro contraddistingue l'epoca industriale che, se pure con alcune modifiche, arriva fino ai giorni nostri. Ciò che la catena di montaggio determina, oltre ad una accentuata scomposizione del lavoro in operazioni semplici e ripetitive, è l'imposizione del ritmo di lavoro all'operaio attraverso la macchina. Mentre prima la cadenza del lavoro era dettata all'operaio dal capitale soggettivamente, attraverso la sua direzione, attraverso cioè l'atto coercitivo della disciplina di fabbrica, ora essa viene imposta dalla velocità del rullo trasportatore della catena di montaggio cioè da un fattore oggettivo della produzione, un fattore tecnico inerente alla macchina ed esterno all'operaio. Ne risulta una ulteriore dilatazione del dominio del capitale che si appropria attraver so la macchina, oggettivandolo, di un altro momento decisionale del processo produttivo.

La mistificazione della professionalità

Da quanto abbiamo visto possiamo concludere che lo sviluppo capitalistico, e con esso lo sviluppo dell'organizzazione del lavoro e delle macchine, determina di pari passo la dequalificazione del lavoro. Ancora più precisamente potremmo dire che quanto più è alta la composizione organica del capitale, ovvero quanto più è alto l'ammontare di capitale destinato all'impiego delle macchine rispetto al capitale impiegato per il pagamento della forza-lavoro, tanto più è accentuato e generalizzato il processo di svuotamento del lavoro dalle qualità che lo contraddistinguevano nelle epoche in cui esso era un'attività creatrice ricca di conoscenze, di esperienza e di abilità. Questa legge, che noi abbiamo cercato di esaminare, anche se sinteticamente attraverso i cambiamenti principali del lavoro produttivo di merci, trova parimenti conferma nel lavoro impiegatizio, sia che esso si svolga dentro la fabbrica, come lavoro amministrativo o tecnico, sia che si volga in aziende esterne che si occupano della circolazione delle merci o del capitale.

Quest'ultimo tipo di lavoro, che ha dato luogo nel corso di questo secolo e soprattutto nel secondo dopoguerra a una molteplicità di mansioni che formalmente si presentano come molto differenti, ha subito ancora più rapidamente quel processo di generale de-qualificazione che abbiamo delineato per il lavoro d'officina con l'introduzione della macchina e l'evoluzione tayloristica dell'organizzazione del lavoro. Il lavoro impiegatizio si è degradato in soli pochi decenni in quanto è stato investito immediatamente, nello stesso momento del suo sviluppo, dall'applicazione delle più avanzate tecnologie e dei più moderni metodi della direzione del lavoro. Sarebbe estremamente interessante approfondire l'argomento anche perché avremmo una ulteriore conferma dell'estendersi del processo di proletarizzazione alla maggior parte delle mansioni impiegatizie e con ciò l'estendersi della proletarizzazione alla maggioranza dei lavoratori.

Se anch'essi analizzati, gli sviluppi tecnologici del dopoguerra, pensiamo soprattutto a quelli dell'elettronica, dell'informatica e, più recentemente, della robotica, chiarirebbero ancora di più il processo di progressiva spoliazione del lavoro operaio e impiegatizio che accompagna l'accumulazione del capitale. Addirittura le moderne tecnologie, se da una parte ci danno idea di quale grande potenziale si sia creato per la liberazione dell'uomo da un lavoro faticoso ed alienato, dall'altra, nell'odierno uso capitalistico che esse hanno, ci mostrano, con la loro prodigiosa e sempre più spinta assimilazione delle abilità lavorative tipicamente umane, a quale punto di degradazione si sia ridotto il lavoro della maggioranza delle persone.

Marx, nell'analisi della merce, e dello scambio parla di lavoro semplice indifferenziato, di lavoro astratto:

per misurare i valori di scambio delle merci in base al tempo di lavoro in esse contenuto, i differenti la vori dovranno essi stessi essere ridotti a lavoro semplice, indifferenziato e uniforme, in breve al lavoro che qualitativamente è sempre uguale e si differenzia solo quantitativamente. Questa riduzione sembra un'astrazione, ma è un'astrazione che nel processo sociale della produzione si compie ogni giorno... il lavoro semplice costituisce la massa di gran lunga maggiore di tutto il lavoro delle società borghesi. (41)

Quale conferma di questa anticipazione abbia mo avuto dalla robotizzazione della fabbrica! Essa, relegando l'operaio alla semplice funzione di sorveglianza e di alimentazione di macchine che fanno "tutto" (spesso anche la funzione di alimentazione è incorporata nella macchina), riducendo il suo lavoro a lavoro basato esclusivamente sulle facoltà sensoriali elementari e sulle più semplici operazioni intellettive umane, ha realizzato nella forma più estrema la semplificazione del lavoro e con ciò ha realizzato la sua più completa spersonalizzazione e intercambiabilità, la sua piena astrazione.

Sorge, a questo punto, la questione: sono fondate le enunciazioni attuali sulla qualificazione (professionalità) del lavoro? L'argomentazione oggi usata per sostenere la tesi del progressivo arricchimento professionale del lavoro è, più o meno, quella dello stesso Taylor quando parla dell'introduzione della direzione del lavoro:

per esempio è vero che l'ufficio programmazione e l'istituzione di capi funzionali rendono possibile far fare a un manovale o a un aiutante dotati di intelligenza buona parte del lavoro og gi svolto da un addetto alle macchine. È o non è questa una buona cosa per un manovale o un aiutante? Gli viene offerta una categoria di lavoro più elevata, che tende a farlo progredire e ad accrescergli la paga. La comprensione per l'addetto macchine finisce col far trascurare il caso del manovale. Del resto, essa è sprecata, poiché l'addetto macchine, grazie al nuovo sistema, otterrà una categoria di lavoro più alta, che in passato non avrebbe saputo svolgere, e per giunta l'istituzione di capi suddivisi o funzionali richiederà moltissime persone di questo livello, sicché tutti quelli che diversamente sarebbero dovuti rimanere addetti macchine per tutta la vita avranno la possibilità di essere promossi capisquadra. Mai come oggi la richiesta di gente dotata di originalità e di cervello è stata così grande, e la moderna suddivisione del lavoro, invece di rimpicciolire gli uomini, li inette perfettamente in grado di elevarsi a un più alto livello di efficienza, richiedendo in pari tempo più attività intellettuale e meno monotonia. (42)

In altre parole, il capitalismo, con le sue innovazioni tecnologiche ed organizzative, promuove la continua riqualificazione del lavoro! Il metodo, mistificante, per sostenere queste cose è quello di generalizzare le controtendenze, che si verificano in un settore del capitale o del lavoro, che ostacolano, senza annullarlo, lo svilupparsi del processo di progressiva dequalificazione del lavoro.

Se consideriamo la riproduzione allargata del capitale, essa, abbracciando continuamente nuove sfere produttive, crea sempre nuove specializzazioni. Soprattutto nella prima fase di sviluppo di questi settori, a una scala di produzione più ridotta, il lavoro può essere più qualificato. Ma con l'aumentare della scala di produzione e con l'inevitabile aumento della composizione organica del capitale, anche il lavoro tende a dequalificarsi e ad assimilarsi, in un tempo più o meno lungo, a quello degli altri settori produttivi. Anche l'introduzione di nuove macchine crea nuove specializzazioni e lavori più qualificati. Ma anche qui, dopo un certo periodo di tempo, una nuova e più spinta divisione del lavoro o l'evoluzione successiva di queste stesse macchine fanno sì che le nuove professioni vengano svilite e dequalificate.

Se consideriamo lo sviluppo delle ultime tecnologie vediamo come esso crei, di pari passo, degli specialisti di altissimo livello tecnico. Ma l'ideazione, la progettazione, la costruzione e la sperimentazione di queste tecnologie è in mano a pochissimi specialisti che finiscono per possedere il monopolio di un lavoro altamente qualificato di contro al lavoro della totalità degli utilizzatori delle stesse che è lavoro praticamente privo di qualsiasi qualificazione. Pertanto la declamata qualificazione o riqualificazione che dir si voglia riflette un processo di polarizzazione delle conoscenze e delle abilità, in una parola della professionalità, che accumula il sapere, l'esperienza e l'abilità nelle mani di poche persone, ben pagate dal capitale, e riduce il lavoro di tutti gli altri, della maggioranza, ad attività ripetitiva semplice privata di alcuna reale professionalità. Sull'esistenza di questa polarizzazione, causata da quanto detto sopra, si basano le edulcorate visioni di una perenne e progressiva elevazione del lavoro che estendono, subdolamente, a tutti i lavoratori ciò che invece appartiene a pochi di essi. In ciò consiste essenzialmente la mistificazione corrente sulla professionalità.

Oltre all'argomentazione sopra riportata, opportunamente adattata alle attuali circostanze, anche la cosiddetta ricomposizione delle mansioni, concetto molto usato dai sindacalisti negli ultimi anni di ristrutturazione dei processi produttivi per illudere la classe operaia sulla possibilità di riqualificazione del lavoro, è un ben misero artifizio ideologico che impallidisce di fronte ai grandi processi di dequalificazione avvenuti su scala storica. E se questo concetto non ha incontrato grande opposizione nelle fabbriche è solo per lo stato di generale passività della classe operaia e non perché quest'ultima abbia fatto proprie le argomentazioni del sindacato. La ricomposizione delle mansioni, cioè l'attribuzione ad un operaio dei singoli compiti che prima venivano svolti da più lavoratori, è solo somma di mansioni semplici, dequalificate, il cui risultato è ancora una mansione totale di tipo semplice che nulla ha in comune con un reale processo di riqualificazione del lavoro.

Carlo Lozito

(1) Vedi gli articoli sulla composizione di classe apparsi su Prometeo IV serie, n. 4, 1980 e n. 8, 1984.

(2) K. Marx,
capitale, volume I, Einaudi Editore, 1975, pag. 216.

(3) Ibidem, pag. 218.

(4)
Ibidem_.

(5) Vedi il capitolo XXIV del Libro primo de Il capitale di K. Marx che si occupa dell'accumulazione originaria del capitale.

(6) K. Marx, "Capitolo VI inedito", in appendice a Il capitale, volume II, Einaudi Editore, 1975, pag. 1202.

(7) K. Marx, "Capitolo VI inedito", cit., pag. 1243.

(8) Ibidem, pag. 1277.

(9) K. Marx, "Frammento dai materiali preparatori del Capitale del 1863", in appendice a Il capitale, volume Il, Einaudi Editore, 1975, pag. 1326.

(10) Ibidem, pag. 1327.

(11) Ibidem, pag. 1328.

(12) K. Marx, Il capitale, cit., pag. 411.

(13) Ibidem, pag. 412.

(14) Ibidem, pag. 413.

(15) Ibidem, pag. 414.

(16) K. Marx, Il Capitale, cit., pag. 414.

(17) Ibidem, pag. 414.

(18) Ibidem, pag. 449.

(19) Ibidem, pag. 449.

(20) Ibidem, pag. 442.

(21) Vedi a questo proposito il paragrafo I del capitolo XIII, "Macchine e grande industria", de Il capitale di K. Marx, cit.

(22) K. Marx, Il capitale, cit., pag. 453.

(23) Ibidem, pag. 514.

(24) Ibidem, pag. 518.

(25) K. Marx, Il Capitale, cit., pag. 517.

(26) Ibidem, pag. 517.

(27) Ibidem, pag. 518.

(28) Ibidem, pag. 514.

(29) Ibidem, pag. 519.

(30) Ibidem, pag. 520.

(31) Ibidem, pag. 515.

(32) Ibidem, pag. 516.

(33) K. Marx, Il Capitale, cit., pag. 405.

(34) Tratto da Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Piccola Biblioteca Einaudi, 1978, pag. 113.

(35) Ibidem, pag. 114.

(36) Ibidem, pag. 119.

(37) Ibidem, pag. 120.

(38) Ibidem, pag. 118.

(39) A tal proposito, particolarmente importante è l'opera di Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Oscar Studio Mondadori, 1977, in cui vengono messi in evidenza i vantaggi della divisione del lavoro. Un'altra opera significativa è quella di Charles Babbage, On the Economy of Machinery and Manufactures, pubblicato a Londra nel 1832, citato nel libro di H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Piccola Biblioteca Einaudi, 1978, in cui si sottolineano i vantaggi per la riduzione dei costi d'impresa quando viene assegnato ad ogni mansione, ottenuta dalla divisione del lavoro, l'operaio dotato dei requisiti minimi necessari per svolgerla.

(40) H. Braverman, op. cit., pag. 129 e seguenti.

(41) K. Marx, Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, 1974, pag. 12 e pag. 13.

(42) H. Braverman, op. cit., pag. 126 e pag. 127.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.