La "Pax Americana" In Medio Oriente

Gli Americani l’avevano annunciata. Dopo la chiusura della drammatica guerra del Golfo, la vecchia amministrazione Bush aveva promesso che il passo successivo avrebbe riguardato la pacificazione tra i Palestinesi e lo stato di Israele.

Detto e quasi fatto. Dopo i disastrosi esordi della Conferenza di Madrid e la quasi nullità degli incontri successivi, la neo amministrazione Clinton è riuscita a convincere le due diplomazie ad addivenire ad uno storico accordo.

Anche se ancora tutto da verificare sia nei modi che nella sua capacità di tenuta nel tempo per la forte opposizione delle fazioni estremiste interne, l’accordo dovrebbe prevedere un periodo di autonomia amministrativa a Gerico e nella striscia di Gaza, poi se le cose dovessero andare per il verso giusto, l’esperimento si estenderebbe a tutti i territori occupati. l’autonomia amministrativa, oltre a lasciare nelle mani dei Palestinesi la gestione del territorio, delle scuole e degli ospedali al pari delle attività economiche, prevede la nascita di una polizia interna con compiti di sorveglianza e repressione nei confronti dei soli Palestinesi.

Di “storico” in questo accordo, peraltro parziale, monco e per molti versi contraddittorio, oltre al fatto che per la prima volta una delegazione israeliana ha accettato di sedere al tavolo delle trattative con quella palestinese, c’è l’ambiente in cui è maturato.

Anche se gli Americani hanno fatto di tutto per accreditare l’ipotesi che l’accordo sia maturato “autonomamente” tra le due delegazioni in terra scandinava, l’orchestrazione dell’amministrazione Clinton non solo ha favorito gli incontri ufficiosi delle rispettive diplomazie segrete, ma ha costretto le parti a “cantare” all’unisono su di uno spartito precedentemente scritto nella “scuola di musica” della Casa Bianca.

Questo non deve far credere che, finita la guerra fredda e sistemato Saddam Hussein, il compito per le amministrazioni americane sia diventato quello di commessi viaggiatori della pace. Non c’è nessuna propensione alla pacificazione, se non quella, che al pari della guerra, possa avvantaggiare l’imperialismo d’oltre oceano.

Le ragioni in base alle quali, prima Bush e oggi Clinton, hanno inseguito un processo di pace tra Israeliani e Palestinesi sono sempre le stesse, ma aggravate dalla recessione internazionale.

Da un punto di vista generale, finita la guerra fredda, gli Usa non potevano perdere l’occasione storica di proporsi agli occhi del mondo come gli unici amministratori delle vertenze internazionali, sia con l’uso della forza che con l’arma della diplomazia. in termini più precisi la questione israelo-palestinese proprio perché nel cuore del Medio oriente, terra di strategie legate alla rendita petrolifera, non poteva essere lasciata nelle mani altrui nemmeno in quelle “affidabili” dell’Onu Per l’imperialismo americano il processo di pacificazione della questione palestinese, riveste un’importanza vitale nella gestione dei suoi interessi nell’area resi pressanti dalla situazione interna pesantemente negativa in termini economici e da un processo di ristrutturazione dell’apparato produttivo che non da segni di vitalità nonostante gli sforzi finanziari e la strombazzante campagna pubblicitaria.

Con l’accordo di Parigi, la “madre di tutti gli accordi” col quale l’Olp e Israele si sono reciprocamente riconosciuti, indipendentemente dal fatto che implichi il primo passo verso la nascita dello Stato palestinese, come sostiene Arafat, o definisca soltanto l’autonomia amministrativa palestinese senza alcuna velleità statale come giura Rabin, gli Usa hanno raggiunto un primo, fondamentale scopo: imporre le condizioni politiche e diplomatiche perché un focolaio di tensioni come quello israelo-palestinese venisse meno.

Un secondo obiettivo, ancora da raggiungere, riguarda la lotta contro l’integralismo islamico che Israele e il costituendo Governo amministrativo palestinese devono impegnarsi a fare.

in entrambi i casi gli obiettivi da perseguire sono direttamente legati alla gestione ed allo sfruttamento del petrolio in termini economici e strategici.

Da sempre, ma in modo particolare in questi ultimi vent’anni, l’assillo americano è stato quello di tessere una ferrea ragnatela di alleanze e di dipendenze politico- militari con i paesi mediorientali produttori di petrolio o strategicamente indispensabili alla loro difesa.

Dopo lo smacco della rivoluzione “Khomeinista” in Iran nel ‘79, le azioni preventive politiche, di condizionamento finanziario, di ricatto e di efferato uso della forza militare si sono succedute con ritmo impressionante. uno dopo l’altro sono caduti nella ragnatela americana l’Arabia Saudita, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e la Giordania, Con gli accordi di Camp David, l’Egitto di Sadat, e con la devastante Guerra del Golfo hanno sgombrato il campo dall’unico potenziale nemico petrolifero, creando contemporaneamente le condizioni per una loro maggiore presenza operativa all’interno dell’Opec e militare nei gangli strategicamente vitali di tutta la zona.

Per la prima volta nella storia dell’Opec un delegato americano ha diritto di voto nelle decisioni riguardanti le quantità di greggio da proporre sul mercato e quindi di incidere direttamente sul prezzo di vendita dell’oro nero. Gestire questi meccanismi significa altresì contribuire allo spostamento di enormi masse di petrodollari da un lato all’altro del mercato finanziario internazionale. In più consente, nelle fasi particolarmente delicate del processo di accumulazione internazionale, come quella dell’attuale recessione economica, di far pressione per l’apertura o la parziale chiusura dei “rubinetti” o, nei casi estremi, di proporre l’embargo nei confronti degli avversari.

Se si tiene in debito conto come lo scenario economico americano si sia deteriorato in questi ultimi anni se ne deduce anche che l’arma del petrolio non è più da considerare una opzione strategicamente importante, ma una condizione fondamentale.

In questo quadro si colloca la volontà dell’amministrazione Clinton di non permettere che le decennali tensioni tra Palestinesi e Israeliani possano perturbare l’equilibrio sin qui maturato attorno alla questione petrolio. E sempre in questo quadro va inserita la richiesta americana alle due parti perché vigilino, ognuno per la sua parte, contro la montante marea dell’integralismo islamico.

Dal Magreb al Vicino Oriente, dalle sponde del Golfo Persico a quelle del Mar Rosso, nulla è oggi più pericoloso per le alleanze petrolifere dei partiti di allah.

Mai e poi mai gli Usa permetterebbero che, in uno qualsiasi dei paesi interessati, si riproponesse un’esperienza come quella iraniana. non solo per la questione di smacco e di prestigio leso, ma soprattutto per evitare che l’instaurazione di un governo islamico possa diventare un inarginabile veicolo di contaminazione ideologica antioccidentale e quindi antiamericana.

Dopo la caduta del capitalismo di stato del regime sovietico il pericolo numero uno dell’imperialismo americano è diventato l’integralismo islamico.

Oggi in tutta l’area chi potrebbe, anche se solo in prospettiva, mettere in discussione la concatenazione delle alleanze petrolifere creando serie difficoltà agli interessi americani, va ricercato nel ginepraio di quelle organizzazioni - nazionali a sfondo religioso che si rifanno a diverso titolo all’integralismo islamico.

Ecco perché la diplomazia sotterranea di Christofer ha imposto alle due parti della questione palestinese di sedersi al tavolo delle trattative per firmare l’accordo, ma anche di impegnarsi contro il nemico “occidentale”.

Come da antico copione ad Israele il compito di colpire i partiti di allah in Libano, alla nascitura amministrazione palestinese di Gaza e Gerico quello di annientare Hamas e le sue propaggini giordane.

Su di un piatto della bilancia la “sicurezza” dei confini israeliani, il contentino truffa alla borghesia finanziaria palestinese, sull’altro l’impegno inderogabile alla salvaguardia delle necessità macroimperialistiche degli Usa in tutta la zona. Solo in questi termini è possibile leggere l’attualità e la storicità dell’accordo di pace tra i due atavici nemici.

Peraltro, al duplice obiettivo (controllo dell’area petrolifera e lotta all’integralismo islamico), non sono estranei una serie di altri significativi avvenimenti. Ad esempio la promessa di aiuti economici e finanziari ai due interpreti degli accordi di pace e l’apertura di credito nei confronti dell’Egitto, sia perché antesignano tra i paesi arabi a piegare le ginocchia in favore del riconoscimento dello stato di Israele, sia per il suo fondamentale ruolo nella lotta contro l’integralismo islamico. Dello stesso tenore, anche se su terreni diversi è stato l’appoggio americano alla candidatura di Butros Ghali alla Segreteria delle Nazioni Unite e l’apertura del dialogo con la Siria per le alture del Golan. Anche se è ancora tutta da impostare (possibile restituzione o cogestione delle alture) in cambio dell’impegno da parte dell’esercito siriano presente in Libano a sbarazzare il campo dall’ingombrante presenza dei Hezbollah. Non da ultimo la stessa tragica vicenda della operazione “restore hope” in Somalia affonda le sue profonde radici nella preoccupazione americana di favorire la nascita di un governo, ieri di Aidid oggi forse di Alì Mahdi, disponibile a concedere lo sfruttamento per ora ipotetico del petrolio somalo alle compagnie petrolifere americane, e ad organizzare da sud una lotta senza quartiere al Sudan, primo e per ora unico regime islamico del continente africano.

Le ragioni che hanno indotto Israele a firmare gli accordi di pace

Sino a qualche anno fa non era neppure ipotizzabile. La feroce determinazione della borghesia israeliana sembrava non dare scampo alle istanze nazionalistiche, peraltro sempre più rinunciatarie, della borghesia palestinese. Ma sino a qualche anno fa non era neppure immaginale che potesse verificarsi un tragico episodio come quello della guerra del Golfo.

Non perché i tempi della crisi economica internazionale e quella americana non fossero sufficientemente maturi, ma più semplicemente perché il bipolarismo della guerra fredda non l’avrebbe consentito. Come dire che se l’imperialismo del capitalismo di stato sovietico non fosse caduto sotto il peso delle proprie contraddizioni, la crisi del Golfo non ci sarebbe stata, o non si sarebbe espressa in quei termini e soprattutto non avrebbe visto il più grande intervento militare americano del secondo dopoguerra, inferiore per durata, ma non per intensità a quello del Vietnam.

In altri termini la fine della guerra fredda ha notevolmente ridimensionato il ruolo strategico dello Stato di Israele contro l’Urss e a favore sempre e comunque della politica occidentale (leggi americana e solamente americana), e quindi ne ha limitato le pretese e le opportunità di ricatto politico.

Sin dai tempi di Ben Gurion il sodalizio tra il governo israeliano e quello americano, ma più precisamente tra il Mossad e la Cia, ha partorito il partoribile in termini di lotta all’est “comunista”. L’allineamento sionista ha avuto il suo battesimo ufficiale nel ‘51 durante la guerra di Corea, quando un contingente militare di Tel Aviv è sceso in campo a fianco degli alleati americani. Poi il suo ruolo di piccolo gendarme degli interessi americani lo ha diligentemente svolto in Medio Oriente contro tutti quei paesi arabi in odore di essere o di poter entrare nell’orbita sovietica. Contro i Palestinesi certo, ma via via contro l’Egitto di Nasser, la Siria di Assad, la Libia e l’Iraq.

In più, tutte le volte che il Congresso americano votava una legge che inibiva il governo ad armare e finanziare le feroci dittature africane o dell’America latina, interveniva efficacemente il Mossad, portando a compimento quanto la Cia non era in grado di fare nei tempi costituzionali secondo mandato parlamentare.

Dai Somoza ai Noriega passando dai contras di mezza America del sud, non c’è stato significativo episodio della devastante presenza statunitense che non sia stato corroborato, nei momenti richiesti, dalle prestazioni israeliane. In cambio sul governo di Tel Aviv sono letteralmente piovute alcune centinaia di miliardi di dollari all’anno a titolo di regalia, più una serie di consistenti prestiti a tassi pressoché nulli che oltretutto non sempre vengono restituiti con il tacito consenso degli stessi munifici creditori.

Inoltre Israele è stato politicamente e diplomaticamente coperto in tutte le circostanze anche in quelle teoricamente impossibili come negli innumerevoli episodi di violazione del diritto internazionale per la responsabilità delle stragi di Sabra e Chatila o per la decisa volontà a non rispettare le “storiche” risoluzioni 224 e 338 ed integralmente gli accordi di Camp David che prevedevano la restituzione di tutti i territori occupati nella guerra del ‘67, e non soltanto la penisola del Sinai, all’Egitto.

Il clima della guerra fredda aveva altresì consentito all’intraprendenza sionista di tentare una serie di piccoli e grandi ricatti nei confronti del potente alleato. Tra i piccoli si può annoverare la “minaccia” di Ben Gurion di non abbandonare il Sinai dopo la seconda guerra arabo-israeliana se non avesse ricevuto in cambio armi strategiche americane particolarmente sofisticate come il Phantom F-4 in grado di trasportare missili. Allora (1956) la richiesta pur riguardando un settore dell’alta tecnologia militare poteva essere soddisfatta abbastanza facilmente.

Analoghi episodi si sono determinati anche negli anni successivi, in occasione della guerra dei sei giorni quando Tel Aviv, colta di sorpresa dalle “provocazioni” egiziane, ha minacciato fuoco e fiamme per costringere la CIAad organizzare un ponte aereo di rifornimento bellico ad alto contenuto tecnologico. La stessa cosa è avvenuta durante la guerra del Golfo con la fornitura dei Patriot.

Per ben quarant’anni tutte le amministrazioni americane hanno chiuso entrambi gli occhi sul commercio di armi e di droga e sullo spionaggio industriale che il Mossad e il Lakam hanno organizzato nei quattro angoli del globo, nonostante il fatto che soltanto i primi due erano politicamente indifferenti agli interessi degli Stati Uniti, mentre il terzo era fatto esclusivamente a loro danno.

Tra i grandi ricatti, uno per tutti, quello nucleare. Ufficialmente lo Stato d’Israele non viene annoverato tra gli stati del “Club atomico”, in pratica però sin dalla fine degli anni cinquanta, nel deserto del Negged si è sviluppato il progetto nucleare Dimona.

A parte l’iniziale aiuto francese, buona parte del progetto nucleare ha avuto l’assistenza diretta o mediata degli Usa.

Sempre ufficialmente il governo americano si è sempre espresso in termini negativi a favore di un possibile armamento atomico del proprio alleato. Nello svolgimento dei fatti così come i dati obiettivi li raccontano, i “corpi separati” dell’esecutivo come l’onnipresente CIA hanno colmato le distanze tra le dichiarazioni di principio degli organi governativi e le ricattatorie richieste del partner mediorientale.

il ricatto israeliano si basava sull’ipotesi che se l’Urss avesse dotato i suoi alleati, peraltro più ipotetici che reali, di armi atomiche, per lo stato sionista sarebbe stata la fine e con essa si sarebbero prodotti serissimi problemi per gli stessi Stati Uniti. A Washington sapevano che le cose non stavano in quei termini, che Israele, con l’aiuto del Pentagono e della Cia, avrebbe potuto rispondere all’attacco dei paesi arabi con l’armamento tradizionale, ciononostante per vie traverse si finì con l’assecondare la richiesta sionista un per non scontentare completamente l’alleato, un po’ per il timore di doversi mangiare le unghie se l’interessato allarmismo di Tel Aviv avesse avuto una qualche probabilità di preveggenza.

Fu così che si permise alle “spie” israeliane di frequentare gli stabilimenti del progetto Apollo, di trafugare i disegni degli impianti e le copie di uno dei progetti atomici americani più avanzati degli anni sessanta.

Fu così che 259 chili di uranio arricchito scomparvero misteriosamente dai depositi del progetto Apollo per ricomparire poco alla volta in Israele, nel deserto del Negged, negli impianti nucleari di Dimona, per la supremazia sionista sul mondo arabo e per la tranquillità americana nei confronti dello spauracchio sovietico.

Ma oggi la situazione è profondamente mutata. Per gli , il pericolo del suo omologo in versione di capitalismo di stato non esiste più. Altre sono le necessità nell’area mediorientale, altro è il ruolo che può e deve giocare Israele se vuole far parte ancora del partita al fianco degli Stati Uniti.

La stagione del tutto consentito, dei finanziamenti e dei ricatti si è notevolmente ridimensionata. Il nemico numero uno da combattere in loco non esiste più, la stragrande maggioranza dei paesi arabi è passata sotto l’ombrello americano, dopo la guerra del Golfo l’ordine regna pressoché sovrano. Le uniche perturbazioni riguardano proprio il contenzioso palestinese e la questione relativa all’integralismo islamico. Di ciò l’amministrazione israeliana ha preso ampiamente coscienza. Anche se con riluttanza, completamente al di fuori dai “sacri” principi che non prevedono nessuna alternativa allo stato di Israele dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, con il rischio di uno scontro politico feroce con le forze della più cieca conservazione religiosa e delle comunità dei coloni, il governo Rabin, suo malgrado, ha dovuto prendere atto della nuova situazione.

“C’è un momento per la guerra e c’è un momento per la pace. Questo è il momento della pace.” ha detto Rabin nella faraonica manifestazione alla Casa Bianca per la firma dell’accordo di pace. Meglio avrebbe fatto a dire che questo era il momento di non lasciarsi sfuggire una grande occasione. Se la “pax americana” doveva marciare comunque con o contro il volere dei diretti interessati, tanto valeva abbassare la testa e tentare di ricavarne il maggiore vantaggio possibile. Innanzitutto i finanziamenti sia quelli ufficiali che quelli passati sotto banco. Il governo israeliano, pur non formulando richieste ufficiali ha fatto chiaramente intendere che i costi politici dell’operazione e la rinuncia ai vantaggi economici devono essere in qualche modo compensati, così come va compensato il senso di responsabilità dell’Esecutivo israeliano.

Soldi in cambio dell’allineamento, ma non solo. L’accordo con l’Olp, e per legge transitiva, con la Giordania e forse al Siria se dovesse procedere la trattativa sulle alture del Golan, ridurrebbe la sindrome da isolamento di cui ha sempre sofferto Israele e renderebbe certamente più sicuri i suoi confini, Hamas e Fronte del rifiuto permettendo.

Anche sul piano economico-commerciale, così per lo meno si augura la borghesia israeliana, si potrebbero aprire spazi di agibilità sinora ermeticamente chiusi, con il mondo arabo. E tenuto conto della indubbia superiorità tecnologica, produttiva e commerciale dello Stato sionista, un mercato mediorientale che lo vedesse operativamente presente ne sancirebbe il suo incontrastato dominio. Un po’ come dire che non tutti i “mali” vengono per nuocere, e una parte della borghesia israeliana lo ha immediatamente compreso comportandosi di conseguenza.

Le ragioni che hanno imposto all’Olp l’abbandono del vecchio programma e l’accettazione degli accordi di pace con lo stato sionista

Per decenni l’intero mondo arabo e le organizzazioni per la liberazione della Palestina si sono politicamente e praticamente attenute ad un programma di massima che prevedeva la inconciliabilità tra la liberazione della terra palestinese e la permanenza anche se geograficamente ridotta, dello stato sionista. La liberazione della Palestina sarebbe stata tale solo a condizione che lo Stato di Israele venisse fisicamente distrutto. Ogni soluzione alternativa o di compromesso veniva sdegnosamente rifiutata come atto di cedimento nei confronti del nemico e di rinuncia alla “rivoluzione nazionale” (watani).

Nello statuto di Al Fatah prima, e dell’Olp poi, si partiva dalla non accettazione della risoluzione del novembre del ‘47 (risoluzione n. 181) che prevedeva la spartizione della Palestina in due stati più una zona ad amministrazione interna relativa alla città di Gerusalemme e ai luoghi sacri, per arrivare al ripudio delle risoluzioni 224 e 338 e di qualsiasi atto di diritto internazionale che prevedesse o sottintendesse l’esistenza dello Stato d’Israele e la sicurezza dei suoi confini. Ogni atto di scontro, di terrorismo o di guerra Palestinesi avevano come obiettivo la distruzione dello stato sionista e dalle sue macerie avrebbe dovuto nascere uno stato palestinese “indipendente, unificato, democratico, laico e progressista” come si legge nello statuto dell’Olp al 1970.

Come è stato possibile che la borghesia palestinese, o quella parte di essa che ha sempre avuto un peso determinante nelle scelte strategiche all’interno dell’Olp, abbia potuto, nello spazio di pochissimo tempo, rimangiarsi il suo programma nazionalistico ed accettare quello che sino a qualche tempo fa non sarebbe stato preso in considerazione nemmeno come scherzo di cattivo gusto.

Arafat è passato dall’intransigenza più assoluta che non poteva nemmeno prendere in considerazione la nascita di un piccolo stato palestinese nei territori occupati (come da risoluzione 181) accanto al perdurare dello stato israeliano, all’accettare una ben più misera autonomia amministrativa su di una spiaggia lunga 27 chilometri e profonda 7, con un insediamento urbano, Gaza, più simile ad una gigantesca cloaca a cielo aperto che a una città. In più Gerico, che nelle intenzioni della amministrazione Rabin dovrebbe surrogare la restituzione, per altro sempre in termini amministrativi e non statuali, della Cisgiordania.

Le ragioni sono molte. Sono andate maturando in 45 anni di lotte perdenti e hanno trovato la loro “soluzione” nel modificato scenario internazionale.

Negli ultimissimi anni, dopo il crollo dell’Urss, alla borghesia palestinese, travagliata da mille problemi interni, lotte intestine e scissioni, tradita in più occasioni dai paesi arabi, è venuto meno l’unico, anche se relativo, punto di riferimento internazionale. Va detto che i rapporti che legavano il governo sovietico All’Olp non potevano essere minimamente paragonati ai legami organici che univano e uniscono tuttora gli a Israele. l’Urss ha sempre fornito poche briciole alla causa palestinese. Il Kgb ha misurato con il contagocce i finanziamenti e i rifornimenti di armi ad Arafat. Ciò nondimeno, nel gioco delle parti, ad un’azione del sionismo in Medio Oriente, supportata dall’imperialismo americano, rispondeva una reazione, magari soltanto a livello politico nelle apposite assisi, dell’Urss a favore della causa palestinese. Un po’ poco, ma certamente sufficiente ALL’Olp di Arafat e compagni per non sentirsi completamente isolati.

La pausa di riflessione provocata dalla scomparsa dell’Urss dallo scenario imperialistico internazionale oltre a rendere orfana la borghesia palestinese di un punto di appoggio, l’ha costretta a rivedere in termini più realistici 45 anni di lotta contro il sionismo. Dalla nascita dello Stato di Israele in avanti, senza soluzione di continuità, non c’è stato episodio di guerra o di semplice conflitto dentro e fuori i territori in questione, che non abbiano visto sconfitte e umiliazioni per i Palestinesi. Continuare nell’opzione militare sembrava essere una sorta di suicidio collettivo consumato all’ombra di un “integralismo” nazionalistico inattuabile nei termini invocati, senza più nemmeno il supporto di una grande potenza internazionale quale l’Unione Sovietica.

Venendo progressivamente meno i mezzi e le condizioni per la riconquista di tutta la Palestina, ridimensionati programmi e obiettivi, la stessa distruzione dello stato di Israele, quale precondizione alla nascita dello stato palestinese andava svuotandosi di significato. Anche perché distruggere lo stato di Israele, ieri come oggi, significava passare sul cadavere dell’esercito americano, e la cosa non era certamente alla portata dei loro mezzi. Se ieri la cosa era quantomeno improbabile, oggi si presenta con i termini della più assoluta impossibilità.

La crisi economica

Come se non bastasse l’Olp si è trovata nella pessima situazione di dover far fronte alla più grave crisi economica della sua storia. Prima della crisi del Golfo il movimento palestinese poteva contare su di un aiuto finanziario di circa trecento milioni di dollari proveniente dai paesi “fratelli” con particolare riferimento agli stanziamenti dell’Arabia Saudita e del Kuwait. In più poteva attingere al 5% dello stipendio dei lavoratori Palestinesi impiegati nei quattro angoli del Medio Oriente e all’auto tassazione di qualche notabile palestinese della diaspora.

Dal fatidico agosto 1991 in avanti, da quando cioè Arafat, sbagliando clamorosamente i suoi calcoli politici prima ancora che economici ha dichiarato la propria simpatia al regime di Saddam Hussein, le cose sono radicalmente cambiate. A nulla o a poco sono servite le successive correzioni di tiro sull’invasione del Kuwait.

Le borghesie petrolifere del mondo arabo, Arabia Saudita, Kuwait ed Emigrati Arabi in testa hanno immediatamente chiuso i portafogli in una sorta di embargo finanziario nei confronti dell’Olp e del suo massimo responsabile politico. Così le entrate, dai 300 milioni di dollari che erano, prima della guerra del Golfo si sono ridotte a quaranta. Inoltre il governo di Riad ha congelato tutte le rimesse dei lavoratori Palestinesi per un ammontare di ottantacinque milioni di dollari.

Dal canto suo Israele sempre in relazione all’atteggiamento assunto dall’Olp durante la crisi del Golfo, ha chiuso tutti i canali di commercializzazione tra i territori occupati e la Giordania mettendo letteralmente in ginocchio quel poco di economia palestinese che in qualche modo riusciva a sopravvivere.

Sia in Israele che nei paesi arabi l’utilizzo della forza lavoro palestinese si è notevolmente ridotto. Per l’economia israeliana la cosa si è resa possibile grazie all’immigrazione di Ebrei ex sovietici. Nel solo 1992 ben trecentomila lavoratori russi hanno pensato bene di tentare la fortuna in terra di “Sion” sostituendo un pari numero di forza lavoro palestinese. In Kuwait e in Arabia Saudita per il proletariato pendolare palestinese si sono chiuse le porte d’ingresso, in quanto ospite indesiderato, rimpiazzato da proletari egiziani sudanesi o addirittura asiatici. Il che oltre a gettare nella miseria più nera centinaia di migliaia di Palestinesi, ma non è questo che travaglia le notti della borghesia dell’Olp, riduce ulteriormente il drenaggio di quel 5% sugli stipendi del popolo di Arafat.

In conclusione, in soli due anni le casse dell’Olp si sono prosciugate da un budget di un miliardo e trecento milioni di dollari all’anno, si è passato alla più modesta cifra di trecento cinquanta milioni di dollari. Il che ha comportato non solo l’impossibilità di corrispondere i salari e gli stipendi all’organico palestinese dei territori occupati, le pensioni di guerra alle vedove e alle famiglie dei combattenti (non c’è famiglia dei territori occupati che non abbia da piangere almeno un morto), ma anche l’impossibilità di reggere militarmente e diplomaticamente i livelli di antagonismo contro Israele del periodo precedente alla fatidica guerra del Golfo. Per Arafat, dunque, un motivo in più per fare di necessità virtù e della rabbia ( se ben amministrata) del suo martoriato proletariato una merce di scambio da gettare sul tavolo delle trattative.

Il bottegaio dell’Olp in questo caso i conti li ha fatti quadrare. Fiutata l’aria, compreso che gli spazi si erano irrimediabilmente ristretti, è riuscito a trasformare la sua debolezza in una piccola arma di ricatto da usare nei confronti degli . Sì alla “pax americana”, sì alla rinuncia a tutte le velleità del vecchio programma nazionalistico, ma riconoscimento politico e soldi in cambio di una politica repressiva contro ogni forma di opposizione al trattato di pace. In questo senso Arafat ha voluto garanzie. Almeno dieci miliardi di dollari dovranno finanziare “i costi politici” dell’operazione. Che a sborsarli siano gli stessi Stati Uniti, la Banca Mondiale o il Fmi non ha importanza, quello che conta è che tutto ha un prezzo, perfino la mancanza di coerenza e di dignità o se si preferisce, l’eccesso di senso dell’opportunismo.

Le argomentazioni che hanno giustificato e sorretto il grande passo, rivolte all’interlocutore d’oltre oceano perché capisse, e all’opposizione interna perché si placasse, sono state astute ed efficaci. “Se in gioco c’è l’obiettivo di calmare le acque all’interno dell’area petrolifera, se per fare questo devono tacere le istanze nazionalistiche del popolo palestinese, se la stessa Olp dovrà sobbarcarsi l’onere di garantire nella gestione amministrativa dei “suoi” territori ogni forma di opposizione alla “pax”, allora che un po’ di quei petrodollari vadano a rimpinguare le casse dell’Olp. In termini più espliciti Arafat chiede soldi in cambio del ruolo poliziesco contro l’integralismo di Hamas o di qualsiasi organizzazione che si frapponga ai mega interessi del’imperialismo americano nell’area e ai pidocchiosi programmi della sconfitta borghesia palestinese. “O mi date i soldi oppure sarete voi a dovervela vedere con il radicalismo di Hamas”.

Lo scontro tra le due componenti della borghesia palestinese

L’accordo, così come è andato maturando nei suoi limiti e nei suoi aspetti contraddittori ha innescato un serio processo di scollamento all’interno della borghesia palestinese. Formalmente lo scontro ha preso le mosse dalla forma e dai contenuti che hanno reso possibili gli accordi.

Il numero due dell’Olp Faruk Kaddumi, i membri della delegazione che sedevano al tavolo ufficiale delle trattative e che sono stati “saltati” dalla diplomazia sotterranea e buona parte di coloro che vivono nei territori occupati a fianco dei Coloni e sotto il peso della polizia israeliana, sono insorti contro Arafat. L’accusa più pesante è stata quella di aver svenduto la causa palestinese. C’è chi ha parlato di una vera e propria capitolazione, di tradimento. Secondo gli oppositori del segretario dell’Olp, mai e poi mai si sarebbe dovuto firmare un accordo che non prevedesse sin dall’inizio la nascita, anche se parziale e geograficamente limitatissima, di uno Stato palestinese. Già troppo e troppo in fretta si era concesso al nemico sionista. Se si tiene conto che, in tempi non sospetti, quando Arafat brandiva lo slogan della distruzione dello stato d’Israele erano proprio i suoi attuali oppositori a richiamarlo ad un maggior senso della realtà, si può avere l’idea del salto mortale operato dal leader dell’Olp e delle preoccupazioni dei suoi oppositori che da critici di destra si sono trovati improvvisamente alla sua sinistra senza avere avuto il tempo e il modo di affrontare la questione nei suoi termini fondamentali. Per loro, solo a cose fatte, si è posto il problema di organizzarsi per limitare i danni.

A scalare sono state quelle riferentesi alla mancanza di democrazia all’interno dell’Organizzazione, di dirigismo politico che qualcuno, con meno eufemismi, ha definito “insopportabile dittatura personale”. Ai delegati e ad una parte dei membri dell’Olp non è assolutamente piaciuto che, mentre gli ufficiali rappresentanti dei Palestinesi sedevano al tavolo delle trattative con il mandato di operare all’interno di un piano di richieste e di concessioni stabilito recentemente, Arafat e pochi fedelissimi si accordassero con gli e Israele, giocando su tavoli separati e con una posta che non competeva loro stabilire in nessun caso, tanto meno in quei termini.

Ma le ragioni reali del dissenso sono altre. Certamente il “dirigismo” di Arafat, l’estrema compromissione degli accordi per le già ridimensionate richieste Palestinesi, hanno avuto il loro peso, ma alla base dello scontro all’interno dell’Olp ha avuto un ruolo determinante il diverso “essere” economico della grande borghesia finanziaria, di cui Arafat è sempre stato il fedele paladino, e della piccola e media borghesia operante nei territori occupati. Il diverso “essere” economico, le mutate condizioni internazionali hanno fatto sì che il fronte borghese si scomponesse sugli obiettivi immediati da raggiungere.

Da sempre la grande borghesia palestinese, residente nelle capitali medio orientali (Cairo, Damasco, Baghdad ecc.) se non in Europa e in America ma non certamente nei territori occupati, ha svolto principalmente due attività, quella finanziaria e quella commerciale, in alcuni casi tutte e due contemporaneamente. La speculazione e gli investimenti hanno rappresentato per decenni la base su cui si sono creati dei piccoli imperi finanziari.

Ancora oggi questo settore della borghesia palestinese controlla il pacchetto azionario di maggioranza della Arab Bank che ha filiali e interessi in tutto il mondo Stati Uniti compresi. Commercia e traffica in tutto: piccole partite di petrolio off shore , macchinari, utensileria minuta, armi e droga. Con i proventi di queste attività commerciali e parassitarie organizza investimenti in Canada nel nord Europa e nello stesso Medio Oriente. In più, da circa quarant’anni, gestisce il 60% della rete di trasporti su gomma in Giordania e in Cisgiordania. È nel suo piccolo una forza, che non disponendo ne di uno stato ne di un punto di riferimento geografico si è vista costretta a scegliere di volta in volta questo o quel domicilio senza per altro venir meno alle proprie attività economiche. Il Cairo, Amman, Beirut ma anche la Libia, gli Emirati arabi uniti e la Siria sono stati, a seconda delle circostanze e dell’evolversi degli episodi bellici, le tappe di questa borghesia itinerante.

Da qui il desiderio di uno stato in cui finalmente operare, gestire i propri interessi senza dover chiedere ospitalità a nessuno e , soprattutto, senza dover pagare tangenti in cambio dell’ospitalità ricevuta.

Ma per questa borghesia, che lungamente ha inseguito il sogno di un suo stato palestinese da cui continuare a svolgere le proprie attività finanziarie e commerciali, è arrivato il momento della riflessione. Troppe le avversità e le circostanze negative perché si potesse continuare ad alimentare il sogno. Al dictat americano non si poteva rispondere di no sarebbe stata la rovina completa, meglio abbassare la testa, prendere quello che offriva l’oste a stelle e strisce, tentare cioè di ricavare il massimo risultato dalla situazione meno favorevole.

L’autonomia amministrativa nella striscia di Gaza e a Gerico non ha nulla a che vedere con l’auspicata nascita dello stato palestinese, e probabilmente non è il primo passo, pur tuttavia per le ridimensionate aspirazioni di una borghesia parassitaria questo potrebbe bastare. Non è molto, anzi. Ma non avendo problemi di impiego produttivo, di gestione imprenditoriale ne di controllo diretto dello sfruttamento della forza lavoro nella fabbrica e sul territorio, e facendo ancora una volta di necessità virtù, ci si può accontentare. In mancanza di meglio gli interessi finanziari si possono curare anche dagli uffici di Gerico o di Gaza. L’amministrazione e il riciclaggio del plusvalore estratto altrove non necessitano di particolari strutture politico istituzionali tipiche di uno stato, possono essere sufficienti una sede fisica autonoma ed una struttura terziaria efficiente.

Lo stesso discorso non vale per la piccola e media borghesia palestinese. Ben lontani dai grandi interessi finanziari di ubicazione internazionale, costretti a “condividere” lo spazio con i coloni sionisti, per i piccoli produttori agricoli e per i piccoli imprenditori artigianali come per i commercianti di derrate alimentari, il possesso fisico del luogo, della terra o della fabbrica, riveste un’importanza primaria.

Uno stato palestinese, anche se piccolo e geograficamente mutilato rispetto alle ambizioni originarie, avrebbe comunque garantito ai piccoli produttori Palestinesi quella sicurezza economica e politica di cui ogni borghesia imprenditoriale, piccola o grande, ha bisogno.

Ciò non vuole assolutamente significare che la “forma” stato sia determinante solo per la piccola borghesia mentre la grande ne può fare a meno, può farne un uso saltuario. Tutta la storia del capitalismo ha mostrato esattamente il contrario. Lo Stato in quanto strumento politico del dominio di classe è la condizione politica necessaria attraverso la quale la grande borghesia attua la sua dittatura. Non si è mai dato, se non in casi del tutto particolari, che una struttura statale fosse l’espressione politica delle piccole stratificazioni del ceto medio o di altre categorie che non fossero quelle legate ai destini economici del grande capitale.

L’eccezionalità della situazione palestinese consiste nel fatto che, se l’autonomia amministrativa concessa dagli accordi dovesse in un futuro, molto lontano e molto incerto se si tengono in considerazione le dichiarazioni di Rabin (“noi non prendiamo nemmeno in considerazione la possibilità della nascita di uno stato palestinese nei territori occupati”) trasformarsi in entità statale, quello stato sarebbe lo stato della grande borghesia palestinese. Oggi, nell’incertezza degli avvenimenti e nella certezza della propria debolezza contrattuale su di un simile obbiettivo, la grande borghesia finanziaria e commerciale può temporeggiare ancora senza penalizzare più di tanto i propri interessi, i rappresentanti della piccola borghesi di stanza nei territori occupati si sentono colpiti al cuore dei loro sentimenti nazionalistici, e quello che più conta, dei loro interessi economici, anche se miseri.

Ecco perché la firma degli accordi è stata caldeggiata da Arafat e dal grande capitale mentre i rappresentanti dei territori occupati hanno arricciato il naso o si sono apertamente dichiarati contrari gridando al tradimento.

Il capo dell’Olp ha avuto non pochi problemi a far passare la linea della “pax” americana. A parte gli integralisti di Hamas, che da sempre hanno osteggiato le linee politiche compromissorie di Arafat, la dirigenza palestinese ha dovuto fare i conti anche con alcuni fedelissimi e soprattutto con l’ambiente politico di Gaza e della Cisgiordania, i luoghi cioè, degli insediamenti economici della piccola borghesia palestinese.

Ai proletari palestinesi niente

Il proletariato palestinese il più vessato e diseredato dell’area, non è mai riuscito ad assumere una posizione autonoma nei confronti della sua borghesia e della sua organizzazione politica, l’Olp. Anche quando dal suo seno, o in suo nome, si sono prodotte delle strutture partitiche o più semplicemente dei gruppi di sinistra, quali il Fplp di Abbash e il Fdlp di Hawuatmeh, sedicenti comunisti e rivoluzionari, non si è mai andati al di là di una impostazione stalinista, ovvero di un programma politico ispirato da una strategia nazionalistica ammantata di opportunismo sinistrese. In decenni di lotte e di sacrifici, per i proletari dei campi profughi sparsi in tutto il Medio Oriente, l’unica alternativa al nazionalismo borghese di destra, sembrava essere il nazionalismo borghese di sinistra, dove al termine destra e sinistra occorre dare una connotazione riferentesi ai principi della sociologia politica e non ai contenuti di classe che erano esattamente gli stessi.

Con diversa tattica, con un approccio al leninismo non mediato dai mille filtri opportunistici e controrivoluzionari espressi dalle sinistre facce dello stalinismo, in presenza di un partito comunista, forte nella strategia di classe, forse per il proletariato palestinese si sarebbero potuti aprire scenari politici diversi per se e per il proletariato di tutta l’area medio orientale.

Per la sua condizione di pendolarità il proletariato palestinese, se sottratto al canto nazionalistico delle sirene borghesi, avrebbe potuto fungere da veicolo politico-rivoluzionario nei confronti dei proletari dei paesi che lo ospitavano.

Senza patria, senza nemmeno un pinto di riferimento geografico, costretto a vendere la sua forza lavoro in Egitto, in Arabia Saudita, in Giordania come in Kuwait o negli Emirati del Golfo, a contatto con i lavoratori autoctoni, il proletariato palestinese avrebbe potuto fare della sua rabbia e della sua disponibilità ai sacrifici e alla lotta un esempio da imitare. Avrebbe potuto trasformarsi in una sorta di modello trainante per i diseredati del Medio Oriente, il perno della rivoluzione proletaria in tutta l’area.

Ma così non è stato. Sirene nazionalistiche borghesi a parte, quelle stesse organizzazioni di sinistra che sono sorte nel suo seno, hanno portato con loro il segno dei tempi, della degenerazione stalinista. Tra le masse Palestinesi si è prodotto , a partire dagli anni cinquanta, quello stesso perverso fenomeno politico che ha disarmato politicamente il proletariato europeo, e più in generale quello occidentale. La “via nazionale al socialismo” è stata anche da quelle parti, pur facendo le debite differenze sulla eccezionalità della lotta in questione e del suo contesto internazionale, la tomba delle aspirazioni proletarie.

per un decennio sono stati chiamati a soffrire e a combattere per un obiettivo che la loro borghesia riteneva utile oltre che possibile. A decine di migliaia sono morti sui campi di battaglia, trucidati dallo Stato sionista, ma anche dagli eserciti dei paesi “fratelli” in nome di una patria e di uno stato che comunque non sarebbero stati loro.

Da sempre hanno sostenuto una borghesia progressivamente disposta a svendersi pur di ottenere uno straccio di riconoscimento ufficiale ed un lembo di terra su cui costruire i propri uffici amministrativi.

Con la ratifica parigina gli accordi su Gaza e Gerico il proletariato palestinese si è visto togliere anche le ultime illusioni di miglioramento futuro, per lui nemmeno una piccola briciola di speranza.

le cose si erano già messe molto male dopo la crisi del Golfo. L’originaria scelta di Arafat di appoggiare il regime di Saddam Hussein nella sua avventura petrolifera, non solo aveva penalizzato finanziariamente la borghesia palestinese inibendole l’abituale accesso ai finanziamenti dei paesi petroliferi, ma aveva fatto si che centinaia di migliaia di proletari Palestinesi venissero allontanati dai paesi “ospitanti” con il risultato di accrescere enormemente il già elevato tasso di disoccupazione, trasformando il popolo palestinese in una massa di miseri disoccupati, senza patria, senza stato e senza lavoro.

Le cifre sono impressionanti. A Gaza la disoccupazione sfiora l’80%. in Cisgiordania è al 50% di cui l’80% è rappresentato da lavoratori Palestinesi e solo il 20% da lavoratori giordani. In trecentomila hanno dovuto precipitosamente abbandonare il Kuwait senza trovare alcuna alternativa di lavoro. Altrettanti sono stati soppiantati nel loro posto di lavoro in Israele dalla immigrazione ebraica proveniente dalla Russia e dai paesi sovietici.

Gli accordi hanno fatto il resto. “Tutti nella riserva di Gaza”, senza lavoro, senza alloggi, in piedi sulla spiaggia come tanti bambini senza clienti. Buoni e in silenzio altrimenti interviene la polizia di Arafat pagata con i dollari della Casa Bianca.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.