A proposito de “Il mondo senza confini”

L'angolo della discussione

Sono in corso mutamenti e avvenimenti di portata storica. Come il compagno che ci scrive, anche noi crediamo che la polemica sul terreno del marxismo aiuti ad affinare gli strumenti per analizzarli al meglio e quindi a migliorarne la conoscenza. Il marxismo per arricchirsi e progredire ha bisogno del dibattito e del confronto come gli uomini dell'aria che respirano. Il suo vero nemico è la chiusura in sé stessi, l'ottusa difesa del proprio orticello, la pretesa di esserne i depositari. Pubblichiamo di seguito la lettera del compagno Belcamino e la nostra risposta nella speranza di poter dar vita a un angolo in cui finalmente un numero crescente di compagni si decida a intervenire sui più scottanti problemi dell'attualità.

Cari compagni,

consentitemi d'intervenire sul saggio del compagno G. Paolucci intitolato "Il mondo senza confini" apparso sulla rivista teorica Prometeo n. 11 di giugno '96, in cui vengono affrontati temi di estremo interesse e di scottante attualità per la ripresa del marxismo rivoluzionario. Fa piacere vedere dei compagni che volano a così alta quota dopo essere stati assordati dalle miserie politco-economiche dei vari D'Alema, Bertinotti, Cofferati ecc. Anch'io penso che una rinascita del marxismo passi necessariamente per un riapprofondimento e della teoria filosofica e di quella scientifica (Il Capitale) applicate ai fenomeni concreti del nostro tempo. Questo è il punto di partenza e da qui si deve procedere se si vuole afferrare il bandolo della matassa per risolvere la crisi del marxismo ("per sé" non "in sé"). Ma veniamo al dunque.

Per non dilungarmi troppo e rischiare di non catturare la vostra attenzione, vorrei soffermarmi su tre aspetti dell'articolo-saggio di Paolucci:

  1. i limiti scientifici della concezione ultraimperialistica di Hilferding e Kautsky;
  2. le verità economico-sociali di Kenichi Ohmae e di quella Keynesiano-internazionalista di Dahrendorf (assieme al riformismo globale del gruppo di Lisbona);
  3. Che non si possono produrre nuovi studi oltre quello dell'imperialismo di Lenin, pena la caduta nella fantascienza del superimperialismo di Kautskj.

È ovvio che nel trattare questi tre aspetti, i miei giudizi non sono del tutto collimanti con le interpretazioni dell'articolista, ma con questo, spero, non ve abbiate a male se polemizziamo sul terreno del marxismo per approfondire e progredire il pensiero comunista, condizione per contribuire alla formazione di una dirigenza internazionale del proletariato che non è mai caduta dal cielo.

Passiamo ad esaminare il primo punto. L'errore di Hilferding (e di Kautsky) è stato quello di credere che motore che porta alla caduta tendenziale del saggio medio del profitto sia la concorrenza e non, invece, le modificazioni alla composizione organica del capitale che a sua volta dipende dallo sviluppo delle forze produttive del Capitale.

La missione di quest'ultimo è quella di rivoluzionare i metodi produttivi per conseguire l'autovalorizzazione, ma così operando salta alla mente la contraddizione fondamentale tra mezzi di lavoro e finalità del processo di produzione capitalistica. La concorrenza, invece, funziona allorché si tratta di accaparrarsi la massa del profitto (equivalente complessivamente alla massa totale del plusvalore). Qui, le imprese a più alta concentrazione di capitale, compensano la caduta del saggio di profitto con l'aumento della massa. In caso di crisi, la concorrenza si estrinseca come lotta tra fratelli nemici (così si esprime Marx) per limitare la perdita complessiva che è data anche da una riduzione della massa del profitto. Perciò, ipotizzando come fa Hilferding, un unico cartello mondiale che controllerebbe la produzione complessiva, tale cartello potrebbe accaparrarsi tutta la massa del profitto, ma non potrebbe sfuggire, in regime capitalistico-utltraimperialistico, alla legge della caduta del saggio medio del profitto. La controtendenza dell'alzata dei prezzi in regime di monopolio per realizzare extra-profitti, può solo frenare ma non invertire la legge, in quanto il capitale addizionale per autovalorizzarsi deve sempre risparmiare una quota di Cv in misura maggiore del capitale costante messo in attività e, quindi, determinando la caduta del saggio medio del profitto. La soluzione fantascientifica sia di Hilferding che di Kautsky deriva, quindi, da un'errata interpretazione delle leggi di movimento capitalistiche, così come sono descritte da Marx. Nello stesso errore d'incomprensione cade il compagno Paolucci, quando, a pag. 6, scrive:

Senza il freno operato dai processi di concentrazione del capitale alla caduta tendenziale del saggio medio del profitto [sic!], il conflitto tra i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive [...] sarebbe risultato già da tempo insanabile e il capitalismo avrebbe già tirato le cuoia.

Errore concettuale, in quanto la concentrazione non frena, non può frenare la caduta del saggio di profitto che, anzi, è determinata proprio da quel processo, bensì aumenta la quota della massa che va appannaggio del capitale industriale. Di seguito, l'articolista aggiunge:

La concentrazione, ovviamente, non elimina la contraddizione, ma in qualche modo la assopisce riproponendola però su scala sempre più vasta.

La contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione viene assopita dai processi di concentrazione?! Marx ha insegnato che succede esattamente il contrario. Forse era la concentrazione mentale del nostro articolista che si stava mettendo in gioco! (mi si perdoni l'ironia). Però, più avanti, ne scrive una più grossa:

I processi di globalizzazione [...] puntano al rafforzamento delle posizioni monopolistiche e, ciò che più conta, del dominio del capitale finanziario ovvero dell'appropriazione parassitaria di plusvalore che è una delle più efficaci [!] forze antagonistiche alla caduta tendenziale del saggio medio del profitto [!!].

Qui l'appropriazione di plusvalore da parte del capitale finanziario non può che riferirsi alla massa di plusvalore e, quindi, per conseguenza concettuale, alla massa di profitto. Ora, la massa di profitto non è una forza antagonistica alla caduta tendenziale del saggio, bensì è il risultato simultaneo di questa di cui beneficiano di più i capitali più forti, ossia: ad alta concentrazione. La stessa confusione di Hilferding tra massa e saggio del profitto per il fatto di aver collocato a motore primo della caduta del saggio medio del profitto la concorrenza. L'unica differenza è che il compagno Paolucci, pur partendo da presupposti scientifici errati non approda alle utopie di Hilferding grazie alla sua incoerenza logica e alla fede nelle citazioni (giustissime) di Lenin.

Veniamo al secondo punto.

Il teorico giapponese Ohmae vede la globalizzazione dell'economia come la realizzazione del mercato mondiale attraverso i fax, Internet e le imprese multimediali compresi i satelliti per le telecomunicazioni. Che una delle missioni del capitalismo fosse quella di formare il mercato mondiale, ce lo aveva indicato Marx quasi centocinquanta anni fa, perciò il signor Ohmae non ha fatto altro che aggiungerci i personal computer che, fra l'altro, scorrono copiosi sotto i propri occhi. Niente di nuovo da questo punto di vista. Preferisco di più, come teorico dei processi odierni capitalistici, il Prof. David Harvey che ha teorizzato il modello dell'accumulazione flessibile, a partire dalle modificazioni interne ai processi produttivi del capitale. Ma tant'è. L'unico elemento teorico nuovo che il pensatore giapponese introduce è l'osservazione circa:

la migrazione del potere sull'attività economica dai governi centrali degli Stati-nazione alla rete senza confini formata dalle innumerevoli decisioni individuali prese a partire dalla realtà del mercato.

Citazione riportata nel saggio di Paolucci

Questa tendenza alla costituzione di aree nel mondo dove si concentrano grandi masse di capitali e si verifica un alto tasso di circolazione di merci e di capitali è una realtà che non può essere negata, ma che deve essere spiegata dal punto di vista della teoria marxista. Il compagno Paolucci fa bene a respingere l'ideologia localistica che vorrebbe risolvere la legge della miseria crescente mediante la competizione globale che "rompe il potere del monopolio e restituisce potere al cittadino-consumatore", ma spiega il fenomeno utilizzando erroneamente i concetti scientifici del marxismo, come abbiamo visto sopra, e mediante la concentrazione del capitale che rappresenterebbe un freno alla caduta del saggio medio del profitto. Il fenomeno, invece, della nascita a pelle di leopardo di regioni sviluppate dal punto di vista capitalistico sullo scacchiere mondiale è da attribuire al fatto che, nelle fasi di crisi e discesa del ciclo lungo del capitale (come quello che l'articolista riporta, facendo vedere la riduzione del PNL mondiale a partire dagli anni '70 fino ad oggi) si affaccia la sovracapitalizzazione dovuta alla riduzione complessiva della massa di profitto. Si accende lotta tra i vari capitalisti per ridurre le perdite, naturalmente i capitalisti minori vengono "ammazzati" più facilmente, si distruggono i capitali che fanno aumentare di più la disoccupazione e la miseria. Si assiste, allora, alla riduzione assoluta della classe operaia nelle aree avanzate, alla loro deindustrializzazione e alla industrializzazione di are povere (investimenti diretti che sono una caratteristica del secondo dopoguerra) dove il numero degli operai cresce in assoluto a condizioni di salario molto basso. Non è la concentrazione che frena il saggio del profitto in caduta, bensì l'aumento del saggio di sfruttamento e del numero della classe operaia (plusvalore assoluto) dentro i processi di produzione capitalistica che danno respiro al sistema con l'aumento della massa di plusvalore e, quindi, data l'equivalenza, della massa di profitto.

La sovracapitalizzazione provoca anche l'aumento della sovrappopolazione sia relativa che cronica. È l'aumento della sovrappopolazione cronica a provocare la restrizione delle aree sviluppate della terra dove la concentrazione di capitale è più alta. La sovrappopolazione relativa, invece, condivide il destino delle fasi di espansione e contrazione del capitale per cui è soggetta a modificazioni nelle aree del mondo in cui è circoscritta l'attività capitalistica. Quando il mercato si satura dentro queste aree, entra in gioco la concorrenza che provoca ulteriori distruzioni di capitale (messa fuori opera oppure elevazione del tasso di inutilizzo degli impianti), il che non fa che restringere ancor più la territorializzazione e la popolazione che " beneficiano" dell'attività frenetica del sistema capitalistico dove aumenta in maniera crescente il rapporto tra massa di capitale e aerea geografica in cui tale capitale si concentra. Attorno a quest'area, che si restringe sempre più, si va allargando il mare di miseria, degrado e abiezione della popolazione mondiale. "Suonano le campane della rivoluzione", purtroppo l'avvenimento è ritardato dal basso grado di coscienza e organizzazione del proletariato mondiale. Questa è la vera tragedia del nostro tempo.

Ci sarebbe da aggiungere altro sul neo-keynesianesimo, ma mi rendo conto che il discorso diventa troppo lungo per una lettera. Preferisco soffermarmi, invece, sull'altra opzione: quella che centralizza il potere economico nelle mani di un'infima oligarchia finanziaria mondiale e che risponde alla tendenza in atto nella storia sin da quando si è passati dal capitalismo concorrenziale a quello imperialistico.

All'epoca di Lenin, la borghesia monopolistica aveva centralizzato il suo potere, sottomettendo alle sue esigenze il potere statale e volgendo a strumenti dello stato capitalista i sindacati mediante il legame organico con la burocrazia e l'aristocrazia operaia; oggi, nel dopoguerra e a partire dagli inizi degli anni '70, la borghesia monopolistica è diventata una borghesia multinazionale che ha centralizzato il suo potere legando a sé non uno, ma più stati nazionali, poveri o ricchi che siano. Siamo nell'era dell'imperialismo multinazionale in cui si assiste alla stretta connessione tra aziende multinazionali e istituzioni mondiali finanziarie (il Governo mondiale dell'economia). Sono quest'ultime a dettare le linee di politica economica agli stati. Ciò in sintonia con la crescita e la liberazione delle legislazioni statali del capitalismo finanziario internazionale che ha centralizzato il suo potere su scala mondiale, sottoponendo le politiche degli stati nazionali ( e dell'imperialismo nazionale) a quelle globali del cambio e del sistema di liquidità internazionale. L'imperialismo nazionale si trova così subordinato a un'entità sovranazionale, diventando una sezione delle attività e mobilità complessive di questa. Le contraddizioni interimperialistiche si sono trasferite dal terreno nazionale a quello dei grandi gruppi finanziari e "conglomerates" multinazionali che, sotto l'aspetto territoriale si concentrano nelle tre grandi aree sovranazionali: quella giapponese-asiatica, quella USA-americana e quella dell'Unione Europea. All'interno di ciascuno di questi centri agiscono tensioni, lotte accanite e contrasti di interesse che, tuttavia, si compongono, temporaneamente, sotto la spinta dell'interesse superiore dei gruppi più forti. Mentre più seria ed acuta diventa la situazione internazionale allorché i contrasti si affacciano tra questi tre grandi fronti imperialistici che lottano per il predominio mondiale assoluto. Ho cercato di sintetizzare il risultato di alcune mie ricerche, raccolte in un saggio, pubblicato circa 10 anni fa, sotto il titolo "Il Superimperilalismo" (che come spiego, a più riprese, nell'opera citata, non ha nulla a che vedere con i concetti di Kautsky e Hilferding che facevano riferimento ad una fase utopistica, e i cui meccanismi vengono spiegati da me alla luce dei concetti scientifici del Capitale). Se foste curiosi di leggerlo, sarei onorato di mandarvelo in omaggio, anzi forse vi chiederei in cambio il libro su Gramsci di O. Damen. Non l'ho mai letto e mi piacerebbe .

E, per finire, vengo al terzo punto. Secondo l'articolista, ma immagino che tutta la redazione di Prometeo condivida il suo pensiero:

la storia ha smentito le ipotesi di un nuovo stadio del capitalismo oltre quello dell'imperialismo.

E ancora, a pag. 10:

il rafforzamento del dominio del capitale in ogni attività esclude perciò stesso l'ipotesi che da essa [mondializzazione dell'economia - ndr] possa scaturire un nuovo studio del capitale oltre quello dell'imperialismo [per comodità discorsiva, ho cambiato solo i tempi verbali].

Da queste note si evince, chiaramente, che non vi può essere aggiunto altro studio sul capitalismo che ne individui una fase nuova per il fatto che niente nega, allo stato dei fatti, un rafforzamento del dominio capitalistico in ogni attività, compresa quella finanziaria. Ma allora neanche Lenin avrebbe dovuto permettersi di scrivere il saggio sull'Imperialismo dato che esso non apporterebbe nulla di nuovo a quanto affermato da Marx: che il Capitale, nel corso del suo movimento, sussuma sotto di se tutte le altre attività e impronti della sua forza dinamica tutte le altre "sovrastrutture pratiche", in primo luogo quella finanziaria! Si approfondisce e arricchisce il quadro scientifico-teorico del Capitale, a livello storico, tutte le volte che appaiono dei fenomeni nuovi che indicano delle modificazioni nelle leggi di funzionamento, il che non significa mettere in naftalina le categorie scientifiche del Capitale che restano valide fin quando sopravviverà questa formazione storico-sociale, bensì di registrare i modi di esistenza, le forme fenomeniche nel loro rapporto con i concetti scientifici del Capitale. Si tratta, cioè, di trovare nel reale concreto le astrazione scientifiche che mostrano i limiti di una certa realtà e indicano le condizioni del suo superamento, assolvendo a quel ruolo del "principio di negatività" contenuto nel pensiero di Hegel, in forma astratta, ma ben piantato sulla scienza del rovesciamento materialistico di Marx ed Engels.

Saluti comunisti

Alberto Belcamino

Caro compagno,

Concordo pienamente con te, nel ritenere che non sia la concorrenza il motore della caduta tendenziale del saggio medio del profitto, ma le contraddizioni proprie del processo di accumulazione del capitale. Marx d'altra parte lo sottolinea a più riprese e anche un autodidatta con la "concentrazione mentale fuori gioco" come me alla fine lo comprende.

Tu dici:

la concentrazione non frena, non può frenare la caduta del saggio di profitto che, anzi, è determinata proprio da quel processo, bensì aumenta la quota della massa che va appannaggio del capitale industriale...

E ancora:

non è la concentrazione che frena il saggio del profitto in caduta, bensì l'aumento del saggio di sfruttamento e del numero della classe operaia (plusvalore assoluto) dentro i processi di produzione capitalistica che danno respiro al sistema con l'aumento della massa di plusvalore, e quindi, data l'equivalenza, della massa del profitto.

E, a parte quell'equivalenza fra massa del plusvalore e massa del profitto su cui tornerò in seguito, a ciò c'è poco da obiettare. Con la concentrazione dei mezzi di produzione, infatti, il capitale costante cresce proporzionalmente più di quello variabile e quindi tendenzialmente opera come fattore di caduta del saggio medio del profitto, ma... ed eccoci al primo ma, solo tendenzialmente. Marx non definisce a caso la caduta del saggio medio del profitto tendenziale; lo fa perché è perfettamente consapevole che assumendo la legge in quanto tale essa non spiegherebbe alcunché.

La concentrazione dei mezzi di produzione, per esempio, se osservata nel suo svolgersi come processo reale, dà luogo non solo a modificazioni quantitative della composizione organica del capitale, ma anche a modificazioni qualitative della combinazione produttiva. Più capitale costante significa sicuramente meno operai; ma anche macchine più moderne che consentono di incrementare proprio quel grado di sfruttamento del lavoro che tu giustamente indichi come una delle cause antagonistiche della legge. Perdonami la citazione, ma in questo caso dare la parola a Marx può farci risparmiare una valanga di parole e di carta. Egli scrive:

Il grado di sfruttamento del lavoro e l'appropriazione del pluslavoro e del plusvalore vengono soprattutto accresciuti mediante il prolungamento della giornata lavorativa e l'intensificazione del lavoro stesso. Ambedue questi punti sono svolti esaurientemente nel Libro I a proposito della produzione del plusvalore assoluto e del plusvalore relativo... È già stato dimostrato... che tutti i procedimenti che hanno come fine la produzione di un plusvalore relativo tendono complessivamente a ciò: da un lato a convertire in plusvalore la maggiore possibile quantità di una determinata massa di lavoro, dall'altro ad impiegare in proporzione al capitale anticipato il meno possibile di lavoro, cosicché le medesime cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento del lavoro, impediscono che - impiegando lo stesso capitale complessivo - venga sfruttata la stessa quantità di lavoro di prima. Queste sono le tendenze antagonistiche che, mentre spingono verso un aumento del saggio del plusvalore, influiscono al tempo stesso nel senso della diminuzione della massa del plusvalore prodotto da un capitale determinato e quindi nel senso della diminuzione del saggio del profitto.

Capitale - Libro Terzo cap. 14 pag. 327 e 328 Ed. Einaudi

La caduta tendenziale del saggio medio del profitto, insomma, non è il prodotto di una concatenazione logica di eventi, ma è un processo dialettico i cui termini si affermano e si negano continuamente. Ne scaturisce una tendenza, appunto, e una dinamica del mutamento che non annulla le contraddizioni da cui il processo si origina, ma le attenuano e contemporaneamente le ingigantiscono. Le cause che lo determinano lo ostacolano e viceversa benché il motore primo del movimento risieda nel processo di accumulazione del capitale. Se c'è un'errata interpretazione delle leggi del movimento capitalistiche, questa consiste proprio nel non cogliere che:

le medesime cause che determinano la caduta del saggio del profitto, danno origine a forze antagoniste che ostacolano, rallentano e parzialmente paralizzano questa caduta.

Altrimenti,

non sarebbe la caduta del saggio del profitto ad essere incomprensibile, ma al contrario la relativa lentezza di questa caduta.

Il Capitale, libro terzo, cap. 14, pag. 336, ed. Einaudi

Poiché il profitto non è altro che plusvalore, è evidente che in ultima istanza tutto il processo è riconducibile alle sue variazioni positive e negative; ma quando parliamo di cause antagonistiche ci riferiamo al come si arriva a queste variazioni. Ora, i processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali non sono solo un freno per la concorrenza, come - mi pare di capire - tu ritieni; ma racchiudono anche tutti i meccanismi con cui quelle variazioni si determinano. Assumerli nel loro insieme come una causa antagonistica non mi pare, dunque, implichi per forza di cose confusione mentale, né la convinzione che sia la concorrenza il motore della caduta tendenziale del saggio medio del profitto.

E se vai a rileggerti le cause che Marx indica come antagonistiche alla caduta del saggio medio del profitto ti accorgi che sono tutte dialetticamente connesse con questi processi. D'altra parte anche tu, in qualche modo lo riconosci quando dici che:

la concentrazione... aumenta la massa (del profitto) che va appannaggio del capitale industriale.

E che:

Il monopolio... può frenare... la legge.

Il monopolio non è forse il figlio primogenito dei processi di concentrazione dei mezzi di produzione?

Della crescita della massa del profitto parleremo fra poco.

Mi sembra, in verità, che la tua obiezione sia tutta condotta sul filo del rigore formale che in qualche caso può essere anche utile, ma che è sicuramente dannoso quando impedisce di andare a leggere più da vicino quei fenomeni che più caratterizzano proprio la fase dell'imperialismo ovvero il capitalismo del nostro tempo.

Per esempio, un'altra valanga di sic e di punti esclamativi accompagnano il commento di quella che per te è la perla più splendente dell'intero articolo; ma anche qui mi sembra abbia prevalso la deformazione professionale che spinge voi professori a bacchettare tutti e tutto. Qui si voleva far riferimento al fatto che il capitale finanziario in generale consente la realizzazione di extra-profitto determinando uno spostamento di plusvalore allo stesso modo dell'aumento dei prezzi in regime di monopolio e altresì che trattasi di capitale che in gran parte si comporta come il capitale azionario; ma tu vi hai trovato:

la stessa confusione di Hilferding tra massa e saggio del profitto per il fatto di aver collocato a motore della caduta del saggio medio del profitto la concorrenza.

Rileggiamo con calma quanto scrivi:

Qui l'appropriazione di plusvalore da parte del capitale finanziario non può che riferirsi alla massa di plusvalore e, quindi, per conseguenza concettuale, alla massa di profitto. Ora, la massa di profitto non è una forza antagonistica alla caduta tendenziale del saggio, bensì è il risultato simultaneo di questa di cui beneficiano di più i capitali più forti, ossia: ad alta concentrazione.

Se il compagno Belcamino leggesse quello che qui ha scritto il compagno Belcamino con lo stesso animus critico con cui ha letto Prometeo... Intanto rileverebbe che a determinare la crescita della massa del profitto non è la caduta del saggio medio, ma è l'aumento della massa del capitale complessivo impiegata che determina la caduta del saggio medio e la simultanea crescita della massa del profitto. Si riterrebbe dunque legittimato ad attribuire all'autore l'adesione ai principi dell'economia volgare secondo cui è la concorrenza che costringe il capitalista a diminuire il prezzo di vendita delle merci e perciò il saggio del profitto, ma che, nello stesso tempo, consentendo tale diminuzione un incremento delle vendite essa si traduce in un aumento della massa del profitto.

Rileverebbe anche che dicendo che “la massa del profitto... è il risultato...” quando invece è la crescita della massa che è il risultato, il fenomeno perde qualunque significato poiché scompare il moto contraddittorio che lo determina e per cui l'incremento della massa del profitto, in concomitanza con la caduta del saggio medio del profitto, rende la legge - come dice Marx - una "legge a doppio taglio" ovvero che essa si esprime come prodotto di tendenze opposte: la diminuzione del saggio e l'aumento della massa del profitto quale freno di questa diminuzione. E, Infine, direbbe: "Ma come, quando si tratta di negare che la concentrazione del capitale possa operare come causa antagonistica, il compagno Belcamino dice che è l'aumento del saggio di sfruttamento e del numero della classe operaia che danno respiro al sistema con l'aumento della massa di plusvalore e quindi... della massa del profitto"; quando invece si tratta del capitale finanziario, la crescita della massa del profitto... stacca la canna.

Ma a parte queste - chiamiamole così - pignolerie del compagno Belcamino che legge il compagno Belcamino e tornando alla nostra questione, all'autodidatta di bocca buona basta comunque leggere che beneficiano della massa del profitto (così scrivi tu...) “i capitali più forti, ossia: ad alta concentrazione”. Vuoi vedere che la concentrazione dei mezzi di produzione serve anche ad attivare forme quantomeno di compensazione della diminuzione del saggio medio del profitto?

E qui, per tornare nel merito della tua obiezione, è necessaria un'altra piccola sosta per dire che se l'equivalenza in via concettuale fra massa del plusvalore e massa del profitto è corretta quando si deve dimostrare la legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto, non lo è invece quando si tratta di esaminare i processi reali d'appropriazione del plusvalore. Ed è solo tenendo nel dovuto conto che esso (il plusvalore) si suddivide in interesse, profitto e rendita che possiamo comprendere tutte le implicazioni dei processi di modificazione in atto a cominciare dalla crescente finanziarizzazione dell'economia e specificatamente della crescita di quella parte del capitale che “viene calcolata e impiegata unicamente come capitale produttivo di interesse...” ovvero di capitali che “non entrano nel livellamento del saggio generale del profitto, dando essi un saggio del profitto inferiore alla media...” operando così in controtendenza alla legge in quanto tale (L'accrescimento del Capitale azionario).

Ovviamente, si tratta di un fenomeno contraddittorio poiché trattandosi comunque di appropriazione di plusvalore, oltre un certo limite, si trasforma in un potente acceleratore della caduta del saggio medio del profitto fino a ritorcersi contro la stessa produzione di plusvalore. Un fenomeno, dunque, che per la sua stringente attualità dovrebbe meritare la nostra massima attenzione.

La realtà è movimento e non accetta di stare in rigidi schemi formali. Spesso si dimentica che tutto il pensiero riformista della II Internazionale parte proprio dall'uso scolastico degli schemi del secondo libro del capitale. In Marx, gli schemi e le formule hanno una funzione -come dire? - pedagogica; si tratta di astrazioni teoriche che servono per meglio evidenziare ora questo ora quell'aspetto del fenomeno indagato; ma guai a rimanervi impigliati come se si trattasse delle formule del manuale del geometra: si corre il rischio di ridurre la riflessione critica a una mera e sterile ricerca tesa a individuare se è nato prima l'uovo o la gallina.

Credo anche io all'utilità della polemica quando è tesa ad approfondire il pensiero comunista; ma ritengo anche che quando essa è fine a se stessa o, peggio ancora, è pretestuosa, non solo non contribuisce alla formazione di una dirigenza internazionale del proletariato; ma la danneggia.

Dico questo in relazione al seguito della tua lettera e specificatamente laddove parli di sovraccumulazione e sovrappopolazione in contrapposizione ai processi di concentrazione del capitale quasi fossero fenomeni appartenenti a pianeti diversi o, al massimo, connessi fra loro da qualche serie di successioni logico-deduttive di aristotelica memoria. E a maggior ragione, se si tiene conto che, nella fattispecie, il riferimento ai processi di concentrazione mirava a contrapporre al nuovo Eldorado di Ohmae in cui, grazie alla globalizzazione, un regime concorrenziale perfetto, che non è mai esistito e mai esisterà, dovrebbe regalare libertà e benessere per tutti, la nuda realtà in cui ciò che avanza è lo strapotere dei grandi gruppi monopolistici internazionali. Punto.

Per quanto attiene l'affermazione che si fa nell'articolo secondo cui "la storia ha smentito le ipotesi di un nuovo stadio del capitalismo oltre quello dell'imperialismo" essa non implica - e ne siamo talmente convinti che siamo qui a discutere proprio di questo - che non "può essere aggiunto altro studio sul capitalismo..."; ma che con l'imperialismo siamo alla fase suprema del capitalismo oltre la quale ci potrà essere solo il superamento rivoluzionario degli attuali rapporti di produzione. Senza con ciò escludere, che di questa fase siano possibili ulteriori sviluppi e la necessità di un suo studio costante . Laddove, nell'articolo si dice che è esclusa ogni ipotesi che da questa fase “possa scaturire un nuovo studio del capitale...” deve leggersi: “possa scaturire un nuovo stadio del capitale...”. Si tratta di un errore di stampa di cui daremo l'errata corrige nel prossimo numero di Prometeo.

Benché mi riservi di approfondire alcuni passaggi, e in ciò la lettura del tuo libro mi sarà certamente utile, mi trovi sostanzialmente d'accordo laddove sottolinei il passaggio delle contraddizioni interimperialistiche da una dimensione nazionale a una sovranazionale e territorialmente identificabile con le aree giapponese-asiatica, Usa-americana, tedesco-europea (per te dell'Unione Europea). In Prometeo qualcosina al riguardo la troverai.

Saluti comunisti.

Giorgio Paolucci

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.