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Home ›Deng e’ morto - Lunga vita al capitalismo cinese
La morte di Deng, fisiologicamente avvenuta il 19 febbraio di quest’anno, quando di fatto il “grande timoniere” era scomparso dalla vita politica da quasi cinque anni, ha riaperto il caso cinese. La stampa borghese nel celebrare la morte dell’ultimo imperatore, non ha lesinato elogi alla Cina post maoista per i suoi successi economici ottenuti dalla graduale conversione al capitalismo. L’Occidente economico e politico, dopo lo storico successo ottenuto contro l’Urss, avrebbe visto con favore che anche la seconda potenza “comunista” del mondo crollasse su se stessa, consentendogli un trionfo da spendere con la proprie masse lavoratrici, più e meglio di quanto non avesse già fatto con la scomparsa del primo paese a “socialismo reale”. In mancanza di ciò, la borghesia occidentale si è accontentata di registrare che la Cina si sarebbe salvata dal tracollo economico solo a condizione di essersi aperta al capitalismo, alla economia di mercato, per tempo senza cadere nei tentennamenti gorbacioviani della perestrojka. A ognuno il suo. A Stalin e Mao la responsabilità di aver contrabbandato il capitalismo di stato per socialismo, alla borghesia internazionale di aver usato al meglio, e nel momento opportuno, l’insuccesso del falso comunismo, a noi il tentativo di fare un minimo di chiarezza. In primis va detto che la nascita della Repubblica popolare cinese, nel ormai lontano ottobre 1949, é avvenuta ad immagine e somiglianza dell’Urss, della sua economia di piano, del suo centralismo economico e politico, di quel capitalismo di stato che lo stalinismo é riuscito a trasformare da involucro della controrivoluzione dell’ottobre bolscevico in “socialismo” all’interno di un solo paese. In Cina come Urss non solo sono rimaste ben salde tutte le categorie economiche capitalistiche, dal capitale al profitto, dalla produzione di merci al mercato, ma si sono potenziate per decenni sotto il vigile controllo dello Stato che tutto amministrava e controllava.
Detto questo ne consegue che la presunta conversione al capitalismo altro non é stato che il passaggio dal capitalismo di Stato al capitalismo privato, prima nel settore dell’economia agricola poi in quello industriale, sino ad interessare il 60% dell’intera economia cinese. Nel 1978 quando il “grande balzo in avanti” ha mosso i suoi primi passi, per il capitalismo di Stato cinese il problema era quello di uscire dalla grande crisi degli anni 1970 nella quale era caduto il capitalismo mondiale, sia nella versione pianificata che in quella tradizionale, dotandosi di quegli strumenti tecnologici e finanziari, di riorganizzazione della produzione e di gestione dei fattori produttivi che meglio avrebbero consentito al capitale nazionale di valorizzarsi e di contenere la maggiore competitività dell’occidente.
La grande riforma non ha reintrodotto il capitale, il suo rapporto con la forza lavoro. Non ha trasformato i beni e i servizi in merci da collocare sul mercato a prezzi remunerati per il capitale, ha solo tolto queste categorie economiche all’esclusivo monopolio dello Stato per conferire loro una dimensione privatistica, più agile, più duttile, più consona alle esigenze concorrenziali, non più legate solo ed esclusivamente ai finanziamenti e alle coperture dello Stato. Il primo passo è stato quello della de-collettivizzazione delle terre. Secondo quel progetto una parte delle aziende agricole sarebbe rimasto nelle mani dello Stato, un’altra parte si sarebbe trasformata in aziende private con l’obbligo di vendere il 50% delle loro merci a prezzi imposti dallo Stato e il restante 50% a prezzi liberi. È stata reintrodotta la proprietà privata dei mezzi di produzione e la libera imprenditoria, prerogative che precedentemente erano appannaggio solo dello Stato, ovvero della Nomenclatura di Partito, la liberalizzazione dei prezzi delle merci e dei servizi, fatta eccezione per un numero limitato di questi regolamentati ancora dagli organismi del Piano.
Nell’industria si è concessa una maggiore autonomia alla imprese. Pur rimanendo nelle mani dello Stato le strutture portanti dell’economia nazionale, molte imprese sono state privatizzate, é nato e si é sviluppato un tessuto ramificato di piccole e medie imprese, ma soprattutto si sono trasformate in società per azioni in grado di autofinanziarsi sulla borsa valori, la prima nata in un paese ad economia pianificata. In altri termini l’economia cinese dotandosi dei primi strumenti finanziari in grado sovvenzionare meglio e più celermente sia le imprese di Stato che quelle private ricorrendo alle tecniche delle economie di “mercato” non avrebbe fatto altro che precedere di dieci anni la perestrojka sovietica. Dieci anni decisivi che hanno consentito a Deng di integrarsi di più e meglio nel mercato mondiale, gli stessi che hanno impedito a Gorbacev di salvare l’Urss dallo sfascio. Chi ha pagato tutto questo, ovviamente, é stato il proletariato industriale e agricolo che, un decennio più tardi, ha visto i ridurre il potere d’acquisto dei salari del 30%, 40% riportandoli a livelli inferiori a quelli del 1978. L’altro aspetto che si é abbattuto sul proletariato cinese é stata la disoccupazione. Le cifre ufficiali non sono mai state rese note, ma certamente alla base della sommossa del giugno 1989, culminata con le feroci repressioni di piazza Tienanmen, oltre alla rabbia per i scarsi salari, per le condizioni di lavoro e per lo sfruttamento sempre più selvaggio, a dare sostegno agli studenti scesi per primi sul terreno dello scontro, c’é stato il peso di migliaia di disoccupati in rappresentanza di un esercito di senza lavoro di almeno due cento milioni di diseredati.
Oggi la Cina, che progredisce a tassi di incremento del Pil dell’8%, che ambisce diventare un polo economico e finanziario dell’area asiatica (grazie alla riacquisizione di Hong kong a partire dal luglio 1997, e di Taiwan a tempi brevi), in concorrenza con il Giappone e in alleanza con gli Usa, o viceversa a seconda delle opportunità, si sta organizzando per il secondo balzo in avanti. Alla base di questo progetto si pongono due condizioni. La prima é che i saggi di sfruttamento della forza lavoro abbiano un incremento che li avvicinino a quelli occidentali. Quindi grandi investimenti nei settori strategici e ristrutturazioni ad alto contenuto tecnologico. La seconda é rappresentata della peculiarità dell’attuale fase del capitalismo mondiale, la globalizzazione. Ovvero il governo cinese deve creare le condizioni perché sempre più consistenti quote del capitale finanziario mondiale investano nel suo mercato, apportando non solo liquidità ma anche tecnologia. Ma perché queste condizioni vengano soddisfatte occorre che le leggi, peraltro già esistenti, che consentono ai capitali stranieri di affluire vengano ulteriormente liberalizzate, e che il mercato interno della forza lavoro sia in grado di proporre dei costi inferiori a quelli praticati nei paesi ad alta industrializzazione, anche del 500%, 600% in meno. A queste condizioni il dopo Deng sarà nelle condizioni di incrementare gli attuali 40 miliardi di dollari di investimenti esteri e di dare ai 50 milioni di ricchi ulteriori vantaggi economici e al resto della popolazione, oltre un miliardo e trecento milioni di persone, un pugno di riso in meno.
fdBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 1997
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