L'Indonesia nella bufera

Con il Giappone venivano considerati un esempio di come il capitalismo poteva esprimersi al meglio, in perenne progressione economica, con la piena occupazione e con una pace sociale che aveva dell’incredibile anche per gli osservatori più ottimisti. Tailandia, Corea, Hong Kong e Indonesia per circa due decenni hanno fatto gridare al miracolo economico e finanziario e sono diventati un punto di riferimento per lo stesso capitalismo occidentale. Oggi però le cose sono cambiate. La crisi ha stravolto queste economie che sembravano inattaccabili, i rovesci di borsa accoppiati alle gigantesche contraddizione nel mondo dell’economia reale, hanno distrutto nello spazio di un mattino i fittizi imperi della speculazione, hanno minato le basi della produzione di merci e servizi e hanno innescato le rivolte della disperazione da parte di lavoratori e studenti ai limiti della sopportazione. Di questo dramma asiatico l’Indonesia è l’esempio più tragico ed evidente. L’inizio del suo miracolo economico è databile con l’ascesa di Suharto al potere con l’aiuto degli Usa. Erano gli anni 1965-68, anni feroci della guerra fredda e il terreno di scontro tra i due imperialismi vedeva nel settore asiatico quello più delicato e strategicamente importante. In quel periodo l’Indonesia, travagliata dalla guerra civile tra la fazione filo sovietica di Sukarno e quella filo occidentale di Suharto, era per l’imperialismo americano la pedina di ricambio alle controverse vicende vietnamite. L’amministrazione usa non ha badato a spese. Qualche milione di dollari e mezzo milione di oppositori filo comunisti annientati e Suharto è salito al potere diventando l’uomo di Washington nell’Opec e la bandiera degli interessi occidentali nell’area. In compenso il regime di Suharto ha goduto di una serie di aiuti e di franchigie che hanno consentito al dittatore presidente di restare al potere per 32 anni, di accumulare un patrimonio personale di 40 miliardi di dollari e di macchiarsi dei più orrendi crimini contro la propria popolazione senza incorrere in nessuna delle sanzioni internazionali. Sotto la sua gestione l’Indonesia è diventato una sorta di stato esperimento nel quale sono confluiti capitali speculativi e imprenditoriali americani e occidentali. Da questo punto di vista ha preceduto, anche se di poco, l’escalation economica e finanziaria dei Nic con modalità che si sono dimostrate praticabili anche in tempi recenti, quelli della cosiddetta globalizzazione. Il gioco è stato relativamente semplice. Da un punto di vista finanziario l’Indonesia si è attrezzata per diventare un paradiso fiscale attirando una quota parte, anche se minima, di quella speculazione internazionale che non amava i canali ufficiali. In aggiunta negli anni settanta e ottanta, sia per la collocazione geografica che per "meriti" acquisiti sul campo, è diventata un porto sicuro per il riciclaggio dei narco dollari e dei proventi derivanti dal traffico di armi. Sul terreno dell’economia tradizionale si è per tempo attrezzata a ricevere le prime esperienze americane di decentramento della produzione. Bassi salari, basso costo del lavoro dovuto agli scarsi oneri fiscali. Supersfruttamento in ogni settore della produzione, orari massacranti e una normativa a salvaguardia del lavoro praticamente inesistente. Ciò ha favorito gli investimenti stranieri ai quali non pareva vero di poter avere a disposizione una mano d’opera assolutamente non tutelata e a costi irrisori rispetto a quelli americani e del vecchio continente. Insomma capitali facili, bassi salari e super sfruttamento sono state alla base del miracolo economico indonesiano. Nulla di strano per un regime capitalistico se non la durata e l’intensità del miracolo la cui eccezionalità è consistita nella somma dei fattori interni ed internazionali che l’hanno resa possibile. Suharto si è giovato per decenni dell’appoggio dell’esercito e dell’alleanza con la borghesia interna di origine cinese sul fronte interno e degli appoggi americani sullo scenario internazionale. Il che gli ha consentito di mettere in atto un regime famigliare al riparo qualsiasi interferenza. Il potere economico era parimenti diviso tra i suoi sei figli come si conviene a un monarca assoluto che dall’alto della gestione incontrastata del potere politico dispensa favori ai suoi famigliare e fame, repressione e morte agli avversari politici.

La crisi

Le crisi arrivano sempre, comunque. Non può esistere sistema economico capitalistico che ne sia esente, e l’Indonesia di Suharto non ha fatto eccezione nonostante le condizioni di favore di cui ha goduto per lungo tempo e largamente in anticipo rispetto agli altri paesi dell’area. Anche in questo caso hanno giocato fattori interni ed internazionali, ma nel senso opposto a quello precedente. Innanzitutto la più vasta crisi asiatica, Giappone compreso, dalla chiusura della seconda guerra mondiale, poi la combinazione della crisi economico-produttiva con quella finanziaria hanno creato effetti disastrosi con il misero corollario delle dimissione del Presidente dittatore. Una economia come quella indonesiana che si è sempre basata sull’assemblaggio di materiali elettronici prima e sulla esportazione di merci interamente prodotte poi, ha sofferto della recessione giapponese e della concorrenza cinese giocata sulle continue svalutazione dello yuhan, ben il 60% dal 1964. Inoltre, nello spazio di pochi anni, grosso modo dagli inizi del "90" il capitale speculativo e ad investimento ha iniziato a prendere altre rotte, attirati da costi del lavoro ancora più bassi e da prospettive commerciali più appetitose. Birmania, Tailandia, la penisola indocinese e la stessa Cina sono andate progressivamente a sostituire la Tigri asiatiche bloccando quasi completamente gli investimenti e l’asportazione indonesiani. Le leggi della globalizzazione non lasciano scampo. Il darvinismo economico e finanziario domina sui mercati mondiali, i capitali più grossi annientano i più piccoli, fusioni, annessioni a abbandoni non sono mai state all’ordine del giorno come oggi. E la globalizzazione è anche rappresentata dalla spasmodica ricerca di mercati della forza lavoro caratterizzati non solo da bassissimi salari, dalla possibilità dell’infame sfruttamento dei minori, ma anche della più selvaggia mobilità e flessibilità dello sfruttamento in generale. Uomini, donne e bambini soggiogati ai quattro angoli del mondo dai vari segmenti del capitale internazionale sempre più assetato di plus valore, sempre più in concorrenza e sempre meno in grado di dominare le sue contraddizioni. Il debole e indotto capitalismo indonesiano è stato vittima anche, se non soprattutto, dalla fase attuale del capitalismo mondiale ammorbato da saggi del profitto bassi e dall’esplodere della concorrenza senza quartiere.

Le cifre sono impressionanti. Nel solo 1997 ben 100 miliardi di dollari sono fuggiti dall’economia indonesiana. Di 80 miliardi di dollari è il debito contratto dalle imprese e di 140 è il debito complessivo che, rapportati al Pil, fanno dell’Indonesia uno dei paesi più indebitati al mondo. Sempre nel 1997 il Pil è diminuito del 2,5% e le previsioni lo danno in calo di un ulteriore 3%. L’inflazione, in calo in tutti i paesi ad alta industrializzazione, ha toccato il 40% con prospettive del 100% entro la fine dell’anno. In compenso Suharto, in uno dei suoi ultimi atti prima delle dimissioni, ha finanziato con 12 miliardi di dollari le banche di famiglia, ha aiutato l’impresa automobilistica di uno dei suoi figli, e ha tagliato di due miliardi di dollari i sussidi statali per il consumo della benzina.

Un simile quadro economico non poteva che ripercuotersi negativamente sulla struttura sociale e sul mondo del lavoro. Nel 1997 già si contavano 2,7 milioni di disoccupati. Nei primi cinque mesi di quest’anno i disoccupati sono arrivati a 8 milioni, le previsioni parlano di 13,5 milioni entra la fine dell’anno pari al 14,7 della popolazione attiva. Queste le cifre ufficiali, nella realtà le cose sono ancora più gravi. Le statistiche del governo di Suharto sono improntate ai metodi anglosassoni che non considerano disoccupato chi ha lavorato anche per solo poche ore in un mese. In Indonesia hanno addirittura esagerato considerando ai fini statistici occupato chi lavora una sola ora al mese e non tutti i mesi. Applicando i regimi statistici europei la disoccupazione dovrebbe aggirarsi attorno al 44%, ovvero 40 milioni di senza lavoro che vanno a pareggiare, soltanto per le prime due cifre, i 40 miliardi di dollari a cui ammonta il patrimonio personale del Presidente. Il governo ha pensato bene di proporre ai lavoratori di ridurre drasticamente i salari in cambio di una ipotetica sicurezza del posto di lavoro quale misura immediata per abbatterne ulteriormente il costo e, quindi, i costi di produzione. Inoltre si è creato un esercito di 9/10 milioni di diseredati, ovvero un quinto della popolazione che, senza reddito e senza casa, vive riciclando i rifiuti delle discariche nel paese che è stato un piccolo regno della speculazione finanziaria e della produzione di merci e servizi ad alto contenuto tecnologico, e additato al mondo intero come modello di sviluppo basato sulla efficienza tecnologica e sul progresso sociale. Per tutti, lavoratori "garantiti", lavoratori saltuari, disoccupati e diseredati non esiste nessuna copertura sociale. Le pensioni statali praticamente non esistono, a scuola va chi se lo piò permettere altrimenti sta a casa o in mezzo alla strada. Lo stesso dicasi per la sanità, o si hanno i soldi per curarsi oppure si muore.

L’attacco internazionale del capitale e le prime risposte

La maggiore contraddizione che oggi travaglia il mondo capitalistico e che esaspera tutte le altre è la caduta dei saggi di profitto. L’esasperata rincorsa alla tecnologia se ha come immediato risultato quello di aumentare il saggio di sfruttamento e quindi la massa dei profitti, riduce la forza lavoro in rapporto al capitale costante, e nel lungo periodo riduce il saggio del profitto, cioè il rapporto tra il profitto ottenuto e la massa di capitale complessivamente investita per ottenerlo. Il fenomeno che è sempre esistito all’interno dei meccanismi produttivi capitalistici ha avuto a partire dagli anni "70" un incremento talmente elevato da imporre una gigantesca opera di ristrutturazione del capitale e un più efficace rapporto di sfruttamento della forza lavoro. Inevitabilmente lo scenario di questo processo è internazionale. Sia pure a diversi livelli e con velocità non omogenee, la caduta del saggio medio del profitto non ha risparmiato nessun segmento del capitale mondiale. Dagli Usa al Giappone, dall’Europa ai paesi asiatici di nuova industrializzazione, la sempre maggiore difficoltà nell’ottenere saggi del profitto sufficientemente remunerativi rispetto agli investimenti ha imposto la globalizzazione dell’economia. In termini semplici il fenomeno, che riguarda prevalentemente i grandi capitali nazionali, mostra come i processi di valorizzazione possano sempre meno prodursi all’interno dell’economia nazionale, ma che hanno bisogno di spazi economici più ampi, planetari, nei quali dominare le economie più deboli, distruggere i capitali più piccoli e portare a compimento i più colossali processi di concentrazione che la storia del capitalismo moderno ricordi. Concentrazioni economiche, centralizzazioni finanziarie, controllo commerciale di aree strategiche, controllo dei mercati delle materie prime e della forza lavoro a basso costo, attacco feroce al proletariato sia sul terreno economico che su quello normativo e sociale. Certo nulla di nuovo sotto il sole capitalistico, ma di tremendamente nuovi ed attuali sono l’intensità dell’attacco e le forme politiche della sua gestione, direttamente proporzionali alla gravità della situazione.

Le recenti vicende della lotta di classe a livello internazionale, (la caduta dell’impero sovietico, le difficoltà economiche dell’altro, ancora più improbabile comunismo, la Cina, il crollo più o meno fragoroso dei miti del falso comunismo, l’evidente tradimento dei cosiddetti partiti di sinistra, irreversibile marcia dei sindacati verso un ruolo di gestione della forza lavoro a seconda delle necessità di profitto delle imprese) hanno presentato un proletariato politicamente disorganizzato, ideologicamente disorientato al punto di aver smarrito la sua coscienza di classe, proprio nel momento di maggior attacco da parte della borghesia. Ciò ha consentito alla borghesia internazionale, che il suo senso di classe non lo ha mai perso, di imporre al proprio proletariato tutto. Dalla disoccupazione alla sotto occupazione, da salari di fame allo smantellamento dello stato sociale, dal lavoro in affitto alla più selvaggia flessibilità. Nei paesi ad alta e media industrializzazione in dieci anni si sono create le condizioni perché la forza lavoro ripiombi, per condizioni economiche e sociali, in una sorta di medio evo moderno dove al lavoratore, sottomesso al completo dominio del capitale, le uniche certezze sono rappresentate da salari sempre più bassi, maggior sfruttamento, nessuna assistenza sociale e dalla precarietà del lavoro e del suo essere sociale. Nei paesi in via di sviluppo e in quelli caratterizzati da una economia di sotto sviluppo i giochi sono già fatti. I salari sono inferiori sino a dieci volte rispetto quelli dell’area occidentale, l’assistenza sociale è nulla, le normative a difesa del lavoro inesistenti. A questo punto per il grande capitale globalizzante il problema è di mantenere le cose come stanno o di renderle ancora più funzionali ai propri fini senza che le rivolte e i disordini sociali intervengano a perturbare l’equilibrio creatosi. Ma questo attacco del capitale senza che una opposizione si manifesti grazie a regimi dittatoriali che tutto vedono e controllano o a governi di "sinistra" che tutto prevedono e condizionano, sembra aver prodotto una prima, piccola breccia in Indonesia.

La rivolta

Preso a sé l’episodio di Giacarta sembra piccolo, insignificante, isolato e limitato al solo settore asiatico. Tutto vero, vale però la pena di sottolineare alcune importanti considerazioni. La prima è che se non tutte le crisi economiche producono necessariamente delle rivolte, non c’è muoversi di stratificazioni sociali che non abbiano alla base un profondo malessere economico. In Indonesia la crisi economica ha buttato sul lastrico milioni di lavoratori senza nessuna prospettiva per l’immediato futuro, creando i presupposti perché il poco lavoro rimasto a livelli di sfruttamento inauditi, a salari irrisori, sia considerato un privilegio nei confronti di coloro che un lavoro non ce l’anno più o che non l’avranno mai come sta avvenendo in altre parti del mondo, ma lì e solo lì, per il momento, si è espresso un movimento di protesta. Il che significa che a fronte di un generalizzato attacco del capitale nei confronti della forza lavoro le risposte sono pur sempre possibili. I fatti di Giacarta sono importanti non perché abbiano un contenuto dichiaratamente classista o perché abbiano espresso un programma rivoluzionario ma semplicemente perché, in un mare di indifferenza nel quale si è espresso l’attacco del capitale, si siano prodotti degli episodi di resistenza alla barbarie capitalistica. Le notizie ci parlano di teppismo e di saccheggi, di violenza gratuita nei confronti degli odiati commercianti di origine cinese, ovvero di movimenti di disperati senza arte né parte. E che cosa ci si poteva aspettare da una massa di diseredati, affamati in una società ricchissima solo per pochi, che ha fatto della merce e del consumo i suoi simboli. Era naturale che l’impoverimento generalizzato, l’incognita del futuro, l’insopportabilità del presente scatenassero la rabbia contro i simboli del consumismo, il feticcio merce. È stata la stessa borghesia indonesiana a produrre questi modelli di vita, a considerare la merce e il suo consumo come unico valore sociale oltre che economico, ma da buona classe dominante lo ha concesso solo al se stessa, riducendo oltretutto l’accesso alla classe subordinata a quel poco di consumi che segnano la linea di demarcazione tra povertà e indigenza.

Le cronache ci dicono anche che a guidare la protesta , per il momento, siano gli studenti, ovvero i figli della piccola borghesia che hanno proposto e ottenuto le dimissioni di Suharto. Nemmeno in questo caso ci si deve meravigliare. In mancanza di un movimento di classe, anche se soltanto incipiente, in mancanza di un partito rivoluzionario, anche se piccolo e poco radicato ma comunque in grado di rappresentare un primo punto di riferimento politico e organizzativo all’interno della classe proletaria e del variegato mondo dei diseredati, è possibile che la piccola borghesia trovi lo spazio per candidarsi a guida dei disordini. Non è successo soltanto in Indonesia ma anche in America e in Europa, non è successo solo oggi ma anche in un recente passato. Ma oggi più di ieri, nei paesi a media e alta industrializzazione più che negli altri, l’attuale crisi dei profitti e la globalizzazione non si limitano a schiacciare il proletariato ma finiscono per insidiare lo stesso piccolo privilegio della piccola borghesia. Anni fa il processo di spoliazione e proletarizzazione colpiva prevalentemente i contadini, i piccoli proprietari agricoli non più in grado di competere con le grandi imprese agricole meccanizzate. Oggi il processo di proletarizzazione colpisce in maggior misura i piccoli gestori, i negozianti, i colletti bianchi, i tecnici industriali e i quadri intermedi, ovvero tutti colori che vivono di piccoli capitali e di piccole imprese o che occupano posti medio alti nella gerarchia borghese. Il loro dramma è che il grande capitale, nel suo sforzo di sopravvivenza e di riorganizzazione, tolga spazio al piccolo capitale e alla piccola imprenditoria buttandoli sul lastrico, riducendoli cioè al rango di proletari o di lavoratori dipendenti. In queste fasi storiche, aggravate da situazioni di crisi economiche, la piccola borghesia o i suoi figli, cercano di non cadere nel girone infernale dove da sempre si trova il proletariato, le cui sofferenze sono visibili anche se guardate dall’esterno. Normale, quindi, che difendano anche con la forza il loro spazio piccolo borghese all’interno della società capitalistica sino a scontrarsi con il potere politico. Meno normale che la protesta non sia esplosa anche nelle fabbriche e nel girone infernale che rinchiude il proletariato indonesiano. Perché solo una guida proletaria e rivoluzionaria potrebbe operare un processo di sintesi politica fondendo in un solo corpo le varie componenti sociali, vittime, anche se a diverso titolo e con diverse intensità, dell’attacco capitalistico. In caso contrario le crisi muovono gli strati dei diseredati che non possono fare altro che dare l’assalto ai simulacri del consumismo a loro negato, mettono in moto la piccola borghesia che tenderà a ricavarsi uno spazio, suo malgrado sempre più stretto e sempre meno praticabile da un punto di vista economico, rivendicando nuovi governi meno vessatori, una classe politica meno corrotta, ma mai si porrà il problema di fondo: la lotta al capitalismo e alle sue strutture militar politiche.

Altre informazioni ci dicono che i fatti di Giacarta sarebbero soltanto il frutto di una provocazione orchestrata dagli Usa in collaborazione con una parte dei Servizi segreti e dei quadri dell’esercito indonesiani contro il Presidente Suharto. Secondo questa ipotesi si sarebbero infiltrati degli agenti provocatori nelle file degli studenti per innescare le rivolte con il fine di costringere Suharto ad abbandonare il potere in quanto considerato dal governo americano incapace di gestire una simile situazione di crisi economica e sociale dal basso della sua impopolarità. Dopo essere stato per trentadue anni il fantoccio americano nel più grande arcipelago del mondo, viene scaricato in chiave preventiva, perché la sua permanenza al potere non coincide più con gli interessi di quel padrone che lo aveva a suo tempo assunto. La preoccupazione americana consisteva nel fatto che la figura di Suharto era troppo compromessa agli occhi della popolazione indonesiana. Dittatore, corrotto e corruttore, despota e nepotista, repressore e torturatore dei suoi oppositori, ricco a dismisura, era certamente il personaggio meno adatto ad imporre sacrifici ai lavoratori indonesiani, ad amministrare milioni di disoccupati, a gestire una situazione sociale di estrema tensione. Per il governo americano se fosse rimasto avrebbe messo in pericolo, non solo e non tanto se stesso, quanto l’immagine e la presenza americana in Indonesia, compromettendo i delicati equilibri dell’area sia da un punto di vista strategico che militare. Ecco dunque la provocazione con l’obiettivo di scatenare la piazza contro il Presidente e il contemporaneo invio di un esercito di 25 mila Marines per controllarne gli eventuali effetti indesiderati della provocazione e per fungere da deterrente nei confronti dello stesso Presidente e delle forze politiche e militari a lui fedeli. L’ipotesi è certamente verosimile, probabile. La Cia ha una esperienza antica di queste operazioni. Quanti Presidenti e dittatori ha inventato dal nulla e nel nulla li ha fatti ritornare a seconda degli interessi superiori del governo e dell’economia americani. E certamente probabile che anche in questa occasione le cose possano essere andate in questi termini ma ciò non inficia le osservazioni fatte in precedenza. La provocazione, se c’è stata, non ha fatto altro che giovarsi di una situazione di tensione latente nel tentativo di gestirla al meglio anticipandone i tempi. Nessuna provocazione può inventarsi il crollo dell’economia, quaranta milioni di disoccupati, dieci milioni di diseredati, fame e miseria, rabbia e spirito di rivolta. Una provocazione per essere tale, o si inserisce in un contesto sociale ed economico che la giustifichi, oppure rimane un atto impotente. Per cui il problema non è se a innescare la rivolta sia stata una provocazione o un meccanismo di auto combustione sociale. La vera questione è che in Indonesia esistevano tutte le condizioni oggettive e soggettive perché gli episodi di rivolta si esprimessero indipendentemente dalle sollecitazioni esterne. D’altro parte se è vero che il tutto è inizialmente partito dal mondo studentesco universitario, è altrettanto vero che negli assalti ai negozi e nella manifestazioni di piazza c’erano spezzoni di disoccupati e di classe operaia che una cronaca di parte ha volutamente sottaciuto. Se provocazione c’è stata, quello che è mancato non sono state le condizioni che l’hanno favorita e imposta. Non sono mancate né la rabbia, né la disperazione e la volontà di battersi, ma la presenza di una forza politica che generalizzasse la lotta, che smascherasse la provocazione stessa e che ponesse l’obiettivo di non fermarsi all’allontanamento di Suharto. È mancato un partito che facesse fare alla lotta il primo passo contro i rapporti di produzione capitalistici , o quantomeno si ponesse come esempio di lotta di classe, premessa di una rivolta che coinvolgesse a pieno titolo il proletariato indonesiano, e successivamente, altri settori del proletariato asiatico.

Fabio Damen

Prometeo

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