Anche per la Banca Mondiale la crisi è sistemica

Ma Keynes non basta

Soltanto qualche mese fa, quando tutte le borse occidentali continuavano a crescere nonostante la crisi asiatica, se qualcuno si fosse azzardato a parlare di una possibile crisi sistemica, la stragrande maggioranza degli economisti borghesi lo avrebbe sicuramente beffeggiato. Era infatti talmente diffusa e radicata l’idea che l’economia globalizzata potesse produrre una crescita illimitata che mai e poi mai qualcuno di questi signori avrebbe potuto ammettere che fossero possibili crisi generalizzate e crolli verticali così come sostiene il marxismo. Ma ora, dopo il crollo delle tigri asiatiche, della Russia e dell’acuirsi della crisi debitoria dei paesi dell’America Latina e del sistema bancario giapponese, è la Banca Mondiale, quella stessa che fin qui, insieme al FMI, non ha fatto altro che adoperarsi affinché i cosiddetti creditori potessero puntualmente riscuotere il frutto della loro rapina, a parlare di “crisi sistemica” e a invocare misure capaci di resuscitare il cadavere della cosiddetta economia reale. Apprendiamo infatti da il manifesto dello scorso 2 ottobre, che

La Banca [Mondiale - ndr] suggerisce di abbassare i tassi di interesse per aumentare la credibilità e diminuire i costi del servizio del debito; di puntare su riforme strutturali nei sistemi bancari e nella regolazione dei mercati finanziari, all’insegna della trasparenza e della sostenibilità ambientale; di aumentare la spesa pubblica per mantenere il livello del reddito degli strati più poveri della popolazione (salari, pensioni e indennità di disoccupazione) e salvare i servizi pubblici, sanità e istruzione.

Come si può constatare è l’esatto opposto di quanto finora è stato sostenuto dal FMI e dalla stessa Banca Mondiale e di quanto abbiano finora fatto gli stati di tutto il mondo. In pratica, si suggerisce il ritorno a quelle politiche keynesiane fino a ora tanto vituperate quanto energicamente sconsigliate in quanto ritenute responsabili della crisi industriale e finanziaria dei primi anni settanta e della conseguente esplosione dell’inflazione. Recentemente, anche il presidente del FMI Camdessus ha lanciato il suo allarme e ha caldeggiato l’adozione di misure anticicliche oltre che di efficaci strumenti di controllo sia dei mercati finanziari che dei cambi allo scopo di evitare che la crisi possa travolgere anche l’Europa e gli Stati Uniti. Sotto i colpi della crisi, sembra insomma che la sbornia neoliberista e monetarista sia stata smaltita e che ora si possa tornare ai bei tempi andati quando la produzione di capitale monetario era rigidamente controllata dagli stati e subordinata alla espansione della produzione industriale. L’idea è ormai così diffusa che con sempre maggior frequenza si sente parlare di programmi di costruzione di opere pubbliche, di sostegno della domanda e amenità simili come se negli ultimi decenni a impedirne la realizzazione sia stato il capriccio dei vari governanti.

Il dato di fondo di cui non si tiene conto è che è stata la tendenza alla diminuzione del saggio medio del profitto industriale a spingere verso la crescita della finanza e delle attività parassitarie e non il presidente Reagan o la signora Thatcher. L’approdo alle leggi dell’usura come regolatrici dell’attività economica è scaturito dal fatto che la fase ascendente del ciclo di accumulazione capitalistica, apertosi all’indomani della seconda guerra mondiale, si è chiusa per sempre per cui, così come negli anni settanta non furono le politiche economiche keynesiane a condurre alla crisi, così oggi non è ritornando ad esse che si potrà evitare quella che si annuncia come la più grave recessione degli ultimi cinquanta anni se non la più grave depressione di tutta la storia del capitalismo.

In Giappone, per esempio, negli ultimi anni sono stati stanziati circa 500 mila miliardi di lire per stimolare l’economia, ma ciò non è servito a nulla tanto che per il 1999 è prevista una diminuzione del Pil di circa 1,8 per cento.

Il monetarismo e il neo-liberismo hanno corrisposto all’esigenza di trasferire la crisi del ciclo di accumulazione dal suo epicentro ( i paesi a capitalismo avanzato) a tutto il pianeta e a favorire la riduzione del salario al di sotto del suo valore in ragione della crescita della rendita finanziaria; ma così facendo mentre le contraddizioni strutturali insite nel ciclo di accumulazione capitalistica non sono state neppure scalfite, la crisi è stata internazionalizzata e ingigantita e ora, sotto forma di una gigantesca montagna di crediti inesigibili, torna al mittente. Si calcola che solo le banche asiatiche abbiano 1.900.000 miliardi di lire (poco meno dell’intero debito pubblico dell’Italia) di crediti inesigibili e che per ricapitalizzare le banche coinvolte occorrano qualcosa come 386 miliardi di dollari. Per non parlare del rischio di fallimento che grava su molti fondi comuni di investimento come lo statunitense LTCM, in cui aveva investito anche la Banca d’Italia tramite l’UIC, salvato dal crack dall’intervento di un pool di ben 15 banche. E se poi a ciò si aggiunge la posizione debitoria dei paesi del cosiddetto terzo mondo, dell’America Latina e dell’ex URSS, Russia compresa, ci si rende facilmente conto che a rischiare di trasformarsi in carta straccia è una massa di capitale finanziario di dimensioni pressoché incalcolabili con il conseguente fallimento delle maggiori banche e istituzioni finanziarie del mondo.

Pensare che, facendo leva sui circa 200 mila miliardi di presunto surplus delle riserve valutarie delle banche centrali europee come propone Prodi o sulla riduzione di qualche punto percentuale del tasso di interesse da parte della Federal Reserve, si possa favorire il rilancio di politiche economiche anticicliche di tipo keynesiano tali da riassorbire una eccedenza di capitale finanziario di queste dimensioni è quanto meno una pia illusione. In realtà gli spazi per una gestione soft della crisi mondiale si sono vieppiù assottigliati e la distruzione del capitale finanziario in eccesso appare ormai improcrastinabile. Più che una nuova fase espansiva, dietro l’angolo ve ne è, dunque, una fatta di ulteriore affamamento del proletariato mondiale e un acuirsi dello scontro interimperialistico in un quadro di generale stagnazione economica. Una fase insomma molto simile a quella che seguì la grande crisi borsistica del 1929 che nonostante il New Deal in America, i piani del lavoro in Germania e l’IRI in Italia, si concluse con la seconda guerra mondiale.

Giorgio

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.