Reddito di cittadinanza e no-profit: la realtà virtuale del riformismo

A proposito dell’AECEP

Si dice che la madre dei cretini sia sempre in cinta e probabilmente è vero; sicuramente lo è quella del cretinismo sociale, visto il pullulare di proposte, iniziative e programmi improntati al più schietto riformismo, tendenti a trovare fantasiosi rimedi ai guasti del modo di produzione capitalistico. Con questo, non si vuol certo dire che i singoli individui promotori di quelle iniziative siano degli imbecilli, tutt’altro, anzi, spesso quei signori riescono a descrivere acutamente i disastri sociali (cioè tra il proletariato) che il capitalismo provoca, ma la cosa finisce lì, perché mancano degli strumenti adatti per spiegare le cause di tali disastri e per indicarne il rimedio. Insomma, privi del marxismo o, se preferite, del materialismo dialettico, non sono assolutamente in grado di darsi e dare ragione delle crisi, della disoccupazione, dell’impoverimento del lavoro salariato, e sono fermamente convinti che l’origine di tutto ciò sia il neoliberismo. È il caso -l’ennesimo - di una nuova associazione operante in Francia, ma con aspirazioni europee, il cui nome è tutto un programma: AECEP (Associazione europea per una cittadinanza e un’economia plurali). Costituita in gran parte da intellettuali (ti pareva...), si prefigge di dare voce agli esclusi - fin qui tutto bene - senza però mettere in discussione i meccanismi fondamentali del capitale, ma solamente di correggerne gli aspetti più impresentabili. Che una prospettiva classista sia del tutto esclusa dal programma dell’associazione è immediatamente evidente, visto che si parla di cittadini e di cittadinanza ossia di alcuni concetti chiave del mondo borghese. Se c’è una cosa che il marxismo ha chiarito per sempre è che dietro la cittadinanza ci sono le classi, dagli interessi diversi e contrapposti, che l’uguaglianza puramente formale dei cosiddetti cittadini non potrà mai cancellare.

L’altro obiettivo, cioè il raggiungimento di un’economia plurale - obiettivo che non chiamiamo schifosamente ipocrita perché concediamo la sincerità a quelle “anime belle” - è non meno (piccolo) borghese e altrettanto mistificatorio. Già si sguazza nella confusione e nell’ignoranza più totali quando si dà per scontato che il settore pubblico dell’economia sia qualcosa di diverso dal settore mercantile (come lo chiamano), cioè privato, ossia che il primo sia al di fuori della logica capitalista, quando invece tutti e due sono solamente aspetti diversi di uno stesso organismo; quello che cambia è, al massimo, la proprietà giuridica dell’azienda, ma questo al rapporto capitalistico non cambia assolutamente nulla, altrimenti i ferrovieri, per es., sarebbero già (stati) nel comunismo. Ma la confusione o, per meglio dire, il non-senso trionfano allorché si tira fuori dalla manica l’asso di briscola di tanta parte del riformismo odierno: l’economia sociale o no-profit, come viene comunemente detta; naturalmente, per completare il quadretto, gli intellettuali di cui sopra pensano che occorra ”gettare passerelle permanenti tra l’economia pubblica, l’economia privata e l’economia associativa”, Consiglieremmo di dotare i disoccupati anche di un paio di pattini, per scorrere più velocemente da un settore all'altro, volteggiando magari, tanto per rendere più simpatica quella meravigliosa società.

Senza scendere in una critica dettagliata della pia e vecchissima illusione del no-profit (vedi, per questo, Prometeo n. 12), ricordiamo, ammesso e non concesso che “l’economia sociale” sia e possa stare al di fuori dei meccanismi di mercato, che due modi di produzione antitetici non possono convivere armoniosamente, ma prima o poi finiscono per scontrarsi in una lotta mortale. Se è vero che il capitalismo si è sviluppato dalla società feudale e ha in seguito convissuto con essa, è anche vero che la convivenza è stata rotta violentemente con almeno due rivoluzioni; senza contare poi che quella convivenza era in un certo senso possibile perché tutti e due i modi di produzione si basano - in forme diverse - sullo sfruttamento del lavoro altrui, mentre il no-profit dovrebbe (il condizionale è più che mai d’obbligo) fondarsi sullo spontaneo e disinteressato associazionismo. Gira e rigira, salta sempre fuori l’idea, vecchia almeno di un secolo e mezzo (e saremmo noi i “vetero”...) che si possa arrivare al comunismo, pardon, all’economia sociale, senza demolire la società borghese nel suo insieme. Con queste premesse è ovvio che tutto è possibile: le 32 ore pagate 40, la redistribuzione dei posti di lavoro tra tutti, anni di distacco dal lavoro (retribuiti integralmente, beninteso) perché ognuno possa dedicarsi alle proprie passioni e, non poteva mancare, il reddito di cittadinanza per gli eventuali (eh sì, bisogna proprio dire eventuali...) disoccupati. A chi prendere il denaro - perché non si parla nemmeno di abolirlo con gli altri pilastri della società mercantile - per tenere in piedi quest’enorme disneyland sociale, nemmeno una parola: forse, intellettuali, ecopacifisti, leoncavallini (buoni questi!) pensano che il mondo del capitale in cui tutti viviamo sia come un grande cartone animato, dove anche i conigli possono farsi una birra al bar in compagnia di noialtri esseri umani.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.