Il crollo della Russia e la fine dell’illusione liberista

Introduzione

Un altro terremoto ha scosso nei mesi scorsi l’intero sistema finanziario mondiale. Rispettando i tempi e le modalità con le quali nell’ultimo decennio si sono manifestate le precedenti crisi, il fragile equilibrio sul quale si regge la speculazione finanziaria e monetaria è stato messo a dura prova dal drammatico crollo dell’economia russa. Da molti mesi gli economisti borghesi avevano individuato nell’economia russa l’anello debole dell’intero sistema finanziario internazionale. Ma non era difficile pronosticare un crollo di tale portata visto le perverse dinamiche economiche in atto nell’ex impero sovietico. Un paese economicamente e politicamente allo sbando, stordito dall’ubriacatura liberista e con una classe dirigente dedita esclusivamente alla rapina sistematica. Sono bastate le dichiarazioni interessate di Soros, l’uomo che da solo riesce a manovrare una massa monetaria più grande di quella che possono mettere in campo le banche centrali dei paesi più sviluppati, che incitava i mercati, ovvero i grandi investitori finanziari, a riequilibrare il valore del rublo nei confronti del dollaro, per scatenare un vero e proprio cataclisma finanziario. Lo scorso 17 agosto la moneta russa ha perso in un solo giorno quasi il 20% del proprio valore rispetto al dollaro, mentre la borsa di Mosca ha subito un vero e proprio tracollo tale da spingere le autorità a sospendere le contrattazioni.

Grazie alla globalizzazione dei mercati le varie crisi finanziarie degli ultimi anni non rimangono circoscritte nel paese in cui si manifestano, ma inevitabilmente si espandono come in un grande effetto-domino sull’intero sistema, travolgendo le borse e le monete di quei paesi considerati dagli investitori finanziari internazionali più a rischio dal punto di vista della loro solvibilità. Infatti, in questa ultima crisi, al crollo della borsa di Mosca e alla completa dissoluzione del rublo sono seguite le cadute verticali di tutte le borse dell’America latina e del sud-est asiatico, spargendo ulteriore panico sull’intero sistema internazionale.

Dopo il crollo del capitalismo di stato, presentato per oltre settanta anni dalla menzogna stalinista come la migliore realizzazione del comunismo e che tanti danni ha prodotto nelle coscienze del proletariato mondiale, la Russia è ancora una volta teatro di un fallimento storico. Mai nella secolare storia del capitalismo si era assistito ad un crollo del sistema produttivo di tale portata. Neanche durante la grande depressione degli anni trenta il calo della produzione, pur consistente, ha sfiorato i livelli del crollo produttivo che si è verificato in Russia in questi ultimi anni. Una crisi che ha prodotto e che continua a produrre delle conseguenze sociali irreparabili. Sono riemersi fenomeni sociali di massa come la morte per fame, che in un’area come quella russa il capitalismo sembrava avesse definitivamente superato. Ma la crisi del capitale è così grave da determinare nelle condizioni di vita del proletariato pericolosi salti all’indietro.

Sembrano passati anni luce da quando, dopo la fine dell’impero sovietico, la borghesia internazionale esultava per la storica vittoria sul "comunismo" e sognava di poter coinvolgere la Russia nel grande circuito del mercato mondiale. Nelle aspettative della borghesia le imprese presenti sui mercati internazionali avrebbero avuto un nuovo e importante spazio economico dove realizzare agevolmente lauti profitti. Ma la realizzazione di un simile progetto richiedeva che tutta l’impalcatura dell’economia russa abbandonasse repentinamente gli angusti meccanismi della pianificazione per preparare, così almeno nelle speranze della borghesia, il terreno ad una nuova stagione di pace sociale e di sviluppo economico. Da perfetti stalinisti, gli stessi uomini che fino a qualche anno prima elogiavano le virtù della pianificazione socialista e del partito unico si sono riciclati nel nuovo corso come i più convinti assertori del libero mercato e della pluralità democratica.

Un po’ di storia

L’economia sovietica, dopo aver vissuto uno sviluppo portentoso durante il secondo dopoguerra, agli inizi degli anni settanta entra in uno stato di profonda crisi dalla quale non riuscirà più a tirarsi fuori. La crisi che ha colpito e fatto crollare il sistema economico-politico sovietico, come più volte abbiamo sottolineato su questa stessa rivista, non è un caso isolato, ma rappresenta la manifestazione forse più spettacolare di quella stessa crisi economica che agli inizi degli anni settanta ha colpito l’intero sistema capitalistico.

Senza voler riprendere un’analisi già condotta dal partito negli anni passati, è opportuno ricordare che ad aggravare la crisi fino a determinare il crollo dell’intero sistema hanno contribuito in maniera rilevante le aberranti risposte date dalla borghesia russa ai fenomeni della crisi stessa. Mentre la borghesia occidentale, al manifestarsi dei primi fenomeni di crisi, ha imposto al proletariato un gigantesco processo di ristrutturazione del sistema produttivo nel tentativo di recuperare i margini di profitti perduti a causa dell’operare della caduta del saggio medio di profitto, la borghesia russa, a causa dei particolari meccanismi che caratterizzavano il sistema della pianificazione statale e per l’inasprirsi dello scontro politico che si è scatenato ai primi segnali di crisi, non ha fatto altrettanto. Anziché ristrutturare il proprio sistema economico, ci si è intestarditi nel voler pianificare la produzione tenendo in considerazione soltanto criteri quantitativi, senza minimamente valutare la remunerazione dei fattori produttivi. Se la caduta del saggio di profitto, causa principale della crisi, è stata contrastata dalla borghesia occidentale attraverso la ristrutturazione del sistema produttivo, che ha permesso di recuperare competitività sui mercati internazionali, in Russia nulla di tutto questo è stato fatto; si è tentato di contrastare la riduzione dei margini di profitto attraverso una crescita quantitativa della produzione. Si è realizzata così una situazione paradossale nella quale gli investimenti produttivi sono aumentati nonostante la caduta verticale dei saggi di profitti. In questo modo si è determinata una classica crisi di sovrapproduzione capitalistica, nonostante il proletariato russo abbia maledettamente sofferto per la cronica penuria di generi alimentari di primaria importanza.

La mancata ristrutturazione economica se da un lato ha comportato una lenta ma inesorabile obsolescenza dell’intero sistema produttivo, con pesanti ricadute sulla capacità della borghesia russa di rimanere competitiva sui mercati internazionali, dall’altro ha determinato una caduta nelle condizioni di vita del proletariato russo. Una situazione simile non poteva durare a lungo ed infatti, nel volgere di soli due decenni, il sistema economico russo si è avviato autonomamente verso il definitivo collasso.

Il tentativo di Gorbaciov di rilanciare l’Unione Sovietica attraverso una riforma dei meccanismi economici ed una ristrutturazione dell’apparato produttivo è stato fatto quando la crisi aveva già prodotto guasti irreparabili all’impianto del capitalismo di stato nato dalla controrivoluzione stalinista. Lo scontro politico scatenatosi tra le varie cricche al potere ha aggravato la situazione economica, con la conseguenza di accelerare i processi di decomposizione dell’Unione Sovietica. Con la fine ingloriosa di quella che è stata ignominiosamente definita patria del comunismo (1) si scatena uno scontro politico tra le varie fazioni della borghesia russa che porta il paese sull’orlo della guerra civile. Dallo scontro esce vincitrice, grazie anche agli aiuti dei governi occidentali, la banda di Eltsin, che, seguendo le indicazioni provenienti dalle varie istituzioni finanziarie internazionali, avvia un gigantesco processo di privatizzazione che nel volgere di pochi anni sconvolge ulteriormente l’intera economia russa.

Verso l’economia di "libero" mercato

Dopo il crollo dell’URSS e la conquista del potere politico da parte della cricca guidata da Boris Eltsin, l’economia russa subisce un capovolgimento di centottanta gradi rispetto al passato. Il fallimento della pianificazione statale e della rigida centralizzazione delle decisioni economiche, scatena una guerra ideologica che porta la borghesia russa ad abbracciare fedelmente il credo neoliberista. La classe dirigente russa nei primi anni novanta diventa più realista del re, tanto che persino un monetarista oltranzista come l’americano Jeffrey Sachs, teorico del passaggio rapido al libero mercato e consigliere personale del primo ministro Gajdar, è arrivato ad affermare che "forse" la terapia d’urto messa in atto dal governo è stata eccessivamente veloce, mentre sarebbe stato più consigliabile una fase transitoria più lunga.

Uno dei primi e più importanti provvedimenti presi dalla "nuova" classe dirigente è stato quello di liberalizzare i prezzi delle merci, senza la previsione di un periodo transitorio che avrebbe permesso un passaggio meno traumatico all’economia di libero mercato. La conseguenza più immediata di una tale scellerata decisione è stata quella di dare la stura ad un processo inflattivo di stile sudamericano, che nel giro di pochissimi mesi ha considerevolmente eroso i già bassi salari della classe operaia russa. La liberalizzazione dei prezzi, oltre a determinare un’alta inflazione, ha inciso in maniera devastante sui meccanismi di scambio tra le varie aziende che costituivano l’ossatura dell’intera economia russa. In pratica, grazie alla liberalizzazione dei prezzi si è rotto definitivamente il meccanismo della pianificazione statale e le varie imprese legate tra di loro da vincoli economici rigidissimi si sono trovati dalla sera alla mattina nella condizione di non poter più produrre, semplicemente perché non erano in grado di pagare le merci di cui avevano bisogno dato che il loro prezzo era arrivato alle stelle.

Sul piano sociale la liberalizzazione dei prezzi ha prodotto un impoverimento repentino del proletariato russo; i soli costi dei servizi cittadini e dei trasporti sono aumentati nel 1995 di ben tre volte rispetto all’anno precedente. Secondo dati pubblicati nel 1995 da Evgenij Mjasin, presidente dell’associazione dei consumatori russi, con un salario medio che era venti volte inferiore a quello percepito negli Stati Uniti, il cittadino russo affrontava nei primi anni della liberalizzazione un mercato interno in cui i beni di prima necessità avevano raggiunto un livello dei prezzi pari alla metà di quello del mercato statunitense. La condizione del proletariato russo si è ulteriormente aggravata se consideriamo i tagli allo stato sociale operati dai vari governi nell’era Eltsin. Per un sistema che fino a pochi anni prima riusciva a garantire quasi gratuitamente alla maggioranza della popolazione un’assistenza sanitaria adeguata, i drastici tagli alla spesa sociale dei primi anni novanta hanno privato di qualsiasi forma di assistenza milioni di proletari. La spesa sociale nel 1995 è calata letteralmente a picco, rappresentando solo il 5,4% del Pil, mentre soltanto nel 1990 sfiorava il 20%. Se consideriamo il crollo verticale della produzione e il conseguente calo del prodotto interno lordo possiamo immaginare quanto irrisoria sia stata la spesa sociale e quanto invece drammatici siano stati i guasti sociali prodotti da tali tagli.

Come ogni crisi economica, la quale inevitabilmente determina un punto di svolta nei meccanismi di accumulazione del capitale, anche in quella russa si sono accentuati quei fenomeni di concentrazione della ricchezza. Infatti, negli ultimi anni sono aumentate le diseguaglianze tra gli strati sociali più ricchi e quelli più poveri della società. Il reddito medio del 10% più abbiente della popolazione nel 1995 è salito a sedici volte quello di coloro che si collocano nel 10% a reddito più basso, mentre nei maggiori paesi occidentali, pur essendosi verificato nello stesso periodo un simile fenomeno, non si supera il rapporto di uno a dieci. La povertà è diventato un vero fenomeno di massa, tanto che secondo alcune stime governative il 58% della popolazione vive sotto la soglia dell’indigenza. (2)

Il saccheggio delle privatizzazioni

La privatizzazione dell’economia doveva rappresentare per la borghesia russa l’ultimo tassello con il quale completare il mosaico delle riforme e rilanciare l’economia dopo quasi venti anni di stagnazione. Intorno a un progetto di tale vastità e importanza, per gli enormi interessi economici in ballo, si è accesso un violentissimo scontro politico che in alcuni momenti si è trasformato in scontro militare. Così si spiegano le cannonate fatte sparare dal presidente Eltsin contro il parlamento russo nel 1993.

La privatizzazione, almeno nelle prime intenzioni del governo, doveva essere compiuta attraverso i vouchers (certificati di proprietà potenziale) il cui valore nominale era stato fissato dalle autorità in circa diecimila rubli. Questi buoni davano diritti ai possessori di acquistare azioni delle imprese da privatizzare, attraverso investimenti diretti o l’intermediazione di fondi d’investimento. Se nelle apparenze il governo voleva far rispettare il sacro principio dell’equità, garantendo a tutti la possibilità di diventare proprietari dei beni statali, nella realtà il progetto di privatizzazione ha dimostrato che soltanto pochissimi gruppi sociali, il più delle volte legati al mondo della malavita, hanno tratto enormi vantaggi economici. A causa dell’iperinflazione la maggior parte della popolazione russa, anziché utilizzare i vouchers nell’acquisto di azioni, è stata costretta a scambiarli direttamente in rubli con la conseguenza di determinare la concentrazione in poche mani di tali certificati. Infatti nella primissima fase della privatizzazione, grazie a tale meccanismo, alcuni gruppi sociali hanno approfittato della situazione di marasma accumulando ingenti somme di capitali, reinvestiti precipitosamente all’estero, a spese di un proletariato sempre di più impoverito.

La privatizzazione dell’apparato produttivo costituisce l’episodio chiave per interpretare l’attuale fallimento dell’economia russa, il punto di svolta per spiegare come sia stato possibile che la seconda potenza economica del mondo nel giro di pochissimi anni sia stata ridotta nelle condizioni di non riuscire più a produrre neanche i beni alimentari di prima necessità. Seguendo le indicazioni del Fondo Monetario Internazionale, il governo russo ha letteralmente svenduto il proprio sistema produttivo. Nel solo 1993, le autorità russe hanno privatizzato ben 40394 aziende, ad un ritmo di 110 al giorno. I risultati di tale portentosa operazione sono stati descritti in maniera chiara da Vladimir Polevanov, vice presidente del consiglio e presidente del Comitato statale per la gestione della proprietà pubblica, che in un rapporto inviato all’allora premier Cernomyrdin ha affermato che:

le cinquecento più grandi industrie di stato messe sul mercato, del valore complessivo di duecento miliardi di dollari, sono state vendute praticamente gratis, per circa sette miliardi.

La gigantesca privatizzazione del sessanta per cento dell’intero apparato industriale russo ha fruttato alle casse dello stato nemmeno la metà di quanto realizzato nella minuscola Ungheria con un’analoga operazione, tanto che anche un giornale borghese come "The Economist" ha definito l’operazione come "la più grande rapina della storia".

Se la liberalizzazione dei prezzi aveva dato un primo scossone all’intero processo produttivo, rompendo i legami economici tra le varie imprese, la privatizzazione ha completato lo smantellamento dell’industria russa. Le peculiarità dell’economia russa, fortemente centralizzata, e la mancanza di una strategia complessiva della borghesia russa hanno fatto sì che le privatizzazioni assumessero un significato profondamente diverso rispetto all’analoga operazione intrapresa dalla borghesia occidentale. Mentre nei paesi dell’Europa occidentale e negli stessi Stati Uniti le privatizzazioni sono servite, come più volte abbiamo sottolineato, a favorire i processi di concentrazione del capitale, in Russia la stessa operazione si è tradotta nell’operazione inversa, ossia in una frammentazione dell’apparato produttivo. Quindi, se nell’ambito del capitalismo occidentale le privatizzazioni hanno favorito i processi di concentrazione, resisi necessari per contrastare meglio i meccanismi della crisi economica, la privatizzazione russa si è sostanzialmente tradotta in una sorta di grande svendita all’ingrosso delle migliori fabbriche, senza la previsione di un rilancio dell’economia. Alla privatizzazione delle aziende non è seguita la crescita economica, ma solo ed esclusivamente la crescita della montagna di ruggine sotto la quale si è definitivamente seppellita la macchina produttiva russa.

Un paese verso la catastrofe

L’apertura dell’economia verso i mercati mondiali ha contribuito non poco al fallimento della stragrande maggioranza delle imprese russe, incapaci di reggere la competizione internazionale. Nei primi anni del nuovo corso, grazie alla liberalizzazione e alla privatizzazione dell’economia, hanno chiuso migliaia di fabbriche lasciando senza lavoro milioni di proletari. Le uniche imprese che sono riuscite in qualche maniera a sopravvivere all’urto della liberalizzazione sono state quelle orientate verso le esportazioni. Approfittando della svalutazione continua del rublo, le imprese esportatrici di materie prime, pur non disponendo di un’adeguata tecnologia, sono riuscite lo stesso a ritagliarsi uno spazio sui mercati internazionali. Con la chiusura della stragrande maggioranza delle fabbriche, l’asse portante dell’economia russa è diventata l’industria delle esportazioni di materie prime, petrolio in primis. Negli ultimi anni si è scatenata una vera e propria guerra tra bande per il controllo e la vendita delle materie prime; infatti, grazie ai differenziali tra i prezzi russi e quelli mondiali, una differenza che s’aggira intorno all’un per cento, i commercianti di greggio hanno ottenuto profitti colossali acquistando il greggio sul mercato interno e vendendolo successivamente sul mercato internazionale. I processi di spoliazione messi in atto dall’imperialismo, favoriti da una classe dirigente russa priva di una strategia complessiva del processo produttivo, hanno trasformato la Russia in una sorta di grande colonia dalla quale attingere materie prime dando in cambio qualche briciola di cibo. Sulla scena dello sfruttamento imperialistico, il capitale ripercorre gli stessi metodi di estorsione di ricchezza che già furono del vecchio colonialismo.

I risultati di tale politica sono sotto gli occhi di tutti. A fronte di una perfetta integrazione della Russia nei circuiti finanziari internazionali, con la creazione di una borsa valori, di numerose banche private, fondi di investimento e commissioni di controllo, si è verificato un vero e proprio crollo dell’economia reale. Il reddito nazionale della repubblica russa e la produzione industriale sono diminuiti rispettivamente del 57,5% e del 48,5% rispetto ai livelli raggiunti nel 1990; la spesa per investimenti in conto capitale nei diversi settori dell’economia russa nel 1997 è stata pari al 17% della spesa per investimenti fatta registrare nel 1990, mentre nello stesso periodo nell’importante settore manifatturiero della lavorazione dei prodotti metallurgici e meccanici la spesa per investimenti è stata solo il 5% rispetto a quello del 1990. Bastano questi semplici dati per evidenziare un processo di deindustrializzazione che non ha precedenti nella secolare storia del capitalismo. La crisi del capitalismo in pochissimi anni ha trasformato la Russia da secondo polo dell’imperialismo in un paese che è costretto ad importare ben il 90% dei beni consumati sul proprio territorio.

Le scelte operate in questi ultimi anni dalla borghesia russa hanno portato il paese alla completa paralisi produttiva e all’affamamento di milioni di proletari. Inserita nei circuiti della globalizzazione, in Russia si è realizzato in questi anni il solito meccanismo attraverso il quale il capitale finanziario affama interi continenti. Grazie ai processi di privatizzazione e alla liberalizzazione dell’economia, la Russia è riuscita ad ottenere dall’estero una massa considerevole di capitali, soprattutto d’origine tedesca, che anziché essere investita nella produzione è servita a soddisfare la voracità di profitti delle varie cricche al potere. Nonostante la crescita continua del debito estero, la borghesia russa ha pensato bene di investire i capitali ottenuti in prestito direttamente nei circuiti della speculazione finanziaria internazionale. Da un lato si chiedevano ed ottenevano finanziamenti per ristrutturare l’obsoleto apparato produttivo, dall’altro si utilizzavano questi capitali in manovre speculative sui mercati esteri. Infatti, nel periodo 1990/95 la fuga di capitali dalla Russia è valutabile in una cifra che sfiora i quattrocento miliardi di dollari.

Dopo gli anni dell’iperinflazione, causata dalla liberalizzazione dei prezzi, durante i quali il rublo si era enormemente svalutato, gli investitori internazionali, per far affluire nelle casse russe i propri capitali, hanno imposto al governo di Mosca di stabilizzare la propria moneta attraverso una compressione dei consumi interni e una riduzione della massa monetaria circolante. I risultati di tale politica sono stati a dir poco sconcertanti. La compressione della massa monetaria ha determinato che il rublo, nel corso dei primi sei mesi del 1998, sia stato utilizzato soltanto nel 4% delle transazioni commerciali; leggermente più utilizzato è stato il dollaro, mentre ben il 70% degli scambi si è realizzato attraverso il baratto. Sembra paradossale, ma nell’era del dominio dell’economia di carta il capitalismo impone al proletariato il ritorno alle forme più primitive di scambio, manifestando in pieno la sua funzione antistorica. Con la compressione della massa monetaria fino a questi livelli assurdi la domanda interna si è ulteriormente depressa, alimentando il circolo vizioso della crisi economica.

Negli ultimi anni, proprio a causa del declino industriale, l’unica fonte utilizzata dalla Russia per pagare gli enormi debiti accumulati con l’estero sono state le entrate provenienti dalla vendita di materie prime, in particolare del petrolio (ricordiamo che la Russia è il secondo produttore di greggio al mondo). Sul mercato petrolifero grazie ad un’offerta eccessiva, causata anche dalla fine dell’embargo nei confronti della Libia ma soprattutto da un rallentamento generalizzato dell’economia mondiale, il prezzo del greggio ha subito una caduta verticale, producendo conseguenze nefaste sulla solvibilità del governo russo. Infatti, è stata sufficiente una caduta del prezzo del petrolio per far precipitare le proprie entrate e quindi far dichiarare alla Russia l’impossibilità di onorare i debiti contratti con l’estero. I grandi capitali internazionali, non avendo più alcuna garanzia circa la solvibilità dei propri crediti, sono fuggiti in massa dal mercato russo causando la caduta verticale della borsa di Mosca e la disintegrazione del rublo, svalutatosi di oltre il 90% rispetto al dollaro. Il vorticoso spostamento di capitali ha messo in ginocchio tutto il sistema bancario russo, incapace di far fronte alla marea di crediti inesigibili.

Al verificarsi del crollo finanziario, il governo russo non ha potuto far altro che annullare di fatto il debito pubblico e congelare per tre mesi il pagamento del debito estero in scadenza.

Le conseguenze sociali di questa crisi economica sono drammatiche per il proletariato russo. Nel 1997 quasi 40 milioni di russi vivevano sotto la soglia della povertà, mentre il nello stesso anno il numero dei disoccupati ufficiali sfiorava i 38 milioni. Il fallimento economico russo è così ampio che lo stato non riesce a pagare regolarmente gli stipendi a quasi 20 milioni di impiegati pubblici. Nonostante il proletariato russo sia stato ridotto letteralmente alla fame, il fondo monetario internazionale non chiede altro che misure draconiane con le quali tagliare ulteriormente salari e stipendi e bloccare quindi la svalutazione del rublo.

Conclusioni

La crisi russa costituisce una minaccia reale all’intero sistema finanziario mondiale. La borghesia internazionale, pur dimostrandosi preoccupata per le conseguenze recessive che potrebbe scatenare la crisi russa, ha tentato di mascherare le contraddizioni dell’intero sistema capitalistico parlando di difficoltà specificatamente russe. Pur di scongiurare il cosiddetto effetto-domino, che in casi come questi rischia di travolgere l’intera impalcatura finanziaria, il pensiero dominante, nel commentare il crollo dell’economia russa, a più riprese ha tentato di minimizzare l’importanza dell’economia della Russia nell’ambito di quella internazionale. Se questo è in parte vero (il prodotto interno lordo russo rappresenta circa il 2% di quello mondiale, mentre da un punto di vista finanziario l’importanza del mercato russo è ancora minore), si fa finta di dimenticare che la crisi russa non è un caso isolato, ma arriva dopo anni durante i quali sono crollate le economie di interi continenti. Dopo le crisi finanziarie del Messico e degli altri paesi latino-americani, che agli inizi del 1995 hanno tenuto con il fiato sospeso le borse di tutto il mondo, e il tracollo economico-finanziario delle tigri asiatiche della scorsa estate, le cui conseguenze sull’intero sistema economico internazionale non si sono del tutto manifestate, quella russa è solo l’ultima manifestazione di una crisi strutturale che investe l’intero sistema capitalistico mondiale. (3)

Il fallimento della Russia è solo un episodio della più generale crisi del capitale che su tutto il pianeta sta spargendo a piene mani solo guerre e miseria. Sta fallendo miseramente quella politica liberista che negli ultimi venti anni ha dettato le linee generali di politica economica dei vari governi borghesi. Una politica che ha ridotto letteralmente alla fame interi continenti e che da più parti ormai si sente la necessità di abbandonare. Ma un ritorno puro e semplice ad una politica keynesiana, di intervento pubblico nei processi produttivi, non è lontanamente ipotizzabile, visto che è stato il fallimento di tale politica economica, iniziata verso la fine degli anni sessanta a causa della caduta del saggio di profitto, ad imporre alla borghesia di abbandonare quel modello di sviluppo per dare vita ad una nuova fase del ciclo di accumulazione incentrata su politiche economiche liberiste.

La Russia è forse il paese che meglio degli altri sintetizza la crisi del capitale e delle sue diverse politiche economiche. Dopo il fallimento del capitalismo di stato, presentato dagli stalinisti come la perfetta realizzazione del socialismo, alla borghesia non rimaneva altra carta da giocare che riproporre il vecchio ciarpame liberista. Con il crollo finanziario dello scorso agosto anche questa carta è miseramente fallita. Ma per il marxismo rivoluzionario non era difficile pronosticare tale risultato, visto che le contraddizioni del capitale, traendo origine dalla struttura economica, non possono essere risolte da cambiamenti anche radicali del mondo della sovrastruttura. La borghesia internazionale, grazie anche alla totale assenza del proletariato dalla scena politica, ha sfruttato a proprio vantaggio il crollo dell’URSS e del capitalismo di stato per giustificare politiche economiche di continuo attacco al mondo del lavoro. Ma in Russia la sbornia liberista è durata pochi anni, giusto il tempo necessario per affamare ulteriormente decine di milioni di proletari, ponendo sempre di più all’ordine del giorno la necessità storica dell’abbattimento del capitalismo in tutte le sue diverse versioni, statalizzato, keynesiano o più semplicemente liberista.

Lorenzo Procopio

(1) In questo lavoro non analizzeremo, per ovvi motivi di spazio, le cause che hanno determinato la fine dell’URSS né la nostra critica all’esperienza del capitalismo di stato; pertanto chi volesse approfondire tali argomenti può leggere i numerosi lavori fatti dal partito nel corso degli anni.

(2) Tutti i dati di questo capitolo sono stati presi dal libro di Claudio Fracassi "Russia. Che succede nel paese più grande del mondo" edito da Avvenimenti.

(3) Leggere a proposito l’articolo riguardante le diverse fasi della crisi del capitalismo, che appare su questo stesso numero della rivista

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.