I dati economici confermano un capitalismo sempre più malato

Malgrado i continui attacchi al mondo del lavoro le cause strutturali della crisi permangono perché ineliminabili

Nonostante i licenziamenti e le politiche dei sacrifici vadano avanti da molti anni, il capitale in tutti i paesi avanzati fa sempre più fatica a spuntare saggi di profitto tali da soddisfare la condizione vitale della propria autovalorizzazione. Un caso a parte sono gli Stati Uniti, il cui andamento economico è favorevole negli ultimi anni, e ciò si spiega con il fatto di poter meglio gestire la crisi dall'alto del loro strapotere finanziario e militare che gli permettono di intascare uno straordinario ammontare di rendite di posizione in qualità di predoni imperialisti dominanti a discapito dei concorrenti, malgrado l'enorme deficit commerciale.

In Italia i risultati economici del 1998 sono stati nettamente inferiori alle aspettative. Il Pil è cresciuto di un modesto 1,4%, contro il 2,9% dell'insieme degli altri paesi dell'Unione europea. Per quest'anno le previsioni sono ancora peggiori rispetto alle attese, l'Italia avrà un leggero miglioramento con una crescita del 1,6%, mentre i partner europei complessivamente arretreranno al 2,1%. Date le minori entrate fiscali a causa dello scarso incremento della produzione ciò farà saltare i parametri stabiliti dal Trattato di Maastricht sul contenimento dei deficit pubblici dei vari stati rispetto al Pil.

A determinare esiti così deludenti hanno influito le crisi del Sud Est asiatico, della Russia e del Brasile, che in particolare modo hanno colpito l'Italia. Ma un dato che va sottolineato per quanto riguarda il capitale nostrano, in quanto sintomo di una tendenza ad assumere maggiore aggressività sui mercati internazionali, quindi inevitabilmente a cercare di disegnare un proprio ruolo di maggiore peso anche da un punto di vista politico nella Ue e nel mondo, è l'esportazione di capitale finanziario oltre frontiera.

Mentre in passato gli investimenti diretti stranieri in Italia erano di gran lunga superiori a quelli italiani all'estero, oggi gli investimenti produttivi delle imprese italiane all'estero ammontano ad un totale di 282.845 miliardi a fronte di 176.215 miliardi investiti dalle imprese estere in Italia. E ciò non è solamente un mezzo per produrre là dove la manodopera costa molto meno, ma è anche dettato dalla necessità di accaparrarsi nuovi mercati e controllarli direttamente sul posto, le esportazioni da sole non danno le dovute garanzie. A conferma dell'orientamento in atto sono 29 mila i miliardi in uscita lo scorso anno, cifra di tutto rispetto, contro i 5 mila miliardi in entrata. La perdita di oltre 24 mila posti di lavoro nella grande industria in parte è direttamente collegata a questo fenomeno.

La crisi è la molla della concorrenza spietata tra i capitali nazionali, l'ideologia liberista è lo scheletro nell'armadio ripescato dalla borghesia per giustificare i propri misfatti. Dietro la finta libera imprenditorialità e le presunte proprietà taumaturgiche dell'onnipotente mercato, si nasconde tutta l'ipocrisia della classe borghese. Altro che democrazia! Ciò che emerge senza veli, e sempre di più si evidenzierà in futuro, è la più brutale dittatura di pochi centri di potere monopolizzati dalla commistione di interessi tra grandi industriali e finanzieri, protetti dall'apparato violento e repressivo del loro stato.

La dinamica perversa intrapresa dal capitalismo fa intravedere un orizzonte fosco per il proletariato internazionale: da una parte la boghesia per sopravvivere deve continuare a colpire duramente sulle sue condizioni di vita, dall'altra lo scenario interimperialistico denota un'accelerazione del deterioramento della situazione e la guerra nel Kosovo è un segnale forte in questo senso.

Per il momento all'attacco congiunto di tutte le forze borghesi non fa riscontro un'adeguata risposta da parte del proletariato. Governo padroni e sindacati costituiscono il fronte comune degli interessi del capitale, e in questa fase cruciale sono impegnati a perpetuare la più rigida sottomissione della classe lavoratrice affinché non rialzi la testa.

Non a caso a gestire tutto questo è in prima linea la socialdemocrazia e i sindacati. Mai è stata concessa tanta mano libera da governo e sindacati al padronato, dai licenziamenti alle nuove norme per il contenimento del costo del lavoro alla flessibilità selvaggia. Ancora una volta si confermano i gendarmi della classe operaia e tutte le loro promesse del passato, quando ci dicevano che tirare la cinghia era necessario per il bene del paese e delle future generazioni, sono state drasticamente smentite dai fatti, ora buona parte di quelle generazioni sono invecchiate nello stato di disoccupazione e nel precariato, mente le nuove hanno davanti a se prospettive ancora peggiori.

La stessa logica delle stangate sottende il patto sociale siglato dalla Triplice con governo e Confindustria, la scusa è favorire gli investimenti e l'occupazione al sud e nelle aree depresse, mettendo a disposizione dei potenziali imprenditori infrastrutture e agevolazioni di ogni sorta, in primo luogo salari da fame. In realtà la manovra è un ulteriore passo in avanti per generalizzare la riduzione dei salari e riformare le vigenti normative contrattuali troppo "garantiste".

Né deve ingannare la polemica in corso tra Cgil, la quale si rifiuterebbe di ratificare il contratto d'area per Gioia Tauro, e Cisl e Uil che invece sarebbero disposti a sottoscriverlo. L'ostinazione di Cofferati, in questo caso, nasconde le beghe e gli intrighi di potere tra le confederazioni e non c'entra assolutamente niente con la finta difesa dei lavoratori. Le affermazioni del segretario della Cgil, rispetto alla questione che Gioia Tauro non può essere più considerato territorio di crisi e al problema più generale della flessibilità, esprimono solo il timore del maggiore sindacato italiano di perdere quegli spazi residui di contrattazione sui quali si fonda la propria esistenza. Tutto questo conferma una volta ancora che la ripresa della lotta di classe dovrà passare sul cadavere del sindacato.

cg

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.