Ma quale occupazione! I posti di lavoro aumentano, ma solo per le statistiche

Con un tono oscillante tra un moderato trionfalismo e il rassicurante, il ministro dell'industria Bersani e il governatore della Banca d'Italia Fazio hanno dichiarato enfaticamente che il peggio è passato, che i dati della economia di questi ultimi due mesi sono positivi, che per il prossimo semestre il Pil dovrebbe raggiungere il tetto programmato e che - suonino le trombe! - l'occupazione è in aumento.

Che l'azienda Italia possa esprimersi economicamente in termini meno critici degli ultimi anni è possibile. Che il Pil, i cui parametri sono stati corretti al ribasso almeno quattro volte in due anni, non cali ulteriormente può rientrare nella logica delle cose capitalistiche italiane, ma che si parli di aumento della occupazione è un insulto alla miseria di milioni di lavoratori oltre che al buon senso. I dati recitano che si sarebbero creati 280 mila posti di lavoro in più riducendo di tre decimi di punto percentuale la disoccupazione in Italia, niente di eccezionale commentano gli stessi analisti borghesi, ma il dato significativo sarebbe l'inversione di tendenza da anni a questa parte. Al riguardo, la prima cosa che va denunciata è che ci si dimentica dei posti di lavoro che contemporaneamente si sono perduti soprattutto nella grande industria. Il che fa sì che nel computo relativo i nuovi posti di lavoro siano inferiori di almeno 80 mila unità e che i punti decimali guadagnati non sono tre ma a mala pena due. Detto questo, detto niente perché il problema vero riguarda la natura dei nuovi posti di lavoro. Al 90% la nuova occupazione è rappresentata da contratti a part time, lavoro interinale, contratti d'area e di formazione. Ovvero lavori a orario ridotto, a tempo determinato e a salari mediamente inferiori tra il 40% e il 60%. La voce più consistente sarebbe quella del part time con il risultato per il capitale di avere a disposizione una forza lavoro soltanto per il tempo necessario, di pagarla all'incirca la metà e di allungare la giornata lavorativa a quei lavoratori che vengono definiti garantiti, attraverso gli straordinari. Le altre, lavoro interinale, o lavoro usa e getta, non danno nessuna garanzia di continuità e i contratti a termine sono per definizione la certezza della precarietà. Un tempo tutto ciò si chiamava sotto occupazione, intendendo con questo termine, una sorta di falsa occupazione o di occupazione parziale e dimezzata. Oggi lavorare mezza giornata, a tempo determinato, in affitto una settimana si e dieci no o con contratti di formazione a scadenza che di solito non portano a un lavoro fisso, il cui livello salariale oltretutto è a dir poco scandaloso, è sinonimo di occupazione e come tale è statisticamente calcolata.

C'è da tremare al pensiero che il futuro della società capitalistica è questo, e gli Usa sono li a ricordarcelo. Questo e solo questo può concedere il capitalismo moderno. Stretto nella morsa dei saggi del profitto decrescenti nel lungo periodo e della concorrenza che si inasprisce proporzionalmente alla crisi dei profitti, il capitalismo non può che rendere sempre più aspro il rapporto con la forza lavoro. Per quanto riguarda l'occupazione, i termini sono questi: o non si creano posti di lavoro perché la crisi dei profitti e la concorrenza impongono processi di ristrutturazione ad alto contenuto tecnologico che non solo non prevedono nuova occupazione ma il suo contrario, oppure i nuovi posti di lavoro devono soddisfare le necessità di sopravvivenza di questo capitale. In altri termini la nuova occupazione non può che essere parziale, precaria e caratterizzata da salari bassi se non bassissimi.

I dati forniti con enfasi da Bersani e Fazio devono suonare come un tragico monito per le generazioni proletarie di oggi e di domani. L'occupazione, quella vera non è più compatibile, o è compatibile solo in parte, con le società capitalistiche moderne. Quella fasulla, su cui si cimentano le statistiche, è un inno alla precarietà: oggi c'è, domani scompare. Si lavora sei mesi e si sta a casa un anno. Si basa sulla flessibilità in entrata e in uscita, ovvero il lavoratore quando riesce ad entrare nei meccanismi produttivi, deve sottostare ad una serie di norme contrattuali che lo legano al capitale per quel tanto che basta al suo processo di valorizzazione e non un minuto di più. Deve inoltre poter essere dismesso o licenziato senza che intervengano garanzie di sorta sul piano della difesa del posto di lavoro. Sulla mobilità interna ed esterna che vuol dire lavorare se, come e dove decide il capitale. Ma il tutto a tempo determinato, a part time o con il lavoro in affitto che sono gli strumenti migliori in mano al capitale per operare lo sfruttamento nei modi e nei tempi a lui più congeniali. Per i giovani lavoratori ciò significa non soltanto super sfruttamento quando si lavora, ma anche l'impossibilità di costruirsi una pensione. La precarietà e la saltuarietà del posto di lavoro fanno sì che costruirsi un percorso pensionistico, sempre ammesso che le pensioni rimangano, sarà un miraggio irraggiungibile per chi sarà costretto a lavorare a singhiozzo con i meccanismi del lavoro parziale, del lavoro interinale o dei contratti a termine. Bersani e Fazio saranno soddisfatti, ma la realtà è che siamo in presenza di un capitalismo che crea mezzi posti, mezzi lavori a mezzo salario, di intero c'è solo lo sfruttamento e i dati statistici.

F.D.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.