La guerra in Daghestan

Dietro gli scontri gli enormi interessi economici legati al controllo delle risorse petrolifere

Neanche il tempo di festeggiare la fine della guerra in Kosovo che un altro fronte bellico si è aperto nella regione del Mar Caspio. È ormai chiaro a tutti, anche ai più convinti difensori di questo criminale sistema di produzione, che il capitalismo nella sua fase imperialistica non può fare a meno di scatenare con sempre maggiore intensità guerre in tutte le aree del pianeta, anche in quelle che sembrano prive di un immediato interesse economico-politico-militare. Un'area come quella caucasica, in apparenza così distante dai grandi flussi commerciali e finanziari del pianeta e senza particolari interessi da un punto di vista economico-politico, in realtà è al centro di uno dei più grossi scontri interimperialistici di questo fine millennio.

Da oltre un mese i guerriglieri wahabiti guidati da Shamil Basaev, il leader incontrastato dei ribelli daghestani con un passato alquanto torbido da ministro nella repubblica cecena, stanno mettendo a dura prova la macchina bellica della Russia. Gli scontri, iniziati come una semplice schermaglia sulle montagne circostanti la capitale Makhackala, si sono allargati in tutto il resto del Daghestan, causando ogni giorno centinaia di morti. I guerriglieri wahabiti, grazie alla loro propaganda ideologico-politica nelle fasce politicamente più arretrate della società daghestana e soprattutto agli aiuti militari ricevuti dai paesi islamici confinanti (ma sono sempre più forti i sospetti di aiuti occidentali), hanno trasformato la loro guerriglia in scontro militare aperto, causando in questi ultimi giorni pesanti perdite all'esercito russo.

L'escalation militare di questi ultimi mesi è la naturale conseguenza della crisi economica e politica che ha portato alla dissoluzione dell'Unione Sovietica. Una crisi che ha letteralmente cambiato la geografia politica del pianeta, in modo particolare nella regione del Caucaso. Grazie al crollo della Russia, le varie borghesie nazionali emancipandosi in parte dal giogo sovietico hanno lanciato la loro offensiva politico-militare per meglio difendere i loro interessi di classe. Nel vuoto lasciato dal crollo verticale dell'impero sovietico sono prosperate le attività illecite più disparate; alle ruberie legalizzate degli uomini del partito "comunista"hanno fatto seguito quelle della malavita organizzata. Un'intera area trasformata in territorio di conquista per le organizzazioni mafiose. È per questo motivo che nei primi anni novanta appaiono sulla scena politica personaggi come Shamil Basaev legati all'integralismo islamico, che per contrastare la subalternità all'imperialismo russo vorrebbe imporre la Sharia (la legge islamica) al Daghestan e alla Cecenia. Come in Algeria, Iran e tanti altri paesi, anche in queste regioni la rinascita del nazionalismo è avvenuto sfruttando il reazionario estremismo islamico. Proprio grazie alla rinascita del fanatismo religioso è stato possibile assorbire nell'ambito della compatibilità capitalistiche tutte le istanze e la rabbia di milioni di diseredati, ridotti alla fame dalla bramosia di profitti della borghesia russa e di quella indigena. Ma dietro l'ascesa dell'Islam si nascondono interessi materiali ben più consistenti, che fanno della regione uno dei crocevia più importanti nella produzione e nella distribuzione del petrolio del mar Caspio.

Dietro gli attentati di matrice islamica che hanno insanguinato la Cecenia, il Daghestan e gli altri paesi dell'area caucasica in questi ultimi anni i motivi religiosi sono solo il paravento dietro il quale le varie bande di criminali si contendono il dominio per il controllo politico-militare dell'intera area. Sono gli stessi interessi che hanno mosso le grandi potenze mondiali a intervenire massicciamente in Kosovo e bombardare la Jugoslavia: il controllo del mercato del petrolio estratto nel Mar Caspio. La posta in gioca nella regione del Caucaso è veramente enorme. Il Daghestan condivide una lunga frontiera con l'Azerbeagian, il paese che si trova al centro di una rete di oleodotti e gasdotti che nei prossimi anni dovrebbero estendersi dal Mar Caspio verso l'Europa, attraverso la Georgia e la Turchia fino al Mediterraneo e verso il sud, attraverso l'Iran fino al golfo Persico. Secondo alcuni sondaggi effettuati dalle grandi compagnie petrolifere, da qui a dieci anni dalla regione potrebbero essere estratti oltre 4 milioni di barili di petrolio al giorno, una quantità quasi pari a quella estratta attualmente nel Mar del Nord. Proprio la gestione diretta di queste ingenti quantità di greggio, sono alla base degli scontri che quotidianamente insanguinano i paesi della regione.

Le istanze separatiste daghestane sono incompatibili con gli interessi dell'imperialismo russo; infatti, la perdita del suo controllo significherebbe il definitivo allontanamento della Georgia e dell'Azerbaigian dall'orbita della Russia, con tutte le negative conseguenze in materia di controllo del petrolio. La battaglia che si è scatenata in questi ultimi mesi nella regione del Mar Caspio è solo una fase della grande guerra che si è scatenata su scala internazionale fra le varie potenze imperialistiche per il controllo del mercato del petrolio. Un mercato che è diventato importantissimo sotto un duplice aspetto. Il petrolio, considerato come pura e semplice materia prima da utilizzare nei processi produttivi, entrando a far parte in quasi tutti i cicli produttivi è un elemento determinante nella formazione dei prezzi di produzione e quindi del saggio medio di profitto; è facile perciò immaginare come una piccola variazione del suo prezzo si rifletta sul saggio del profitto. Inoltre, il greggio essendo acquistato sui mercati internazionali esclusivamente in dollari è divenuto il più potente mezzo di gestione della rendita finanziaria su scala mondiale in mano agli Stati Uniti, il paese che detiene il monopolio nello stampare dollari (per ovvi motivi di spazio rinviamo i lettori agli articoli apparsi sull'ultimo numero di Prometeo da poco pubblicato).

Dietro la ripresa in grande stile dell'offensiva wahabita in Daghestan si nascondono numerosi paesi stranieri che, in seguito alla caduta dell'impero sovietico, coltivano il sogno di accaparrarsi le ingenti risorse petrolifere. Già in passato tramite le grandi compagnie petrolifere i paesi occidentali, gli Stati Uniti in maniera particolare, sono penetrati economicamente nella regione, minando in profondità il monopolio russo. Ora la partita si è spostata su un terreno più spiccatamente politico-militare, tanto che i maggiori finanziamenti alla guerriglia hanno sospette origini occidentali. Non è proprio un caso proprio in questi giorni sulla stampa internazionale la classe politica americana ha invitato la Casa Bianca a puntare la propria attenzione sulla questione del Daghestan, evitando di trasformare il Caucaso nel Far West del petrolio. Nella sostanza s'invita l'occidente (leggi Stati Uniti) a non ripetere l'errore di ritardare l'intervento armato così com'è successo nei Balcani. Testualmente scrive il politologo americano Robert D. Kaplan: "L'occidente ha in sostanza ignorato i Balcani fino allo scoppio della guerra, nel 1991. Ora è arrivato il momento di pensare al futuro del Caucaso e del Mar Caspio". Dopo il Kosovo un nuovo intervento americano ai confini dell'ex impero sovietico?

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.