L'inflazione bussa ancora

Ma neppure con uno sforzo di fantasia si possono tirare in ballo mentre il petrolio...

Come era ampiamente previsto, i dati relativi all'andamento dell'inflazione nello scorso mese hanno confermato la tendenza al rialzo già rilevata nei mesi precedenti. Ciò che colpisce di questo dato non è tanto la sua entità quanto il fatto che esso si evidenzia in una fase del ciclo economico tendenzialmente stagnante e comunque non certo caratterizzata da un eccesso di domanda o da forti rialzi salariali. I salari anzi sono inchiodati da tempo immemorabile a tanti e tali parametri di contenimento che di fatto mostrano una sostanziale tendenza alla riduzione con conseguente ristagno dei consumi. Almeno questa volta, dunque, la causa della crescita dei prezzi va cercata altrove e in verità l'attenzione degli economisti borghesi e dello stesso governo si è appuntata sul forte rialzo dei prezzi del petrolio registrato a partire dallo scorso febbraio e accentuatosi durante e dopo la guerra del Kossovo. Il governo italiano, prendendo atto di ciò e nella convinzione che si tratti di un fenomeno meramente congiunturale, al fine di evitare che nel prossimo anno scatti, come previsto, il recupero per salari e pensioni dei punti di inflazione oltre il tasso programmato, ha truffaldinamente e temporaneamente ridotto il carico fiscale sui prodotti petroliferi. Dell'avviso che si tratti di un fenomeno puramente congiunturale e specifico della economia italiana, si è dichiarato anche il responsabile del settore economico dei DS, Burlando (vedi intervista rilasciata a La Repubblica del 2 novembre scorso) che addirittura in una recente intervista ha indicato come causa strutturale del fenomeno la presunta scarsa concorrenza che ci sarebbe in Italia a causa della forte presenza dello Stato nell'economia; e individua nelle privatizzazioni la panacea di tutti i mali dimenticando però che paesi come la Germania e la Francia in cui di privatizzazione neppure si parla fanno registrare un tasso di inflazione mediamente pari alla metà di quello italiano. E più o meno della stessa opinione è la stragrande maggioranza dei commentatori economici: si tratta di un fenomeno passeggero di scarsa rilevanza; eppure, a ben guardare, è chiaro come la luce del sole che le cose non stanno così.

Intanto ci sarebbe da chiedersi come mai il prezzo del petrolio sia passato, nel giro di otto mesi, da dieci a 24 dollari al barile, con punte fino a 26 dollari, nonostante la grave stagnazione dell'economia asiatica, la crisi russa e brasiliana e il forte rallentamento dell'economia europea. Per non dire del fatto che contemporaneamente i costi di estrazione del petrolio, grazie anche qui alla intensa automazione dei processi estrattivi, si sono fortemente ridotti e - come ha ufficialmente reso noto la Shell - sono ormai pari a quattro dollari il barile nel Mare del Nord e - secondo l'ex ministro del petrolio e presidente dell'Opec Yamani - non superiori a un dollaro al barile nel Medioriente. E non si tratterebbe di un inutile esercizio retorico. Capire le ragioni di questo rialzo significa capire esattamente quello che sta avvenendo nell'economia e nella politica internazionale.

Con tutta evidenza, siamo in presenza di un rialzo di natura extra-economica; infatti, così come abbiamo visto non esserci stato un incremento della domanda, anche dal lato dell'offerta non si è verificata nessuna evento che giustifichi una crescita del prezzo; anzi se si tiene conto che grazie agli accordi oil for food ormai anche l'Iraq con i suoi 2,8 milioni di barili al giorno (un milione più del Venezuela) è tornata sul mercato, i prezzi sarebbero dovuti scendere.

Sono saliti, invece, grazie ad accordi fra i maggiori paesi produttori e in particolare fra l'Arabia Saudita, l'Iran, Venezuela e Mexico sotto l'ala protettrice degli Stati Uniti accomunati: i primi da una paurosa crisi finanziaria; e i secondi dalla forte necessità di tenere alto il tasso di cambio del dollaro nei confronti dell'Euro senza dover spingere molto sul pedale dei tassi di interesse.

Come ha già più volte denunciato lo stesso presidente della Federal Reserve, Greenspan, un fantasma si aggira da tempo sull'economia mondiale ed è il fantasma della grande bolla speculativa che si è formata a Wall Street in conseguenza delle crisi finanziarie che lo scorso anno hanno investito e travolto l'Asia, la Russia e il Brasile. Per evitare il fallimento di numerose banche statunitensi e di alcuni grandi Fondi comuni di investimento, sono state immesse sul mercato finanziario valanghe di dollari e i tassi di interesse statunitensi, nonostante alcuni segnali come la lieve crescita dell'inflazione, consigliassero un loro rialzo morbido, sono stati addirittura ridotti per ben tre volte di seguito così da rendere ancora più appetibili e redditizi i titoli quotati a Wall Street e alimentare quella forsennata rincorsa al rialzo che ancora non conosce sosta anche se nello scorso ottobre si sono avvertite le prime tremende scosse che da un momento all'altro potrebbero mandare gambe all'aria quest'immenso cartello di carta su cui poggia ormai la più grande borsa del mondo e l'intera economia mondiale.

Per non fare esplodere l'inflazione interna ed evitare il sicuro crollo di Wall Street che si verificherebbe con un forte aumento dei tassi di interesse, gli Stati Uniti hanno favorito, con interventi extra-economici (ripresa dei bombardamenti sull'Iraq, guerra del Kossovo ecc. ecc.), il rialzo del prezzo del petrolio in modo da mantenere alte le quotazioni del dollaro anche in presenza di tassi di interessi relativamente bassi e in presenza di una forte crescita della loro massa monetaria. In tal modo l'inflazione statunitense è stata e continua a essere scaricata sui paesi importatori di petrolio e in particolare su quelli che non disponendo di una forte valuta sono costretti a servirsi del dollaro anche per acquistare una scatola di cerini. Ma paga il dazio anche l'Europa dell'Euro visto che la neonata moneta non è ancora in grado di competere ad armi pari con il biglietto verde statunitense. Di fronte a ciò molti osservatori non trovano di meglio che esaltare le virtù della grande America senza però rendersi conto che in pratica questa virtù altro non è che l'espressione della grande forza imperialistica di questo paese e che l'economia mondiale è stretta nella morsa di una gigantesca contraddizione. Da un lato, per evitare il crollo di Wall Street e la crisi finanziaria mondiale che lo seguirebbe, deve subire il rincaro del prezzo del petrolio; dall'altro subendo questo artificioso aumento, rischia di vedere le già forti spinte recessive in essa presenti subire una accelerazione in direzione di una vera e propria depressione. A tale proposito, su Il Lunedì della repubblica del 25 ottobre scorso, ancora l'ex ministro saudita Yamani - che di petrolio se ne intende - ha segnalato i pericoli della attuale situazione: "I prezzi attuali sono troppo alti. Malgrado qualche ridimensionamento, qualsiasi livello sopra i 20 dollari è pericoloso per tutti e tende a ridurre gli incrementi dei consumi. Se questo andamento proseguirà, inevitabilmente andrà ad incidere sullo sviluppo globale e provocherà la mancata ripresa dell'Asia, un rallentamento della crescita in America e problemi analoghi in Europa" e invita a operare per la stabilizzazione del prezzo attorno ai 15-16 dollari al barile.

Ma, come abbiamo, visto Il caro-petrolio, riflettendo tutte le contraddizioni che la crisi di ciclo del capitale ha esacerbato e ingigantito nel corso di questo ultimo scorcio di secolo, ha veramente poco di congiunturale e più che essere una opzione fra le tante, risponde alla forte e precisa necessità di alimentare il flusso della rendita finanziaria che dà linfa alla più grande bolla speculativa di tutti i tempi. Pensare, quindi, a una riduzione indolore del prezzo dell'oro nero appare allo stato delle cose più un'aspirazione che una via realmente praticabile. In realtà, il prezzo del petrolio ha assunto nella determinazione del trend dell'economia mondiale e nella definizione delle gerarchie imperialistiche una tale valenza da escludere in partenza ogni ipotesi di una sua gestione non conflittuale; anzi, essendo divenuto il suo controllo l'essenza stessa del moderno dominio imperialistico, si tratta di una questione destinata a restare al centro dell'economia e della politica internazionali per tutta questa fase della crisi del ciclo di accumulazione del capitale. D'altra parte i recenti fatti in Armenia, la guerra russo-cecena, la guerra del Kossovo per non parlare dell'Afganistan, del Kurdistan, del conflitto Indo-pakistano e di tutte le guerre e guerricciole che annegano in un mare di sangue gran parte dell'Africa, non sono forse alcuni dei suoi velenosissimi frutti?

GP

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.