Tempi di guerra, tempo di ripresa della lotta di classe

Il dopo Kossovo

Se avessimo creduto alle fandonie imperialistiche in base alle quali l’intervento Usa - Nato si sarebbe reso necessario per questioni umanitarie, dovremmo aspettarci un secondo intervento, questa volta a favore dei Serbi. Cessate le operazioni belliche in Kosovo mirate, sempre secondo le fandonie imperialistiche, a difendere la popolazione di origine albanese dalle angherie serbe, le vittime si sono trasformate in carnefici ricambiando con la stessa moneta tutti i soprusi subiti e con tanto di interessi. Violenze, uccisioni di massa, distruzioni di case e pulizia etnica oggi sono all’ordine del giorno. La differenza sta nel cambio delle parti e nella più assoluta tolleranza da parte delle forze internazionali che in loco dovrebbero vigilare sul quieto vivere e sulla integrazione sociale delle parti. Nemesi storica, legge del contrappasso? Neanche per sogno. L’imperialismo americano ha fatto i suoi conti. Ha sfruttato la situazione di crisi e di tensione in Kosovo tra il governo di Belgrado e la popolazione di origine albanese favorendone l’esasperazione. Ha perseguito l’obiettivo del controllo della rendita petrolifera e del trasporto del petrolio caspico impugnando falsamente la questione umanitaria, e in questa contabilità, una volta ottenuto l’obiettivo, non c’è stato alcuno spazio per la repressione delle ritorsioni albanesi sulla popolazione serba. Umanitarismo peloso, si potrebbe dire, ma questa è la tremenda logica dell’imperialismo.

La guerra del Kosovo, come era nelle previsioni, ha sortito l’effetto di consentire agli Usa di iniziare a controllare l’area balcanica quale praticabile terminale sud occidentale dei corridoi petroliferi del Caspio. Messo a tacere Milosevic quale possibile alleato di Mosca nella spartizione e controllo della via europea al petrolio asiatico. Avvertita l’Europa che il suo fabbisogno energetico, oggi prevalentemente medio orientale, domani anche caspico, non verrebbe meno a condizione che l’allineamento politico e la subordinazione economico - finanziaria nei confronti di Washington rimangano inalterati. Mostrato con la forza delle armi che ogni soluzione alternativa non può che fare i conti con lo strapotere militare americano, non solo e non più in territorio neutro, ma nel cuore della stessa Europa. Reso palese a tutti i paesi dell’ex est europeo che l’unico involucro militare nel quale possono trovare sicurezza e protezione è quello della Nato, la guerra del Kosovo ha svolto sino in fondo il compito che d’oltre atlantico le era stato assegnato.

Allo stesso Kosovo si è concesso che le armi in possesso dell’Uck rimanessero dov’erano cambiando divisa e funzione ai miliziani nazionalisti che, da eversori e terroristi, come avrebbero potuto essere considerati se appartenenti ad un’altra area geografica o ad un altro contesto politico, sono stati trasformati in polizia di stato, di uno stato mai dichiarato e comunque illegittimo sotto qualunque versione del diritto internazionale o umano ai quali l’imperialismo fa strumentalmente ricorso ogni qual volta gli convenga. Ma anche ciò fa parte degli obiettivi precedentemente individuati. Così come l’imperialismo americano era riuscito a trasformare poche migliaia di disperati nazionalisti mal equipaggiati in un esercito di decine di migliaia di combattenti armati sino ai denti, con lo scopo di servirsene quale grimaldello nella questione serba, così a cose fatte, l’Uck rappresenta il referente in loco delle strategie balcaniche americane.

Un’altra conseguenza è rappresentata dallo straordinario aumento del prezzo del greggio. Dai 9 dollari di marzo è balzato ai 24 di settembre, per poi stabilizzarsi attorno agli attuali 22. Nel marzo del 99 aveva raggiunto il minimo storico dopo la crisi petrolifera del ‘73, successivamente alla guerra del Kosovo si è triplicato nello spazio di pochi mesi. Il balzo in avanti, se ha avuto un momento di accelerazione dalle vicende belliche, rispondeva a precise dinamiche economico - politiche. Innanzitutto la dichiarata volontà di diminuire l’offerta di petrolio entro i 26 milioni di barili al giorno, nonostante che la domanda teorica superi i 28, per aumentarne il prezzo di vendita sul mercato internazionale. La decisione è stata presa da Arabia Saudita, Kuwait, Messico e Venezuela, ovvero da quei paesi produttori che dipendono direttamente dalle strategie energetiche e politiche americane. Va aggiunto che gli accordi si sono tenuti segretamente a Riad, e che solo a decisione presa, sono stati messi al corrente gli altri paesi Opec. Una sorta di colpo di mano, con l’aiuto del Messico che peraltro non appartiene all’Opec, organizzato da Washington e reso operativo dalla iniziativa dei fedeli alleati Sauditi. Il che non ha immediata attinenza con il petrolio del mar Caspio e le relative vie di accesso in Europa, ma ripropone in termini pressanti l’interesse degli Usa per il controllo del greggio, e per la rendita petrolifera in qualsiasi area si collochino. Va da sé che nella prospettiva non lontana dello sfruttamento e della immissione nel circuito internazionale del petrolio caucasico, i paesi dell’Opec si siano immediatamente dati da fare nel tentativo di gestire al meglio le proprie riserve e di giocare nel frattempo alla massima realizzazione economica possibile con l’aumento dei prezzi. Lo zampino Usa non doveva fare altro che creare le condizioni, imprime al processo la massima velocità e intensità possibili, in modo da rendere ancora più perseguibile un duplice obiettivo. Il primo di rendere ancora più consistente la sua quota di rendita petrolifera espressa in petrodollari, la seconda di mettere in difficoltà economica i concorrenti europei con l’aumento dei costi energetici derivante dall’aumento del prezzo del greggio. Il giochino non è nuovo: nella seconda metà degli anni 70, nel bel mezzo della più grave recessione dal secondo dopoguerra, era già stato messo in atto con tutte quelle conseguenze economiche e inflattive nei confronti di Europa e Giappone che sono passate alla storia come la grande "crisi energetica". Non occorre essere dei sofisticati analisti per comprendere come l’aumento del prezzo del petrolio, ovvero della materia prima strategica per eccellenza di cui nessun paese ad alta industrializzazione può fare a meno, incida sui costi di produzione, sulla competitività delle merci e dei servizi prodotti, faccia sentire il suo peso nell’incremento o decremento del Pil e della bilancia dei pagamenti con l’estero. Un aumento di un solo dollaro a barile comporta lo spostamento di miliardi di dollari da un’area economica all’altra decretando la fortuna o la crisi a catena di interi continenti sia sul terreno economico che su quello finanziario. È altrettanto evidente che gli Usa, annoverabili tra i maggiori produttori e controllori del petrolio e della rendita mondiale, usino questa arma in termini di penalizzazione nei confronti degli avversari, Russia, Europa e Giappone su tutti, usufruendo del proprio peso imperialistico e militare.

Non per niente la guerra del Kosovo, che ha avuto come scenario il controllo del petrolio caspico, ha prodotto tra le conseguenze più immediate la impennata del prezzo del greggio e ha sollecitato una risposta da parte di Russia ed Europa. La seconda ha dichiarato per bocca di più di un suo ministro degli esteri, Dini compreso, che era giunto il momento di dotarsi di un esercito se si vuole uscire dalla sudditanza americana. La prima ha messo in atto la sua opzione militare per il petrolio caucasico in Cecenia e Daghestan. Non è un caso che tutta quell’area che va dalle Cecenia all’Armenia, che è interessata al possibile passaggio degli oleodotti del Caspio verso il Mar Nero sia in bellicosa fibrillazione. La Russia ritiene, sulla scorta delle vecchie concessioni valide all’epoca dell’Urss, che l’area in questione, comprensiva dei paesi produttori di petrolio al di la del Caspio, sia di sua competenza e non ammette interferenze, autonomie e secessioni. La posta in palio è enorme e rappresenta l’unica seria possibilità di un suo serio rilancio economico per i prossimi venti anni, è una questione di sopravvivenza capitalistica senza altre alternative immediate che future, da perseguire assolutamente sia sul piano dello sforzo politico che della ferocia imperialistica. Dall’altra parte del fronte si agitano una serie di micro borghesie straccione che vivono di violenza nei confronti delle rispettive popolazioni, di traffico di armi e di droga, deboli al punto di vendersi al migliore offerente per un pugno di dollari ma rese audaci dalla prospettiva di godere delle briciole dell’eventuale passaggio degli oleodotti caspici sul loro territorio. In questo scenario la prima condizione da soddisfare è la secessione da Mosca, la seconda è quella di coinvolgere le rispettive popolazioni sul terreno religioso dell’integralismo islamico, mistico involucro dei neo nazionalismi borghesi di stampo orientale, quale carne da macello da usare sui piccoli fronti della grande guerra petrolifera. È come se una scossa tellurica avesse attraversato tutta l’area. La Cecenia spinge il Daghestan alla comune secessione da Mosca. In Armenia le forze ultra nazionaliste islamiche ( eccidio nel Parlamento di Erevan) ripropongono la guerra santa contro l’Azerbaigian per il controllo del Nagornj Karabak. L’Inguscezia e la Ossezia del sud sono a loro volta in allarme bellico in quanto zone di possibile interesse tra le parti interessate. Da un lato la Russia che non può rinunciare alle sue uniche vie di accesso all’approvvigionamento energetico. Dall’altra gli Usa che vogliono escludere tutti, ma in modo particolare la Russia, dai giacimenti del Caspio. In mezzo una piccola pletora di nazionalismi caucasici che combattono e si combattono per uscire dalla poco vantaggiosa sudditanza russa e darsi alla questua verso il più remunerativo colosso occidentale. Lotte tra poveri? Si senz’altro, ma tra borghesie povere, che non lesinano gli orpelli del potere religioso, di cui sono vittime le masse, per costringerle sul terreno fratricida della guerra. Le armi, i dollari, le direttive e gli orientamenti strategici vengono da fuori, ma la forza d’urto deve essere trovata all’interno e, come al solito, una borghesia che si rispetti quando scende sul terreno della guerra per difendere i propri interessi o per limitare quello degli altri, deve avere dietro di sé le masse altrimenti non sarebbe nemmeno in grado di muoversi. E negli attuali percorsi socio religiosi di questi paesi l’arma di Allah sembra avere risorse sorprendenti.

Guerre, sempre guerre. Ma i comunisti da che parte stanno?

L’attuale scenario balcanico e caucasico ripropone l’evento bellico, comunque evocato e combattuto, quale condizione insopprimibile della contraddittorietà del capitalismo e dei suoi tentativi di esorcizzarla con l’uso pianificato della violenza. Ieri la guerra del Golfo, la dissoluzione della Yugoslavia, la guerra civile in Bosnia, oggi il Kosovo e le crisi caucasiche. Le guerre drammaticamente mettono all’ordine del giorno l’atteggiamento che le forze politiche devono assumere nei loro confronti. Per i comunisti il rifiuto e la lotta alla guerra dovrebbero essere scontati. Perché la guerra nasce dalle insanabili contraddizioni capitalistiche e si propone come soluzione borghese delle stesse. Perché crea morte e distruzione quali condizioni di sopravvivenza del sistema economico che le ha prodotte. Perché mette proletari contro proletari su di un terreno che è esclusivamente borghese. Perché la distruzione dei mezzi di produzione e di capitale sono il punto di arrivo e di partenza delle crisi economiche, e perché l’infernale ciclo crisi - guerre - ricostruzione - crisi verrà sempre riproposto se non interverrà una soluzione rivoluzionaria in grado di spezzarlo. Ed infine perché il rifiuto alla guerra è la premessa al disfattismo rivoluzionario, la guerra alla guerra quale punto di partenza della lotta contro il capitalismo e l’imperialismo. Ogni altra soluzione si pone obiettivamente sul terreno opposto, con la conseguenza di essere risucchiati all’interno della logica della guerra stessa e delle cause che l’hanno posta in essere indipendentemente dalle giustificazioni che di volta in volta vengono proposte. Anche in ambito comunista e rivoluzionario, i due aggettivi sono sinonimi ma è sempre meglio ricordarlo, la non accettazione della guerra non sempre è chiara e totale. Anzi, molto spesso, pur partendo da un rifiuto di principio, generico quanto ipocrita, si finisce per ripudiarlo in nome di una serie pressoché inesauribile di distinguo. Tra quelli più comunemente addotti troviamo la presunta auto determinazione dei popoli e l’anti imperialismo. Su questi aspetti abbiamo preso posizione in tutte le occasioni necessarie, ultima la guerra del Kosovo ( al riguardo vedere Prometeo n° 17), ma è bene ribadire un paio di osservazioni sulla controrivoluzionaria pericolosità di queste posizioni che oltretutto pretendono di appartenere, per metodo e analisi, alla tradizione comunista.

L’auto determinazione dei popoli, retaggio storico della formazione degli stati nazionali del secolo scorso e delle guerre di liberazione nazionale prolungatesi sino al primo decennio del secondo dopoguerra, non è assolutamente riproponibile per tempi e modo di essere del capitalismo internazionale, sugli schemi politici del passato. L’appoggio alle borghesie nazionali, l’obiettivo della unificazione del mercato interno quale base di sviluppo della successiva lotta di classe, lo stesso schema della doppia rivoluzione di leniniana memoria, oltretutto in mancanza di un centro rivoluzionario internazionale come poteva essere la Russia bolscevica dei primi anni venti, rendono la prospettiva politica della auto determinazione dei popoli da obiettivo tattico da archeologia politica a prassi controrivoluzionaria. Calato nell’odierno contesto capitalistico, e non dimentichiamolo, in chiave di ripresa e sviluppo della lotta di classe in senso rivoluzionario, l’appoggio alle micro borghesie del Kosovo o della Cecenia finisce per risolversi in una capitolazione ideologica nei confronti della guerra, dei suoi fronti e dei piccoli o grandi interessi che ne stanno alla base. Che senso ha chiamare alla mobilitazione il proletariato serbo a difesa della sua borghesia contro l’imperialismo americano, sempre quello serbo contro la propria borghesia a favore di quella cosovara, inneggiare alla borghesia cecena contro quella russa, se non quello di rinunciare a priori a qualsiasi critica, prima ancora di tentare una qualsiasi risposta di classe, di prospettiva alla alternativa rivoluzionaria? Oggi, sotto il peso del più feroce attacco del capitalismo e dell’imperialismo "globali" ai danni della forza lavoro, sotto qualsiasi latitudine, c’è all’ordine del giorno l’autodeterminazione del proletariato mondiale. Non si lavora a questo immane compito, che solo la prospettiva rivoluzionaria può tentare di costruire, ammiccando con le straccione borghesie della periferia capitalistica pronte a vendersi al primo migliore offerente sul mercato del controllo delle materie prime e della forza lavoro. In Kosovo, in Cecenia, nel Daghestan non è in atto nessun processo di autodeterminazione di popolo ma soltanto il tentativo di alcune borghesie periferiche di ricavare dagli scontri e dalle spartizione imperialistiche le ragioni della propria sopravvivenza. In nome della secessione, del più arcaico nazionalismo o dell’integralismo islamico, quando quest’ultimo non serva a eliminare fisicamente l’avversario di classe, si agganciano i rispettivi proletariati per soluzioni micro borghesi sotto la copertura dell’imperialismo più forte ( vedere il rapporto Uck Cia, o Cia Talebani dell’Afganistan ammesso dalle stesse fonti americane) o per avventure senza ritorno come in Cecenia e Daghestan. A meno che all’accezione di auto determinazione dei popoli non si voglia dare il significato maoista, dove la lotta di popolo ha inglobato, eliminandola, la lotta di classe. In entrambi i casi è il nazionalismo, piccolo o grande, forte o straccione, che pone e persegue la soluzione borghese per mezzo della guerra all’interno della quale non solo non c’è spazio per il proletariato, che deve soltanto fungere da carne da macello. La subordinazione al nazionalismo cancella anche quelle teoriche possibilità di trasformare un evento bellico in un primo momento di ripresa della lotta di classe, se i pochi rivoluzionari presenti o le residue idealità rivoluzionarie, si calano nella prima delle prospettive rinunciando sin dall’inizio a favorire la seconda. Se non si usa nemmeno l’arma della critica, là dove l’operatività nel proletariato dovesse essere particolarmente difficile, proprio perché ideologicamente preda dell’avversario di classe, non si passerebbe mai alla critica delle armi.

La falsa questione dell’antimperialismo

L’appoggio ad un fronte della guerra perché presunto momento di lotta anti imperialista ripropone gli stessi schemi e i medesimi errori di analisi e di metodo. Chi ieri si è schierato a fianco dell’Iran e dell’Iraq contro gli Usa e che oggi difende il delirio integralista dei gruppi ceceni e daghestani in chiave anti Russia, non solo non ha compreso nulla delle dinamiche odierne dell’imperialismo sulla gestione del petrolio e della rendita petrolifera, del controllo strategico dei mercati finanziari e delle materie prime, del controllo dei mercati a basso costo della forza lavoro, ma nemmeno delle dinamiche che oppongono i paesi capitalistici della periferia a quelli centrali. Non è sufficiente scendere in armi, o più spesso a parole, a fianco di una borghesia solo perché più debole o aggredita, scambiando l’aggressione subita, o la palese inferiorità militare, come lotta anti imperialista. L’anti imperialismo o è anti capitalismo o non è. Nel caso opposto si configura uno scontro tra una borghesia dominante che attacca e una debole che si difende. L’anti imperialismo non consiste nel resistere o nell’aggredire un capitalismo dominante ma nel combattere le ragioni che impongono a tutti i capitalismi di esprimersi con la forza quando sono messi in discussione, da altri capitalismi o dalle crisi, i meccanismi di valorizzazione del capitale. L’anti imperialismo è sinonimo di anti capitalismo, rompere il rapporto che unisce i due fattori è come tentare di combattere gli effetti negativi di un fenomeno lasciando inalterate le cause che lo determinano. Il problema eventualmente è quello di sfruttare lo scontro tra borghesie imperialistiche, indipendentemente dalla loro valenza, per inserire la miccia della trasformazione rivoluzionaria della guerra. Non sono i rivoluzionari che scelgono i tempi e il terreno del loro intervento nella lotta di classe. È la borghesia che li impone e se la borghesia è in guerra nel tentativo di risolvere i propri problemi, è su questo terreno che deve intervenire l’opposizione di classe contro la guerra e gli interessi borghesi che rappresenta e non altrimenti.

Nel caso della guerra del Golfo l’Iraq di Saddam Hussein non poteva essere visto soltanto come la vittima designata dell’imperialismo americano, per cui prendere le parti della borghesia irachena contro gli Usa sarebbe stato un atto politico legittimato di anti imperialismo, quindi corretto e perseguibile anche in termini di vantaggio per una futura ripresa della lotta di classe. In gioco, da una parte e dall’altra, c’era il controllo del petrolio mediorientale. Se l’Iraq fosse riuscito a mantenere il possesso del Kuwait sarebbe diventato il maggiore produttore di tutta l’area superando la stessa Arabia Saudita. Avrebbe aumentato il prezzo del greggio in un momento nel quale l’economia americana aveva programmato il contrario. Si sarebbe pagato gli ottanta miliardi di debiti maturati in otto anni di guerra imperialistica contro l’Iran e, soprattutto, sarebbe diventato egemone politicamente ed economicamente all’interno dell’Opec, proponendosi come una delle potenze petrolifere mondiali in grado di dialogare autonomamente sul terreno della rendita con Europa, Giappone e gli stessi Stati Uniti. Lo scontro, anche se impari da un punto di vista militare, rappresentava il tentativo di due imperialismi di accaparrarsi una quota della rendita petrolifera quale trampolino di lancio dei rispettivi imperialismi, uno d’area l’altro planetario, in proporzione agli orizzonti e alle potenzialità delle retrostanti economie capitalistiche. In questo contesto il presunto anti imperialismo iracheno, che tanti entusiasmi ha prodotto in chiave anti americana, scompare prima ancora di nascere non soltanto perché non si configura come anti capitalismo, ma anche perché palesemente ancorato a quegli stessi meccanismi di appropriazione che si vorrebbero combattere o attribuire a uno solo dei contendenti. Se percorressimo, anche soltanto per un attimo, il sentiero dell’anti imperialismo così come da più parti è stato invocato, avremmo dovuto sostenere prima la borghesia Kuwaitiana contro quella irachena, poi quella irachena contro quella americana in una successione di allineamenti scandita dalle gerarchie imperialistiche senza mai porre, nemmeno per un attimo, la questione della risposta di classe alla guerra. Lo stesso schema si riproporrebbe nella zona balcanica. Prima a fianco dei Cosovari contro Belgrado, poi con Belgrado contro l’aggressione Usa - Nato ripercorrendo gli stessi sentieri e gli stessi errori, coniugando anti imperialismo e autodeterminazione dei popoli come se fossero i presupposti della ripresa della lotta di classe, quando invece, ne sono la negazione.

Né vale il discorso che, in mancanza di una prospettiva rivoluzionaria immediata, si debba abbassare il tiro, turarsi il naso, non essere indifferenti nei confronti dell’imperialismo con la I maiuscola, e operare contro il male peggiore, anche se ciò comporta la difesa degli interessi dei piccoli imperialismi e delle piccole borghesie. Il punto di partenza è che la guerra, pur essendo una questione tutta interna agli interessi borghesi, coinvolge il proletariato non più e non soltanto come oggetto di sfruttamento, ma soprattutto come contenuto fisico della stessa guerra. Gli interessi sono borghesi ma chi combatte per essi sono i proletari. Il meccanismo di coinvolgimento scatta nel momento in cui la borghesia riesce a contrabbandare i suoi interessi come interessi generali, della nazione, del popolo in nome di una ideologia che, a seconda dei percorsi storici e delle aree geo politiche, si ammanta di patriottismo, di nazionalismo, di integralismo anti imperialistico o di auto determinazione. Nella guerra il proletariato su queste indicazioni si muove, esce dalla immobilità sociale nella quale era stato costretto dalla sua borghesia, diventa strumento armato degli interessi dell’avversario di classe. Se ciò comporta che il livello della lotta di classe è talmente basso da risucchiare l’antagonismo proletario sul terreno degli interessi borghesi, che non è immediatamente praticabile il disfattismo rivoluzionario, che lo scontro con l’avversario di classe non è all’ordine del giorno, significa anche che tutto questo è da costruire nel corso dell’avvenimento bellico. Ovvero gli sforzi delle avanguardie comuniste, preso atto dalla situazione, non devono essere indirizzati sul fronte della guerra, perché tanto mancano tutte le condizioni per fare la guerra alla guerra, ma di crearle. A meno che non si aspetti che lo spirito santo faccia il lavoro delle avanguardie, o che la maturazione di tutti i fattori favorevoli si manifesti spontaneamente e allora si che... Una cosa è certa: non si favoriscono i motivi di una ripresa della lotta di classe contro la guerra, nella guerra, schierandosi su di un fronte di essa comunque giustificandolo. Anzi così agendo si favoriscono due elementi tra di loro complementari: si rafforza all’interno delle masse proletarie il convincimento della ineluttabilità dei conflitti e non si lavora per il disfattismo rivoluzionario, o se si preferisce, non operando nemmeno a livello di denuncia contro le cause e le dinamiche degli scontri inter imperialistici, si finisce col sancirne la legittimità in quanto dato di fatto irreversibile. Da qui la scelta di campo e le sue conseguenze contro rivoluzionarie.

L’alternativa alla guerra va costruita nei tempi e nei modi che la realtà imperialistica impone. Là dove i proletariati sono chiamati a svolgere il ruolo di carne da macello al traino delle rispettive borghesie sia perché dominanti, sia perché aggredite da imperialismi più forti, o benché deboli e straccione, perché strumento nelle mani di altre, il compito dei rivoluzionari è sempre quello di iniziare a separare ideologicamente le ragioni borghesi addotte alla partecipazione della guerra dalle opposte esigenze di classe. Se la dominante ideologia borghese impone alla classe la guerra, con il suo fardello di povertà fame e morte, la prima risposta, in termini di denuncia, dovrebbe concentrarsi sul semplice principio che le devastazioni belliche, il cui peso è sopportato quasi esclusivamente dal proletariato, hanno come momento di partenza e punto di arrivo solo gli interessi della borghesia e mai quello dei lavoratori. Così come l’ideologia borghese in tempo di pace lavora perché il proletariato sia strumento acquiescente di sfruttamento, così in tempi di guerra la borghesia mette in atto una serie di trappole ideologiche che convincano l’avversario di classe a essere: a) non avversario ma collaboratore delle necessità borghesi; b) mezzo fisico e operativo della guerra stessa; c) che la fine vittoriosa della guerra porterà vantaggi anche per le classi lavoratrici. È proprio su questo terreno della menzogna ideologica che devono muoversi i primi significativi passi contro la guerra quale rappresentazione degli interessi borghesi, contro altre borghesie sì, ma anche contro gli interessi di altri proletariati oltre che del proprio. In un’area come quella balcanica, devastata dalla disintegrazione della Yugoslavia, da quasi quattro anni di guerra civile in Bosnia e dalla recente guerra del Kosovo, è stato un errore criminale discernere i fronti degli episodi bellici, chiamare alle armi il proletariato serbo contro quello sloveno e croato in nome dell’unità iugoslava quale condizione per l’unità del proletariato slavo. Difendere le ragioni della borghesia musulmana bosniaca nel suo bellicoso atto di presunta auto determinazione. Inneggiare all’armata dell’Uck come necessario momento di distacco dal serbo centrismo di Milosevic. I rivoluzionari avrebbero dovuto gridare all’inganno: individuare nell’imperialismo dominante le ragioni economiche e di strategia politica che sono state alla base dei vari conflitti. Denunciare il ruolo conservatore e reazionario di tutte le piccole borghesie che vi hanno partecipato. Mostrare al proletariato di tutta l’area balcanica, armi alla mano (quelle stesse armi che le borghesie hanno generosamente distribuito), che l’obiettivo da perseguire era altro. Non scendere sul terreno della guerra ma favorire una presa di coscienza contro la guerra, contro i suoi bastioni internazionali e interni, per iniziare a creare un fronte proletario balcanico, che lì subito e a guerra iniziata, potesse rappresentare un primo episodio di opposizione ai vari episodi bellici e alle loro devastazioni .

Lo stesso dicasi per i recenti avvenimenti in Cecenia, Daghestan e Armenia. L’approccio alla denuncia di quanto sta accadendo, perché possa diventare momento operativo di aggregazione rivoluzionaria contro la guerra, consiste nel prendere le distanze non solo dalle mire petrolifere di Usa e Russia ma anche dalle borghesie integraliste che usano i rispettivi proletariati per staccarsi dall’ex polo sovietico e aggregarsi a quello americano in vista di usufruire dei miseri vantaggi del passaggio del petrolio sul loro territorio. Situazione che le vede non solo in armi contro il vecchio e stanco orso russo, ma anche tra di loro in una sorta di spartizione del territorio giocata sulla pelle dei rispettivi proletariati. Anche in questo caso i rivoluzionari non possono operare una scelta di campo in nome di fasulli anti imperialismi o a sostegno di improbabili, false quanto anti storiche auto determinazioni, ma devono favorire la nascita di movimenti proletari di area che abbiano come primo obiettivo la guerra alla guerra. Ciò vale per l’area balcanica, caucasica, quella medio orientale, dove, non dimentichiamocelo, l’integralismo e l’anti sionismo hanno svolto e svolgono tuttora un ruolo narcotizzante nei confronti del proletariato di quell’area.

Il primario, irrinunciabile compito dei comunisti, sempre e comunque, è quello di separare gli ambiti di classe. Nella quotidiana pratica dello sfruttamento capitalistico, nell’affamante ambito delle politiche dei sacrifici, e a maggior ragione, nel supremo sacrificio della guerra dove la separazione dei campi di appartenenza e dei contrapposti interessi si manifesta come la più drammatica delle necessità. Ogni altra soluzione tattica è rinuncia, collusione, capitolazione nei confronti dell’avversario di classe.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.