Quale tributo di sangue dovrà ancora versare il proletariato palestinese per costruire uno stato alla sua borghesia?

Il mini-imperialismo israeliano ha sempre goduto di una sorta di impunità grazie all'appoggio degli Usa.

Non c'è stato episodio, nascita dello stato di Israele compreso, dalle violazioni del diritto internazionale a quelle dei diritti dell'uomo, che non abbia visto i governi americani di turno agire sul terreno della difesa della propria creatura sia in sede Onu che in qualsiasi altra circostanza.

Israele si è potuta permettere il lusso di invadere territori che nessun diritto internazionale poteva consentirgli, di eludere una serie di risoluzioni internazionali senza nemmeno ricevere una nota di condanna grazie al diritto di veto usato dagli Usa, e di infierire sulla popolazione palestinese in termini di repressione e di pulizia etnica a suo piacimento.

Tutto questo rientrava nella logica dell'imperialismo americano nell'area medio orientale sia prima che dopo la guerra fredda.

Per la stessa logica, ma con risultati opposti, al nazionalismo palestinese si sono sempre chiusi i varchi a qualsiasi soluzione in terra di Palestina, sino alla farsa degli accordi di Oslo, e alla borghesia di Arafat è stato disegnato un percorso assolutamente più accidentato.

Gli interpreti di questo percorso pur avendo lo stesso obiettivo nazionalistico, per condizioni economiche, ambiente sociale di vita, prospettive e strategia, hanno scelto percorsi diversi.

La "grande" borghesia palestinese vive prevalentemente all'estero, in Libano, Siria, Egitto e in altri paesi medio orientali. È socialmente composta da commercianti e banchieri che traggono vantaggio dalla loro condizione di profughi della diaspora. Esercitano attività economiche non produttive, non legate cioè alla necessità impellente di avere a disposizione un "luogo patria" in cui risiedere, e per questo vivono la questione nazionalistica in termini moderati e realistici. È pur vero che anche per loro avere a disposizione un territorio in cui organizzare i propri affari sarebbe meglio che continuare a mendicare una precaria ospitalità all'interno dei paesi "fratelli", ma ciò non è così immediatamente vitale e non deve in nessun caso interferire con gli equilibri dell'area, con le strategie americane legate al controllo del petrolio, perché se lo fosse metterebbe a rischio non soltanto il futuro stato palestinese ma la stessa rete di interessi sui quali poggia il loro piccolo privilegio economico e sociale. Se mendicare bisogna è più opportuno farlo con la richiesta di un mini stato palestinese, più facile da ottenere, meno ingombrante sia sul piano geografico che politico, insignificante forse da un punto di vista nazionalistico ma sufficiente a garantire l'esercizio di quelle attività che oggi sono costretti a praticare all'estero con costi e rischi certamente superiori a quelli che avrebbero in casa propria.

Ben vengano quindi tutte quelle soluzioni negoziali che, pur abbandonando il programma radicale della distruzione dello stato d'Israele per la riconquista totale di tutta la Palestina, ripiegano sulla restituzione dei territori occupati nel 67, come da risoluzione 181, 242 e 338 o, nella peggiore delle ipotesi, la striscia di Gaza con il solo 17,2% della Cisgiordania che è attualmente sotto la gestione amministrativa palestinese. I loro interessi sono legati alla gestione finanziaria dell'Arab Bank che ha sedi in tutti i paesi medio orientali, in Europa e negli Stati Uniti. Ha un volume di affari non eccezionale ma sufficientemente sviluppato da consentire agli speculatori palestinesi una significativa presenza negli ambienti finanziari del mondo arabo accanto a petrolieri e speculatori di ogni genere. I loro uffici sono al Cairo, ad Amman e Damasco, ma anche a Parigi, New York e Londra. Affari finanziari transnazionali come la globalizzazione impone e come qualsiasi borghesia degna di questo nome deve speculativamente inseguire. Lo stesso discorso vale per la componente commerciale. Il traffico e lo spettro di affari non è certo vasto ma copre uno spicchio delle transazioni di derrate alimentari, beni strumentali e di consumo tra i vari paesi medio orientali e l'Europa e viceversa. Prima della guerra del Golfo e dell'embargo totale nei confronti dell'Iraq, la borghesia palestinese collaborava, anche se in termini di subordinazione, con quella giordana alla rete di approvvigionamento via gomma per i fabbisogni del regime di Saddam Hussein. Il servizio che consisteva nel trasportare dal porto di Acaba sino a Baghdad tutto ciò di cui necessitava l'economia irachena e che rappresentava una quota pari al 75% del Pil giordano, vedeva la compartecipazione della borghesia commerciale palestinese. Oggi gli affari ufficiali si sono ridotti, l'embargo nei confronti del regime di Saddam Hussein ha ridotto a zero ogni forma di transazione ufficiale, in compenso sono aumentati quelli illegali legati al contrabbando con lo stesso Iraq e l'Iran. Anche per questa componente vale il discorso fatto per il mondo finanziario, tenuto conto del fatto che, in molti casi le due figure combaciano e si sovrappongono. Rientra dunque nella logica di questa borghesia commerciale e parassitaria il programma rinunciatario di Arafat. A sua volta il leader palestinese, fedele interprete delle istanze economiche e politiche di questa borghesia, è andato elaborando una strategia nazionalistica che avesse sì come obiettivo la nascita di uno stato, ma con la lucidità tattica di non interferire sugli equilibri strategici dell'area e che non penalizzasse la sua borghesia di riferimento. Da qui l'accettazione dell'esistenza di fatto e di diritto dello stato d'Israele, la cancellazione dell'articolo del vecchio statuto dell'Olp in cui si predicava la distruzione dello stato sionista e l'accettazione di qualsiasi compromesso che prevedesse la futura nascita dello stato palestinese, anche in una sola parte dei territori occupati, ribaltando il vecchio programma nazionalistico ed accettando in via transitoria, senza peraltro avere garanzie di sorta per il futuro, una temporanea autonomia amministrativa che di per sé non contempla la nascita di nessuno stato, come recitano gli accordi di Oslo.

La seconda componente del nazionalismo palestinese è rappresentativa di un ibrido interclassismo da cui emergono con evidenza gli interessi della media e piccola borghesia con frange di proletariato al seguito. È una borghesia indigena che non si è mai mossa dai territori in cui è nata e vissuta sin da prima della nascita dello stato di Israele. È economicamente rappresentata da piccoli imprenditori, artigiani e contadini che operano nella striscia di Gaza e soprattutto in Cisgiordania. Ha subito il peso dell'insediamento sionista, sente quotidianamente il fiato sul collo per ogni sua iniziativa economica, subisce l'umiliazione di essere discriminata in ogni atto della sua esistenza dalla ferrea repressione dei coloni e dell'esercito israeliano. È esasperata ed incattivita dalle mille angherie e dalla impossibilità di svolgere al meglio le proprie attività economiche. Gli artigiani e i piccoli imprenditori sono di fatto boicottati dall'esasperante nazionalismo della comunità ebraica in termini di produzione e di consumi. Il loro mercato si riduce alla propria comunità che non sempre rappresenta una domanda soddisfacente in termini di vendite e di profitti. Gli imprenditori agricoli, oltre ad essere stati emarginati nei terreni geograficamente più periferici ed economicamente improduttivi, non possono accedere all'acqua perché si scontrano con il monopolio dei coloni israeliani che controllano il 90% delle risorse idriche. Quando l'accesso all'acqua è consentito lo fanno pagare come se erogassero petrolio incidendo notevolmente sui costi di produzione delle derrate alimentari e quindi sui prezzi che finiscono per non essere competitivi con quelli praticati dai coloni stessi.

In queste situazioni è tale la rabbia, il senso di rivincita, l'odio nei confronti di coloro che sono responsabili delle condizioni economiche e di vita in cui versano i segmenti della piccola borghesia palestinese, che la radicalizzazione politica e il revanscismo nazionalistico dilagano per ogni meandro della striscia di Gaza e della Cisgiordania sino a diventare un fiume incontrollabile anche per lo stesso Arafat.

La piccola e media borghesia autoctone non hanno accettato l'atteggiamento compromissorio dell'Olp. Non riconoscono in Arafat il rappresentante dei loro interessi, né accettano di rinunciare al vecchio programma politico. Vedono nell'Olp una struttura politica traditrice che ha svenduto la causa palestinese per un boccone di terra, funzionale forse per la "grande" borghesia ma certamente non per loro che su quella terra subiscono quotidianamente l'oppressione dell'odiato nemico sionista. Per loro vale ancora il programma di sempre: distruzione dello stato di Israele, riconquista di tutta la Palestina, fuori da qualsiasi accordo negoziale per una soluzione di forza e totale. Al contrario della borghesia finanziaria e commerciale, che opera prevalentemente all'estero, il rapporto con la gestione israeliana, con le terre, con le piccole imprese manifatturiere e con la forza lavoro impone loro il possesso del territorio, la gestione delle risorse ed un proletariato indigeno disponibile e fuori dalla tutela israeliana. Normale è che, in simili situazioni, siano le organizzazioni radicali che meglio si prestino a interpretarne la rabbia e gli interessi economici. Il radicalismo politico, l'integralismo islamico, l'approccio militare e il terrorismo quali involucri nazionalistici diversi e distinti dalle formazioni della "grande" borghesia, non possono che trovare nelle stratificazioni medio e piccolo borghesi il loro denso brodo di coltura.

Organizzazioni come Hamas, Tansim ed Ezzedim al Kassam ne rappresentano appieno le tensioni politiche e le aspirazioni economiche, sono le componenti militari che nella Palestina e per la Palestina combattono in una visione nazionalistica piccolo borghese, contro il nemico sionista, ma anche contro l'Olp di Arafat, sperando nell'aiuto del proprio proletariato e di quello dei paesi arabi circostanti, speranza che in parte è stata soddisfatta sfruttando la rabbia e le inumane condizioni di vita delle masse palestinesi.

Nei territori occupati e in quelli sotto gestione dell'Olp esiste una disoccupazione cronica. Il 50% della popolazione non ha alcun lavoro, gli altri hanno lavori stagionali con contratti a termine di quattro - sei mesi, in alcuni casi di alcune settimane o di qualche giorno. Mediamente un lavoratore palestinese che viene occupato in una fabbrica, in una impresa di trasporti o nelle coltivazioni della Cisgiordania, percepisce un salario che è il 30% di quello di un lavoratore israeliano per le medesime mansioni. Per poter lavorare deve inoltre avere un tesserino rilasciato dalle autorità israeliane che attesti la sua estraneità da tutte le organizzazioni che lottano per la liberazione della Palestina. In genere l'orario di lavoro non è regolamentato da nessun contratto e può variare da un minimo di 8 ore ad un massimo di 12-14 a seconda delle necessità dell'impresa e senza assistenza sociale. Occupati e disoccupati vivono in baraccopoli e nei campi profughi, senza servizi e acqua potabile. Le fogne, quando esistono, sono a cielo aperto. Le malattie sono all'ordine del giorno e l'assistenza sanitaria è inesistente. Chi ha una casa può considerarsi fortunato, chi ha una casa con uso di acqua corrente si sente in dovere di ringraziare Allah cinque volte al giorno, tutti i giorni, per ogni attimo di vita strappato alla fame e alla disperazione.

In simili condizioni il reclutamento di proletari e sotto-proletari da parte del nazionalismo integralista piccolo borghese è quasi automatico. La falsa illusione di combattere per vivere una vita migliore sotto una borghesia indigena, che parli la stessa lingua e che impugni la stessa bandiera, è forte ed inevitabile se nulla e nessuno sono in grado di denunciarne i limiti di classe e di produrre una alternativa politica.

La tragedia politica del proletariato palestinese, oltre alla pesante tragedia materiale della sua sottomissione al mini imperialismo israeliano, consiste nella falsa scelta tra le due opzioni nazionalistiche borghesi. L'Olp di Arafat usa la rabbia e la disperazione di queste masse per giocare la carta negoziale in nome di un futuro stato a immagine e somiglianza degli interessi finanziari e commerciali della "grande" borghesia. L'integralismo islamico ne sollecita l'enfasi e il sacrificio in funzione di un nazionalismo radicale che cambierebbe lo status giuridico e geografico della Palestina, darebbe l'occasione di una migliore organizzazione produttiva alla piccola e media borghesia, ma che non cambierebbe di una virgola i rapporti di sfruttamento e le condizioni di vita dei disoccupati e dei lavoratori.

Un ipotetico stato palestinese, sia nella versione dell'Olp che in quella di Hamas, genererebbe soltanto un rafforzamento delle borghesie di riferimento, darebbe fiato a una corrotta terziarizzazione dell'amministrazione statale, già scandalosamente insediatasi nelle zone di autonoma amministrazione, ma per il proletariato palestinese rimarrebbe la solita disoccupazione e la necessità di emigrare in Israele o in qualche stato dell'aerea, alle medesime condizioni di oggi se non aggravate, per rimediare un grande sfruttamento e un misero salario. Non è più né il tempo né le ambizioni di queste misere borghesie a consentire ad un neo stato di sviluppare le forze produttive, di unificare il mercato interno e di concedere le briciole di tutto ciò al suo proletariato. L'unico effetto possibile nei tempi della globalizzazione dei mercati è quella della ricerca o conquista del mercato della forza lavoro. Dal centro verso la periferia si spostano le attività produttive se il costo del lavoro è basso o bassissimo, dalla periferia al centro si spostano le masse di diseredati se il miraggio, peraltro molto spesso vano, è quello di trovare una occupazione qualsiasi a qualsiasi salario. Altro non c'è se non la solita miseria e disperazione e non sarà certamente la borghesia palestinese a invertire il corso del capitalismo.

Il problema, dunque, è quello di sottrarre il proletariato palestinese alle forche caudine dello stato di Israele e al richiamo nazionalistico delle due borghesie, non per una immediata quanto improbabile soluzione rivoluzionaria, troppi sono gli elementi mancanti, dal partito ad un minimo di coscienza di classe, ma perché una esperienza di lotta combattuta con le armi e con il sacrificio della vita non si esaurisca in uno dei tanti episodi di nazionalismo senza nemmeno gettare il seme di una ripresa della coscienza di classe in senso rivoluzionario. Proprio perché queste condizioni non ci sono, occorre creare i primi presupposti soggettivi di una futura soluzione rivoluzionaria. Il dato certo è che non si apporta nulla alla causa rivoluzionaria se ci si limita a chiamare le masse palestinesi solo alla lotta contro lo stato di Israele. È l'abusato trucco per ricondurle nell'alveo nazionalistico senza dichiararlo esplicitamente. È una maniera subdola per inseguire i programmi borghesi senza citarli, o peggio ancora, significa fare del nazionalismo l'unico obiettivo perseguibile nella situazione data.

La lotta contro lo stato di Israele, contro lo sfruttamento da esso perpetrato deve avere come presupposto il tentativo di legarsi al proletariato di quel paese, non sul terreno della comunanza degli interessi di classe nelle diverse e separate realtà nazionali, ma su quello della comune dipendenza dal capitale contro l'unicità borghese dei rispettivi nazionalismi. Parallelamente va perseguita la prospettiva di distinguere gli interessi di classe sia dalla "grande" borghesia che da quella medio piccola. L'acquisizione di una coscienza di classe, anche se a livello embrionale, non può passare in nessun modo attraverso il sostegno dei programmi borghesi, che per altro possono andare a buon fine solo con il sacrificio in armi del proletariato, ma iniziando a proporre il concetto di classe contro classe, della incompatibilità delle scelte strategiche comuni e, quindi, dei necessari opposti percorsi. Se si rinuncia a gettare questi semi non solo non si avranno raccolti di nessun genere sul piano della ripresa della lotta di classe per la prospettiva di una soluzione rivoluzionaria, ma si spalancherebbero le porte ai nazionalismi di ogni sorta, al rafforzamento delle borghesie sui rispettivi proletariati ad obiettivo raggiunto, senza nemmeno porre le condizioni perché l'arma della critica di oggi possa trasformarsi domani in critica delle armi contro i piani delle borghesie nazionali.

Un altro elemento che va enfatizzato nella prospettiva della crescita della coscienza rivoluzionaria è la diaspora che vive tuttora il proletariato palestinese. Dei 6 milioni di cui si compone la popolazione palestinese quasi 4 vivono, lavorano o sopravvivono nei paesi dell'area medio orientale. Egitto e Arabia Saudita, ma anche Oman e Giordania, Emirati arabi e Libano sono terre di accoglienza. In queste realtà sociali il loro posto è accanto a quello dei lavoratori e dei disoccupati dell'area.

Se il nazionalismo che al momento li ha catturati e irregimentati al traino degli interessi della borghesia, fosse denunciato per quello che è, e il programma comunista ricominciasse a far capolino sotto quelle latitudini meridionali, si favorirebbe una prima presa di coscienza rivoluzionaria con la formazione di iniziali nuclei di avanguardie di classe. Questi potrebbero fungere da veicolo politico trasversale a tutta l'area.

La parola d'ordine di favorire la nascita di piccole avanguardie comuniste in terra di Palestina contro il nazionalismo imperante, di esportarle negli altri paesi attraverso il veicolo politico degli stessi proletari palestinesi, di cercare legami con le avanguardie di altri proletariati, di favorirne la nascita e la crescita è oggi la sola indicazione che i comunisti possono suggerire.

Venire meno a questo compito, appoggiare a qualsiasi titolo, (per una storicamente obsoleta autodeterminazione dei popoli, per un altrettanto superato progressismo economico e politico, o perché non ci sarebbe altro da fare in mancanza di un partito rivoluzionario tutto da creare) significa cadere nella trappola del nazionalismo borghese.

Significa scegliere un fronte della guerra e, soprattutto, rinunciare a creare le condizioni soggettive della futura avanguardia rivoluzionaria che mai nascerà per germinazione spontanea né tantomeno dalla biblica esportazione di una costola della borghesia che, al massimo, ringrazia e prosegue nel suo cammino di sfruttamento e oppressione.

fabio damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.