Da Vienna a Porto Alegre, via Seattle: il giro vizioso del riformismo

Ci sono due specie di socialismo, il socialismo "buono" e il socialismo "cattivo". [...] Il socialismo cattivo "è la guerra del lavoro contro il capitale". [...] Il socialismo buono è "l'accordo fra capitale e lavoro". Al suo seguito si trovano l'abolizione dell'ignoranza, l'allontanamento delle cause del pauperismo, lo stabilimento del credito, la moltiplicazione della proprietà, la riforma delle imposte, in una parola: "il regime che più si avvicina all'idea che l'uomo si fa del regno di Dio in terra". (1)

La critica - non di rado venata di irrisione - che più frequentemente viene scagliata addosso a chi, come noi, continua ostinatamente a battersi per un mondo migliore utilizzando gli strumenti del marxismo, è quella di essere inguaribili sognatori, persi dietro sogni e modelli (?!) che la realtà avrebbe abbondantemente dimostrato appartenere, quando va bene, al regno dell'utopia.

I comunisti, o meglio, quella specie rarissima e "anomala" di comunisti, a cui noi apparteniamo, che non viene ospitata alle tavole rotonde in televisione o nelle riviste della variegata "sinistra", che non ha mai trescato col piccolo padre baffuto del fu "socialismo reale" e con la sua prolifica discendenza, sono dunque considerati un po' come i rigattieri della storia, alla stregua di quei poveri vecchi costretti a frugare nelle discariche per racimolare qualche spicciolo.

Saremmo, quindi, inutili nostalgici, gente poco pratica, che aristocraticamente rifiuta di vedere quanto c'è di nuovo nel mondo e che, con sufficienza altrettanto aristocratica sdegna di abbracciare le ultime scoperte della teoria e della prassi sociale, presentate come portentosi grimaldelli per scassinare la porta che ci separa dall'armoniosa società del domani nata dalle menti dei nuovi demiurghi sociali.

Non c'è dubbio che a rinforzare questo vero e proprio teorema abbia avuto un ruolo importante l'implosione dell'impero sovietico con il suo seguito di miseria, guerra e disperazione, accelerando il rigetto del marxismo (cioè, di quello ritenuto tale) di tanti intellettuali e organizzatori politici che un tempo non potevano concludere una frase qualsiasi se non avevano pronunciato almeno una volta la parola "operaio" e, magari, invocato il santo nome di Mao. Tra costoro, chi non è "tornato a casa" sopraffatto dalla delusione riservatagli da una classe operaia che non ha "voluto" fare la rivoluzione e da un "comunismo" miseramente fallito, è andato freneticamente alla ricerca di nuovi soggetti sociali che sostituissero il feticcio operaio, trovandoli finalmente in quella galassia estremamente composita chiamata, più o meno correttamente, movimento anti-globalizzazione. Ma dietro l'enfasi che i suoi cantori e apologeti mettono sui caratteri di "primizia" teorica che rivestirebbe questo movimento, si cela una realtà ben diversa: se le spogliamo delle raffinate (?) confezioni in cui sono avvolte, le presenti teorie del "nuovo" conflitto sociale mandano un insopportabile odore di muffa, essendo nient'altro che un semplice recupero di sistemi ideologici partoriti molto tempo fa dalla mente fantasiosa della piccola borghesia, sgomenta di fronte all'avanzare del modo di produzione capitalistico.

Infatti, sono almeno due secoli che questa composita ed eterogenea classe sociale si arrabatta per trovare la soluzione di un problema che soluzione non ha: umanizzare il capitalismo, eliminarne le asperità, preservare le categorie fondamentali del capitale (merce, denaro, salario, profitto, ecc.) e, allo stesso tempo, impedire con artifici giuridici che il capitale stesso si comporti secondo quanto gli impone la sua propria natura. In breve, si vuole il mercato senza la concorrenza, il denaro senza la speculazione, il profitto senza la concentrazione e il monopolio, il salario senza lo sfruttamento; e, per di più, lo stesso concetto di sfruttamento è limitato solo alle sue forme più brutali.

Ad ogni nuovo ciclo di accumulazione, così come le due classi fondamentali della società borghese - borghesia e proletariato - vengono rimodellate dalle trasformazioni ad esso connesse, anche la piccola borghesia muta con esse; e così come gli antagonismi di classe principali, nella sostanza, rimangono i medesimi, allo stesso modo la piccola borghesia è destinata a rimanere nella terra di nessuno del conflitto sociale, sballottata ora da una parte ora dall'altra, senza mai poter esercitare effettivamente un ruolo autonomo. Solo quando il proletariato non è sufficientemente maturo (agli inizi della sua storia) oppure non ha, per diverse ragioni, la forza di ergersi a protagonista della lotta tra capitale e lavoro e tace, privandosi in tal modo della possibilità di coagulare attorno a sé anche settori di piccola borghesia, allora è quest'ultima che alza la voce, che pretende di parlare a nome di tutta la società e, specialmente nei momenti di crisi, quando la sua stessa esistenza è minacciata dal grande capitale, pesca dal pozzo dei desideri le sue utopie sociali di sempre. Infatti, pur assumendo connotazioni politiche opposte, i movimenti politici espressione di questa classe hanno, come abbiamo visto, la caratteristica di non centrare mai il bersaglio, di non individuare mai la questione fondamentale nel suo insieme (la progressione devastante del capitalismo), ma di coglierne in modo confuso e contraddittorio solo alcuni aspetti esteriori, i più immediatamente visibili, inibendosi dunque la possibilità di offrire concrete prospettive di liberazione dal capitale agli sfruttati del mondo intero. Anzi, quando per determinate circostanze storiche sembra che possa finalmente interpretare da protagonista il ruolo di arbitro e giudice nello scontro fra proletariato e borghesia, in realtà è proprio allora che, oggettivamente e spesso inconsapevolmente, dà un aiuto decisivo al capitale per arginare, deviare e, infine, vanificare del tutto le istanze anticapitalistiche del proletariato.

Il capitale finanziario, identificato con quello bancario, è sempre stato il bersaglio di tutti i movimenti pseudosocialisti, che non hanno mai osato toccare i fondamenti della società capita-lista, ma hanno mirato piuttosto a una forma volta ad eliminarne gli effetti più scabrosi e a dirigere il profondo risentimento delle masse contro lo sfruttamento verso alcuni simboli concreti. Che il simbolo prescelto sia John Pierpont Morgan [grande finanziere statunitense - ndr] o un banchiere ebreo, la cosa non cambia. (2)

Queste considerazioni, scritte da un intellettuale anti-nazista - che comunista non era - alla fine degli anni 1930 del secolo scorso, ovviamente depurate da ogni riferimento razzista e fascista, possono benissimo adattarsi a gran parte del cosiddetto popolo di Seattle, che fa della lotta alla "globalizzazione neoliberista" la sua ragione d'essere. Anche oggi, come settant'anni fa, viviamo il tormentato e drammatico svolgersi della fine di un'epoca storica, quella di un ciclo di accumulazione capitalista, dalla quale il capitale cerca di uscire percorrendo le vie di sempre: intensificazione dello sfruttamento e, a un tempo, espansione abnorme della sfera finanziaria/speculativa. Finora il proletariato, per mille motivi - tra cui, non ultimo, il crollo miserabile del capitalismo di stato sovietico, di cui la borghesia si serve per dimostrare l'impossibilità del comunismo - reagisce in maniera del tutto inadeguata alla furibonda aggressione borghese. Invece, la piccola borghesia (o una parte di essa), solo marginalmente toccata dal mito sovietico, ma ugualmente investita dal ciclone della "globalizzazione", oggi si fa portavoce della crescente rabbia planetaria provocata dalle devastazioni del capitale, ma lo fa a modo suo, indicando obiettivi di lotta che, quand'anche fossero raggiunti, non ci avvicinerebbero di un millimetro alla questione vera: l'abbattimento del modo di produzione capitalistico. I nemici, così, diventano il neo-liberismo, i Mc Donald's, le fabbriche Nike, l'abolizione del debito pubblico dei paesi poveri, la speculazione finanziaria o, per meglio dire, un suo settore ben particolare: la transazione delle divise.

In effetti, la compravendita delle monete è l'attività in cui la speculazione pura celebra i suoi trionfi e può avere ripercussioni profonde sull'economia di interi paesi, benché non necessariamente negative per il capitale industriale, come insegnano le vicende legate alla speculazione della lira nel 1992. Ora, per cercare di mettere un freno alle scorribande di chi manovra immense masse monetarie, nel 1998, in Francia, gesuiti, "economisti, filantropi, umanitari, miglioratori delle condizioni delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori" (3) hanno dato vita all'associazione ATTAC (Associazione per una tassazione delle transazioni finanziarie per l'aiuto ai cittadini), il cui "organo" di stampa è il mensile Le Monde diplomatique. ATTAC si rifà al progetto di James Tobin, economista, premio Nobel nel 1981, il quale, riprendendo a sua volta e sviluppando un'idea di Keynes del 1936, già nel 1972, ossia all'indomani della fine degli accordi di Bretton Woods, aveva cominciato a pensare a un intervento che colpisse le transazioni sulle divise. Ma è solo nel 1978, quando è già partita la liberalizzazione dei movimenti di capitale, che il suo progetto assume una forma concettualmente definita, la Tobin Tax: colpire ogni operazione di cambio a breve e brevissimo termine con una tassa pari allo 0.5% del valore dell'operazione stessa. In questo modo, i governi dei paesi in cui avviene la massima parte delle transazioni finanziarie - quelli del G7 soprattutto - raccoglierebbero ogni anno centinaia di miliardi di dollari, da destinare ai piani di aiuto e di sostegno allo sviluppo dei paesi poveri.

L'idea, benché partorita da un premio Nobel e portata avanti da economisti tutt'altro che sprovveduti, assomiglia più a quegli sfoghi da bar - più che legittimi, per altro - in cui, tra un'imprecazione e l'altra al governo di turno, si elaborano piani per rendere finalmente un po' meno ingiusto questo mondo. Il punto, però, è che i governi e gli stati, dai più democratici ai più autoritari, non sono organismi neutrali posti al servizio dell'intera società, ma strumenti esclusivi di una parte della società, quella minoritaria, per il dominio dell'altra. Considerazioni elementari per il marxismo, ma inaccessibili a chi è affetto dall'ideologia borghese, anche - e forse soprattutto - nella sua variante di sinistra. Da oltre vent'anni non c'è stato governo, in ogni angolo del pianeta, che (va da sé) non si sia fatto interprete delle necessità del capitale, abbassando anche drammaticamente le condizioni di vita della forza-lavoro, nel mentre venivano e vengono progressivamente diminuite le imposte sui redditi da capitale e sui patrimoni più elevati. Non solo, ma ovunque è cresciuto il debito pubblico, cioè un'ipoteca sul plusvalore futuro - causato anche dai massicci finanziamenti alla ristrutturazione industriale degli anni 1970-80 - che viene pagato tagliando il welfare (cioè il salario differito).

E questi governi dovrebbero mordere la mano del padrone? Forse governi più "di sinistra" potrebbero applicare la Tobin Tax? Posto che, comunque, questa misura lascerebbe assolutamente inalterati i rapporti sociali capitalistici e, al massimo, potrebbe configurarsi come un classico intervento keynesiano di sostegno alla domanda, governi diversi di quelli attuali potrebbero prendere misure "di sinistra" solo se queste non si scontrassero con le priorità del capitale: oggi sono quelle di non lasciar cadere neppure una briciola di plusvalore, per rianimare saggi del profitto sempre più in difficoltà. Già col Fronte Popolare del 1936, la piccola borghesia radicale di Francia, spinta al potere dalle entusiastiche speranze della classe operaia - purtroppo ormai ideologicamente intossicata dallo stalinismo - aveva timidamente accennato a qualche riforma finanziaria, ma davanti alla rabbiosa reazione padronale (fuga di capitali, serrate, ecc.) si era ritratta impaurita. L'alternativa sarebbe stata quella di chiamare il proletariato alla lotta, ma riformisti e stalinisti non avevano la minima intenzione di rompere con la borghesia.

Non si capisce dunque per quali motivi la cosiddetta sinistra plurale dei nostri giorni dovrebbe essere più "coraggiosa" dei suoi padri del 1936, visto che ATTAC esplicitamente non si propone affatto di mettere la museruola al capitale in generale, ma solo a un settore di esso. Per dirla con le parole di François Chesnais, membro del comitato scientifico di ATTAC:

la tassa Tobin giocherebbe un utile ruolo riducendo i profitti che possono sperare le operazioni speculative giornaliere e settimanali, senza penalizzare le operazioni finanziarie a lungo termine che sono le contropartite delle operazioni legate al commercio internazionale e all'investimento produttivo all'estero. (4)

Anche Chesnais, per molti versi economista più acuto dei suoi colleghi riformisti, cade dunque nel miraggio secondo il quale è possibile, nell'epoca dell'imperialismo, separare il capitale industriale da quello più strettamente finanziario-speculativo. No, essi sono strettamente intrecciati e, d'altra parte, ce lo conferma lo stesso Chesnais in un passo del suo agile e interessante libretto. Chi sono, infatti, i grandi speculatori internazionali? Grandi banche, fondi speculativi specializzati, gli investitori istituzionali (fondi pensione, assicurazioni, ecc.) e "al loro seguito le tesorerie dei gruppi industriali" (5), per altro immersi negli organismi prima elencati. Per esempio:

Il gestore di un fondo che investe, ricerca per definizione il migliore rendimento. Passa dunque sistematicamente da una divisa all'altra, da un titolo di un impresa a un altro, dai buoni del tesoro di un paese a quelli di un altro paese. (6)

Allora, anche volendo, come si fa, a punire il capitale speculativo "cattivo" e premiare il capitale industriale "buono"?. I guadagni ottenuti sul mercato delle divise possono essere immessi di nuovo nel vortice della speculazione e della rendita parassitaria o investiti in imprese industriali produttive di plusvalore, in un movimento che coinvolge le borghesie di tutto il mondo:

partecipando, per esempio, al finanziamento della crescita di un paese come la Cina, i fondi pensione preleveranno sulla produzione interna cinese. (7)

Detto in altri termini, allo sfruttamento della classe operaia cinese partecipano tutti coloro che detengono quote di capitale dei fondi pensione medesimi. È ovvio, però, che l'operaio italiano o statunitense, costretto a versare parte del suo salario ai fondi pensione, non è volontariamente corresponsabile della estorsione di plusvalore al suo compagno cinese, visto che i suoi "risparmi" non possono nemmeno lontanamente condizionare i grandi capitali, veri gestori dei fondi, ma, al più, recitare la parte di terreno di caccia riservato alle razzie dei magnati della finanza. Basterebbero allora le osservazioni di un riformista come Chesnais per mostrare quanto sia fuori bersaglio chi crede che l'imperialismo sia, in sostanza, una politica di dominio fondata brutalmente sull'aggressione militare esercitata dagli Stati Uniti e, in subordine, dall'Europa. Secondo quest'ottica le nazioni, i "popoli" aggrediti sarebbero le vittime cui allearsi contro "l'impero" americano.

Ci si dimentica, insomma, che anche in Iraq o in Serbia esistono borghesi e proletari (i più martoriati dalle guerre) e che i primi, investendo il loro denaro nei buoni del tesoro americano o nei fondi pensione che detengono quote azionarie di industrie belliche, concorrono tanto quanto gli "sporchi yankees" al bombardamento del "proprio" popolo, oltre che allo sfruttamento della classe operaia americana.

Ma le contraddizioni del riformismo, anche di quello più apparentemente radicale, non finiscono qui, se lo stesso Chesnais mostra la debolezza di una delle principali parole d'ordine di ATTAC e di tutto il movimento che promana da esso - che deriva dalla negazione della centralità del rapporto di sfruttamento della classe operaia nella produzione di ricchezza - vale a dire la cancellazione del debito pubblico dei paesi poveri.

I mercati dei titoli del debito pubblico [...] sono la “pietra angolare” della mondializzazione finanziaria. Tradotto in parole semplici, è [...] il meccanismo più solido messo in campo dalla liberalizzazione finanziaria per il trasferimento di ricchezza da certe classi e strati sociali e da certi paesi [dai proletari di quei paesi - ndr] verso altri. Minare la potenza della finanza alle fondamenta presuppone lo smantellamento di quei meccanismi e dunque l'annullamento del debito pubblico, non solo di quello dei paesi poveri, ma di tutti i paesi. (8)

Infatti, come vengono pagati gli interessi sul debito se non attraverso le politiche di austerità e le imposte ossia con ulteriori prelievi dalle tasche dei proletari? E ancora, chi dovrebbe smantellare lo strapotere del capitale finanziario? Va da sé che per una parte non piccola del "popolo di ATTAC", la classe operaia, il moderno proletariato o non è più, appunto, riconosciuto come tale oppure è annegato nella borghesissima e onnicomprensiva nozione di cittadinanza a cui spetterebbe il compito di trovare e praticare nuove alternative allo stato di cose presente, dopo il fallimento del sedicente socialismo reale. Ma è proprio qui, come dicevamo anche più su, che si rotola indietro di secoli. La regressione a modelli teorico-politici di cui tutto si può dire, meno che siano nuovi, è particolarmente vistosa in chi - larga schiera! - una trentina di anni addietro chiamava le piazze alla lotta contro il capitale e i suoi servi riformisti. Siccome però col materialismo storico non ha mai fatto altro che pasticciare, è assolutamente normale che anche adesso continui a sbagliare prospettiva, prendendo cantonate tremende. Oggi tocca alla sinistra brasiliana interpretare il ruolo di Stella Polare degli antagonisti mondializzati. Secondo costoro la pratica sociale del PT (partito dei lavoratori) brasiliano sarebbe il più avanzato, maturo e interessante contributo per la fondazione di un nuovo "paradigma anticapitalista" (9).

In che cosa consisterebbe quella pratica sociale così terribilmente anticapitalista? Nel bilancio partecipativo attuato dall'amministrazione di sinistra di Porto Alegre, capitale dello stato di Rio Grande do Sul.

In breve, perché ne abbiamo già parlato in altra sede (vedi BC 2/2001) i cittadini di quella città sono chiamati a pronunciarsi - tramite assemblee pubbliche - sull'utilizzo dei fondi comunali, contribuendo, assieme alla giunta municipale, ad orientare la spesa verso le esigenze emerse dalle assemblee. Case, scuole, ospedali sono il risultato del bilancio partecipativo, chiave di volta di un "nuovo" socialismo che ha gettato dietro le spalle il marxismo, archiviato come un'esperienza ormai inutile. Come dice Tarso Genro, sindaco di Porto Alegre e membro del PT:

penso che per noi socialisti ci sia la necessità di una dimensione diversa da quella esistita fin qui nel marxismo: la teoria delle classi sociali originaria del marxismo tradizionale non è assolutamente sufficiente per comprenderla. (10)

Naturalmente, case, scuole, ospedali non sono cose disprezzabili, specialmente in situazioni di drammatica povertà come quella brasiliana, ma non sono nemmeno il socialismo, cioè la vera e definitiva soluzione al problema della casa, delle città invivibili e della povertà. Tanto più che anche a Rio de Janeiro, amministrato da una giunta di destra, si stanno portando avanti progetti di risanamento delle favelas basati sul coinvolgimento in prima persona dei residenti. Il problema delle abitazioni, in Brasile, coinvolge drammaticamente milioni di persone e dà continuamente vita a vasti movimenti di occupazione guidati dai Sem Teto (movimento dei lavoratori senza casa), i quali sono riusciti a ottenere...

una legge che fissa la destinazione del dieci per cento dei fondi stanziati per i programmi di edilizia popolare a progetti di autocostruzione. (11)

Dunque, tutto questo è possibile grazie all'apporto di capitale finanziario non solo nazionale, ma anche internazionale, proveniente dall'UE e dalla banca interamericana di sviluppo; così come, d'altra parte, il riformismo di Porto Alegre si svolge in circostanze particolari:

il Rio Grande do Sul è uno stato “ricco” [...] ed evidentemente ciò è determinante per il successo del processo [...] le risorse da gestire sono rilevanti [dando luogo a] un'oggettiva disponibilità finanziaria. (12)

Di più, che il bilancio partecipativo sia ben poco temibile per il capitale è ulteriormente confermato dal fatto che ultimamente anche la destra ha votato con la sinistra in consiglio comunale o che la Banca Mondiale ha tradotto e diffuso a proprie spese il libro di Genro sull'esperienza "partecipativa".

Possiamo dunque concedere che, stando alla documentazione da noi conosciuta, a Porto Alegre gli amministratori non rubino e non saccheggino il bilancio municipale per arricchirsi spudoratamente, come è di prassi nelle istituzioni borghesi, ma da qui a qualificare il bilancio partecipativo come socialista e, per di più, di un socialismo mai visto prima, ce ne corre parecchio. Evidentemente la memoria fa difetto ai nostri "antagonisti", i quali dimenticano altre esperienze storiche del movimento operaio di portata ben più vasta e, ci si perdoni il gioco di parole, più radicalmente riformista. Le cooperative di lavoro e di consumo, le amministrazioni "rosse" di villaggi e città, la rete di "luoghi" eassociazioni (camere del lavoro, circoli culturali e ricreativi, ecc.) che aspiravano a esercitare un vero e proprio contropotere dentro la società borghese, fiorite in Europa tra 1800 e 1900 erano animate dalla stessa filosofia di Porto Alegre, anzi, l'impostazione di fondo era sicuramente più classista.

E che dire della "Vienna Rossa" degli anni 1920, "gioiello" dell'Austromarxismo, cioè della socialdemocrazia austriaca che, assieme a quella tedesca (e internazionale), porta responsabilità primaria nel contenimento prima e nel soffocamento poi della rivoluzione proletaria? I socialdemocratici austriaci governarono la città di Vienna - allo stesso tempo capitale dello stato federale e Land autonomo - ininterrottamente dal 1920 al 1934. Durante quegli anni, applicando una forte tassazione alla rendita immobiliare, costruirono decine di migliaia di appartamenti corredati di servizi pubblici (asili, scuole, lavanderie, cinema, teatri, trasporti, ecc.) che alleviassero la "pena del lavoro" e, non certamente da ultimo, come tutte le riforme abbassassero il valore della forza-lavoro (13); non a caso, al fine di combattere il capitale finanziario parassitario - chi si vede... - e sostenere il capitale industriale, la socialdemocrazia austriaca impose costantemente una politica di contenimento del costo del lavoro (come si dice oggi), ossia di bassi salari (14).

Resta il fatto che, quando il capitale, morso in profondità dalla crisi, dovette sbarazzarsi di una politica riformista ormai impraticabile passando al fascismo e alla guerra, il riformismo, senza eccezione alcuna, consegnò vilmente la classe operaia, del tutto impreparata allo scontro e narcotizzata, nelle mani del suo boia in camicia bruna o la spinse a farsi massacrare per uno dei fronti contrapposti della guerra imperialista. Il riformismo, infatti, da una settantina d'anni a questa parte, ha preferito schierarsi dalla parte dell'imperialismo apparentemente più democratico e meno aggressivo.

Non è un caso, dunque, che al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre del gennaio scorso si sia stabilito un feeling particolare fra Tarso Genro e Chevenement, ex ministro socialista dell'interno, noto per le sue misure forcaiole contro i sans papiers, gli immigrati senza permesso di soggiorno. La cosa è spiegabilissima; infatti, anche per la totalità (o giù di lì) della sinistra latinoamericana l'antimperialismo si identifica nella lotta contro la presenza asfissiante degli USA per l'indipendenza nazionale; dunque, guarda con interesse alle potenzialità antiamericane dell'Unione Europea, con la quale aspira a costituire un fronte comune contro lo strapotere dei gringos. Ma chi meglio della borghesia francese, da sempre insofferente verso l'arroganza a stelle e strisce, può gettare un ponte (imperialista) tra i "popoli"? E non è proprio il "contadino" José Bové uno dei campioni del "popolo di Seattle" e, perciò stesso, del Forum Sociale?

Che sia la piccola borghesia a riproporre in veste rinnovata il nazionalismo democratico, condito di tutti i più insipidi luoghi comuni dell'utopismo piccolo-borghese, è assolutamente normale; non lo è, anzi, non dovrebbe esserlo, per chi ancora, in qualche modo, pretende di farsi interprete del proletariato conservando un'ottica anticapitalista, quali i sindacati "di base", i "rifondatori" del comunismo o il variegato mondo del cosiddetto antagonismo di classe, di cui alcuni noti esponenti hanno sottoscritto i documenti fondativi di ATTAC e del Forum Sociale. Basta scorrere anche superficialmente il Manifesto del Forum Sociale (15) per vedersi sprofondare in quello che 150 anni fa Marx ed Engels chiamavano "socialismo piccolo-borghese".

Come si diceva più indietro, la pretesa modernità è una ridicola bufala: nazionalismo solidale - in puro stile mazziniano - rimpolpato dal protezionismo economico per difendersi (sic) dal potere delle multinazionali; autosufficienza alimentare dei popoli e freno all'agricoltura industriale contro le transnazionali dell'agro-alimentare; controllo, come si è visto, del capitale finanziario; commercio equo e profitto etico, basati sulla "esistenza legittima di una razionalità individuale mercantile" (16), reddito di cittadinanza; ripristino della democrazia, usurpata dal grande capitale e, avvicinandosi pericolosamente all'estrema destra, rifiuto a che...

i valori sociali, le culture, gli elementi costitutivi dell'identità dei popoli vengano ridotti alla dimensione di semplice valore mercantile. (17)

Quali sono i valori sociali di un popolo o gli elementi costitutivi della sua identità? Il chador, il festival di San Remo, il campionato di calcio? A prescindere dall'ovvia considerazione che i popoli sono divisi in classi contrapposte e inconciliabili, i valori, le identità, le culture, non sono immutabili, ma cambiano con il procedere della storia umana, che da qualche millennio è storia della lotta di classe. E ancora, se è doveroso battersi contro lo strapotere delle transnazionali agro-alimentari, come parte della più generale lotta contro il capitalismo, è invece quanto meno ridicolo opporsi in assoluto all'applicazione della scienza e della tecnica in agricoltura e alla coltivazione su grande scala, per la salvaguardia della piccola/media proprietà e del piccolo commercio, da cui, per i costi elevati, i proletari non potrebbero avere che svantaggi.

In tutto il mondo cresce la giusta rabbia contro la progressione devastante e drammatica della crisi capitalista, che affonda interi continenti nella miseria e nella guerra, che attacca la forza-lavoro con un'intensità mai vista da cinquant'anni a questa parte, che mira a impadronirsi e a mercificare le basi biologiche della vita, avvelenando l'intero pianeta, che impone un consumismo cieco, spersonalizzante e massificante. Ma nel coro degli "antimondialisti" è ancora troppo flebile la voce della classe operaia, dei proletari, degli sfruttati del mondo intero. Solo se il proletariato entrerà nella lotta con tutta la sua forza, lo slogan del Forum che "un altro mondo è possibile" potrà concretamente essere posto all'ordine del giorno, a patto di non rimanere impigliato in inutili, pericolose e reazionarie utopie: se l'umanità avrà un futuro, questo sarà del comunismo, non del "paradiso in terra" della piccola borghesia.

Celso Beltrami

(1) K. Marx, recensione al libro di Emile Girardin, Le socialisme et l'impot, in K. Marx - F. Engels, M_anifesto del partito comunista_, TO, Einaudi, 1974, pag. 208.

(2) Franz Neumann, BEHEMOTH. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, MI, Feltrinelli, 1977, pag. 291.

(3) K. Marx - F. Engels, Manifesto..., cit., pag. 216.

(4) François Chesnais, Tobin or not Tobin? Une taxe internationale contre le capital, Paris, Ed. L'esprit frappeur, 1999, pag. 54.

(5) Chesnais, cit., pag. 35.

(6) Chesnais, cit., pag. 78.

(7) Chesnais, cit., pag. 76.

(8) Chesnais, cit., pag. 11.

(9) Vinci, Porto Alegre, o di alcune questioni cruciali dell'anticapitalismo europeo del 2000, in carta.org

(10) Intervista a Tarso Genro in Carta, gennaio 2001.

(11) Carta, cit., pagg. 30 - 31.

(12) Quaderno n. 5 di Rifondazione Comunista, febbraio 2001, da Seattle a Porto Alegre, si, se puede, pag. 127.

(13)

In questo caso la classe operaia di quella regione abita gratuitamente; del valore della sua forza lavoro non fanno più parte le spese per l'abitazione. Ma ogni riduzione dei costi di produzione della forza lavoro, cioè ogni durevole deprezzamento dei bisogni vitali del lavoratore, “in forza delle ferree leggi dell'economia politica” si risolve nel ridurre il valore della forza lavoro e finisce quindi con l'avere come conseguenza una corrispondente caduta del salario. Quest'ultimo, quindi, verrebbe decurtato in media del valore medio della pigione risparmiata, vale a dire che il lavoratore pagherebbe l'affitto della sua propria casa non più, come prima, in denaro al padrone, ma in lavoro non retribuito all'industriale per cui lavora. In tal modo i risparmi dell'operaio investiti nella casetta diventerebbero bensì, in certo qual modo, capitale, ma non per lui, bensì per il capitalista che gli dà lavoro. [...] Tra parentesi, quanto si è detto sopra vale per tutte le cosiddette riforme sociali che mirano al risparmio o al buon mercato dei mezzi di sussistenza dell'operaio.

F. Engels, La questione delle abitazioni, Roma, Newton Compton, 1977, pagg. 46-47

(14) M. Tafuri, Austromarxismo e città. "Das Rote Wien", Contropiano n. 2, 1971.

(15) Il manifesto dell' "altra" economia, in Le Monde diplomatique/il Manifesto, febbraio 2001.

(16) Le Monde diplomatique..., cit.

(17) Le Monde diplomatique..., cit.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.