Due buone ragioni americane per invocare lo stato palestinese

Dopo il crollo delle Torri gemelle, un altro avvenimento internazionale ha dell'incredibile: la dichiarazione del presidente Bush di essere disponibile alla nascita dello stato palestinese nei territori occupati da Israele. Apparentemente le due cose, pur nelle loro eccezionalità, sembrano non avere elementi di analogia, sia per il loro diverso contenuto, sia per gli scenari che occupano. Uno il primo, esploso nel cuore degli Stati Uniti, si è presentato come un atto punitivo perpetrato da una parte del mondo islamico nei confronti dell'imperialismo americano, l'altro, ancora tutto da costruire, appartiene allo scenario Medio orientale con gli interpreti di sempre: palestinesi da una parte, stato israeliano dall'altra. Nei fatti i due episodi sono strettamente legati tra loro e il collante è ancora una volta la questione petrolifera.

Dopo la chiusura della guerra del Golfo, gli Usa si sono garantiti la possibilità di cogestire il petrolio del Golfo persico grazie ad una serie di alleanze con i maggiori produttori dell'area. Arabia saudita, Kuwait, Emirati arabi uniti sono entrati a far parte, loro malgrado, di un meccanismo d'alleanze avente come perno gli Usa, che ha comportato una serie di presenze militari e d'interferenze economiche pesanti. Pur non facendo parte dell'Opec e non avendo nessun diritto di voto, un rappresentante americano partecipa alle assemblee del maggiore organismo petrolifero mondiale con la possibilità di esprimere il suo parere. Dato il suo peso specifico, il parere del rappresentante americano finisce per essere vincolante in tema di quantità di greggio da estrarre e, conseguentemente, dei prezzi di vendita. Il governo americano, a garanzia che altri episodi come quello dell'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein non abbiano più la possibilità di ripetersi, in realtà per curare in loco i propri interessi, mantiene un nutrito contingente militare in tutta la zona. Truppe militari sono presenti in Arabia saudita, Kuwait, Oman ed Emirati arabi. In Egitto, in Giordania e Turchia in quanto paesi, che pur non essendo produttori, hanno valenza strategica ai fini del controllo petrolifero della zona. In questa strategia l'aver consentito la sopravvivenza fisica e politica di Saddam Hussein, è servito come giustificazione alla necessità di una presenza militare americana nei paesi del Golfo.

Non a caso, subito dopo la chiusura della guerra, nell'ottobre del 1991, l'allora amministrazione Bush, ha ritenuto di dover iniziare una serie di conferenze di pace per il M.o. per evitare che la questione palestinese crescesse d'intensità, che coinvolgesse altre popolazioni arabe, che mettesse in crisi una serie di governi con i quali gli Usa avevano stabilito l'alleanza del petrolio e giustificato la loro presenza militare. In altri termini, cercare di ridurre ai minimi termini la questione palestinese, significava togliere dall'area uno dei motivi più importanti di tensione e, quindi, di pericolo per la propria strategia. Il progetto era quello di concedere non uno stato ma un'autonomia nei territori occupati, salvaguardando l'integrità dell'alleato israeliano e dando un contentino ai Palestinesi di Arafat. Il progetto andò in porto due anni dopo con gli accordi d'Oslo, ufficialmente e pomposamente ratificati nel settembre del 93 nei giardini della Casa Bianca sotto la presidenza di Clinton. Gli effetti non furono dei migliori, sia nel campo palestinese che all'interno della destra israeliana l'opposizione fu forte e feroce, ma tant'è, per l'imperialismo americano altre possibilità non c'erano. Crisi e tensioni si sono susseguite sino al fatidico 11 settembre di quest'anno. Come da altre parti abbiamo scritto, gli attentati terroristi alle torri gemelle, comunque siano stati organizzati e qualunque sia stato il loro significato, hanno fornito su di un piatto d'argento agli Usa l'opportunità di giustificare il loro intervento militare contro l'Afganistan, reo di aver ospitato e difeso il responsabile di questi attentati. Che Osama bin Laden e il governo dei Talebani non siano il vero obiettivo di questa guerra è chiaro sino all'evidenza. In gioco ci sono i giacimenti petroliferi del Kazakhistan e quelli gassosi del Turkmenistan. In palio c'è la costruzione delle pipe line che devono trasportare le due preziose materie prime sulle sponde dell'Oceano indiano passando per l'Afganistan, paese non più ritenuto affidabile dalla Unocal (impresa petrolifera americana) e dallo stesso governo di Washington. Sul tappeto c'è il tentativo americano di sommare al controllo del petrolio del Golfo persico anche quello del Caspio e di incrementare la rendita petrolifera imponendo il dollaro come divisa dominante anche nel settore tran caucasico. Ma anche in questo caso le cose non stanno andando per il verso giusto. La guerra contro i Talebani sta ponendo problemi militari i di creazione del nuovo governo. In aggiunta bin Laden e il mullah Omar hanno chiamato il mondo islamico alla guerra santa contro il "satana" americano in nome di Allah, della difesa delle ricchezze minerarie, del milione e mezzo di morti iracheni causati dall'embargo e delle aspettative nazionalistiche palestinesi. L'appello non ha fatto altro che mettere in movimento un mondo di disperati che, non avendo altre alternative praticabili, immagina che la strada della sua emancipazione sociale coincida con la salvazione religiosa. L'accoppiata dei due fattori, l'aggressione americana all'Afganistan e la risposta del governo talebano, nel mezzo di una pesante crisi economica internazionale che colpisce sia i settori del capitalismo avanzati, sia i paesi della periferia, stanno producendo disastri e fibrillazioni preoccupanti. In Afganistan si sta producendo un esodo di profughi di dimensioni bibliche. Quasi due milioni di afgani premono verso le frontiere del Pakistan, peraltro tenute rigorosamente chiuse dal governo di Musharaf. Tra Pakistan e India si è aperto il vecchio contenzioso sul Kashmir con episodi di scontri alle frontiere. Nello stesso Pakistan l'opposizione integralista sta mettendo in seria difficoltà il governo. In Arabia Saudita la monarchia dei Saud ha problemi di contenimento di una opposizione politica interna che le rimprovera di essersi venduta al dollaro e alle strategie americane. La questione palestinese, invocata da tutto il mondo arabo come l'esempio più evidente dell'arroganza d'Israele e degli Stati Uniti che da sempre l'hanno sorretta, è virulentemente riesplosa. Per il governo di Washington il fronte palestinese finisce per assumere una seconda valenza. La sua risoluzione non servirebbe soltanto a salvaguardare i vecchi equilibri delle alleanze basate sul controllo petrolifero del golfo persico, messe peraltro in crisi (Arabia Saudita) dei recenti avvenimenti, ma anche a contenere la rabbia delle popolazioni islamiche in funzione dell'attuale tentativo di assicurarsi il controllo dell'altro bacino petrolifero, quello caspico. Ecco spiegato il perché della storica dichiarazione di Bush in favore della possibilità di considerare in termini positivi la nascita di uno stato palestinese. Così hanno senso i ripetuti richiami nei confronti del governo Sharon sino ad imporgli il ritiro dei carri armati dalle zone rioccupate della Cisgiordania. All'interno di questo quadro, è evidente il rapporto che unisce i fatti dell'11 settembre con la storica dichiarazione sulla nascita di uno stato palestinese. La diplomazia americana ha voluto dare un segnale forte. Mentre da un lato scatena l'ennesima offensiva bellica, dall'altro cerca di coprirsi un fronte. L'obiettivo è quello di prendere due piccioni con una fava, il mezzo è quello di concedere qualcosa al mondo arabo sacrificando lo storico alleato israeliano, la forma è quella del distinguo tra ciò che si dice di combattere e ciò che si vuol salvare. " Noi non combattiamo contro il mondo islamico ma contro le pericolose deformazioni dell'integralismo. Noi non siamo contro il mondo arabo ma contro il terrorismo". Quello che non dicono è che sono sempre a favore dei propri interessi e disposti a perseguirli anche sul terreno della forza contro tutto e tutti, in modo determinato e feroce se sotto il peso di una grave recessione economica.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.