La tragedia palestinese - L'ambiguità dell'imperialismo americano sulla questione palestinese

La tragedia palestinese sta raggiungendo livelli insopportabili. Il governo israeliano agisce sul terreno della più feroce repressione e della pulizia etnica. Le soluzioni proposte sono ambigue e contraddittorie. Solo la ripresa della coscienza di classe tra i proletariati dell'area medio orientale può aiutare i Palestinesi.

Abbiamo più volte insistito sul fatto che la questione palestinese, per meglio dire le composite tensioni nazionalistiche che la compongono, è da tempo ostaggio dell'imperialismo americano e degli scenari internazionali che esso va disegnando. Le tragiche vicende attuali confermano questa tesi con una sola variante. L'amministrazione Bush, suo malgrado, è costretta ad una sorta di balletto contraddittorio che da un lato la spinge a prendere in considerazione, nei tempi e nei modi tutti da decidere, la nascita dello Stato palestinese, dall'altro non può premere più di tanto contro Israele che è ed è destinato a rimanere il suo "vero" alleato nell'area.

In teoria tutto sarebbe pronto. L'immagine internazionale di Sharon e del suo aggressivo governo sono in ribasso. Parte sempre crescente dell'opinione pubblica interna gli si schiera contro. Molti sono i cittadini israeliani che sono disposti a scambiare la pace con i territori occupati. Nelle stesse file dell'esercito la diserzione e la dichiarata volontà di non prestarsi al massacro dei Palestinesi va aumentando. L'eventualità della nascita dello Stato palestinese non è più quell'irrinunciabile tabù come negli anni passati. L'Europa si è schierata a favore di Arafat e contro i massacri dell'esercito israeliano. La Lega Araba nel suo recente Convegno in Libano del 27 marzo si è espressa sulla necessità di dare una soluzione al conflitto, concedendo ai Palestinesi uno straccio di stato, facendo propria la proposta saudita di Abdallah, di riconoscere l'esistenza di diritto dello Stato d'Israele da parte di tutti i paesi arabi in cambio della cessione di tutti i territori conquistati nel '67. La stessa Onu, con voto americano, si è dichiarata disponibile alla creazione di uno stato palestinese (risoluzione 1397) e ha successivamente condannato l'arroganza israeliana contro Arafat rinchiuso nella sua residenza - carcere di Ramallah.

Nel mondo arabo, dall'Egitto allo Yemen, dalla Siria alla Giordania, in questi ultimi tempi si sono moltiplicate le manifestazioni popolari di protesta contro Israele, gli Stati Uniti e a favore della causa palestinese. Persino i Governi arabi più tradizionalmente alleati dell'America come L'Arabia Saudita, l'Egitto e la Giordania hanno dichiarato il loro distacco dalla contraddittoria politica medio orientale dell'amministrazione Bush. Problema di non poco conto se la preoccupazione americana è sempre stata quella di tenere sotto controllo i governi e le popolazioni dell'area in difesa dei suoi interessi nella gestione della rendita petrolifera. Gli stessi accordi di Oslo, che a questo dovevano servire, sono stati fortemente voluti dalla precedente amministrazione Clinton e mai rinnegati dall'attuale. Persino il presidente Bush, in ben due occasioni, si è espresso chiaramente in favore dello Stato palestinese, ha condannato gli "eccessi" dell'esercito israeliano, per poi però ritornare sui suoi passi, concedendo a Sharon il "diritto alla difesa" dal terrorismo palestinese, definendo Arafat l'unico interlocutore possibile o il diretto responsabile del terrorismo a seconda degli scenari imperialistici internazionali che l'amministrazione americana va tratteggiando. Non è un caso che la prima volta che l'amministrazione Bush si è dichiarata disponibile a prendere in considerazione la possibilità della nascita dello Stato palestinese sia avvenuto poco prima dell'attacco militare contro l'Afganistan in modo da non creare allarmi all'interno del già scosso mondo arabo. La seconda volta è stata in coincidenza dell'intenzione di riprendere le armi contro il regime di Baghdad. Nel mezzo, e successivamente, il governo americano ha dovuto fare i conti con l'arrogante ostinatezza d'Israele.

Sharon non vuole assolutamente cedere. Ha forse abbandonato il "progetto totale" di deportare tutti i Palestinesi in Giordania, in una sorta di pulizia etnica definitiva tanto cara alla destra israeliana. Ha certamente intenzione di non cedere la Cisgiordania, o gran parte di essa ai Palestinesi, non tanto per una questione di ossessivo nazionalismo, quanto perché il territorio in questione è ricco di acque, consente all'economia agricola israeliana di essere auto sufficiente, non solo, ma di esportare in Europa derrate alimentari e frutta esotica. La Cisgiordania con i suoi insediamenti di coloni rappresenta la struttura dorsale dell'economia agricola a cui Sharon non è disposto a rinunciare. Il suo attuale accanimento contro la rivolta palestinese, l'insofferenza nei confronti della opinione pubblica internazionale, la stessa resistenza alle sia pur contraddittorie sollecitazioni americane, trovano giustificazione all'interno di un progetto nuovo. Se deve cedere qualcosa è bene che lo faccia da una posizione di forza che solo l'attività militare è in grado di garantirgli. Ritornare ad essere presente nei territori che è stato costretto a cedere sotto forma d'autonomia amministrativa all'Anp, trattare da quella posizione per arrivare a concedere, se mai lo farà, solo la Striscia di Gaza, qualche territorio all'interno della Cisgiordania, pochi e a macchia di leopardo, in modo da non compromettere tutto il resto, insediamenti compresi, è nella strategia di Sharon, l'unica concessione possibile.

L'ambiguità americana è costretta ad oscillare tra questi due limiti. L'uno, quello di dare un minimo di soddisfazione alle rivendicazioni nazionalistiche palestinesi in modo da salvaguardare i rapporti con il mondo arabo e quindi i suoi interessi strategici legati al petrolio del Golfo, l'altro di non penalizzare più di tanto Israele concedendogli tutte le attenuanti possibili, affinché il suo irrinunciabile alleato continui a rimanere tale.

Se le proiezioni imperialistiche americane dovessero realizzarsi riproponendo una seconda guerra contro l'Iraq, o contro qualsiasi altro obiettivo d'area, improbabile per una serie infinita di ostacoli posti sia dall'Europa che dagli stessi alleati arabi, ma non impossibile, l'alleanza con Israele diverrebbe fondamentale, riacquistando quella centralità che dopo la guerra del Golfo si era parzialmente ridimensionata.

Questo è quanto l'imperialismo americano, con le sue ambiguità, all'interno di uno scenario di crescente conflittualità con l'Europa e una parte del mondo arabo, concede al suo alleato Israele e promette al nazionalismo palestinese.

Al proletariato palestinese, ai diseredati dei campi profughi sparpagliati in tutto il medio oriente, allo stesso proletariato israeliano come a tutti i proletariati dell'area, la via imposta dall'imperialismo americano è impraticabile e politicamente insignificante. Altrettanto impraticabili e politicamente insignificanti sono le soluzioni nazionalistiche proposte dalla borghesia palestinese sostenuta dalle altre borghesie arabe. Uscire da questa alternativa significa riappropriarsi degli unici strumenti politici possibili: l'anti imperialismo e l'anti nazionalismo quali condizioni necessarie per lottare contro il capitalismo in qualsiasi veste si presenti. Con quella dei marine americani, con quella della divisa dell'esercito israeliano, ma anche con quelle del nazionalismo arabo o dell'integralismo islamico che tutto sono meno che istanze politiche favorevoli ad una futura soluzione rivoluzionaria di tutti i proletariati dell'area. Anzi, qualsiasi soluzione borghese, parziale o totale che sia, qualsivoglia atteggiamento politico anti imperialista che al contempo non sia anche anti capitalista, condizionano negativamente ogni tentativo di ripresa e di pulsione d'identità di classe oggi, e di ripresa della lotta di classe in senso rivoluzionario domani. Altra soluzione non c'è. È vero, nelle condizioni attuali mancano gli strumenti politici, una strategia d'area che coinvolga tutti i proletariati, ma occorre che qualcuno inizi a prepararne le condizioni perché nel più breve tempo possibile si colmi la grave lacuna. Essere indifferentisti su questo terreno significa consegnare all'infinito il proletariato palestinese e israeliano ai grandi giochi dell'imperialismo americano o ai piccoli interessi della borghesia indigena.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.