La guerra permanente è la risposta alla crisi del capitalismo americano

La economica americana è ben più grave e più preoccupante di quanto indichino i dati statistici. Siamo in presenza di una crisi che apparentemente si presenta soltanto come la crisi del neo liberismo, in realtà questa si è aggiunta a quella del keynesismo, che, a sua volta, si è proposta come la soluzione alle incapacità delle politiche economiche del libero scambio dopo la grande depressione degli anni trenta.

È la dimostrazione di come il capitalismo non possa superare le sue contraddizioni, indipendentemente dalle forme di organizzazione delle politiche economiche che storicamente è costretto a darsi ogni volta che cade nel baratro delle depressioni e del loro pesantissimo fardello sociale.

Gli effetti di questa crisi sono enormi. Nel secondo semestre del 2002 l'economia americana ha accumulato un debito di tremila miliardi di dollari nel solo settore produttivo. In rosso sono anche i conti pubblici, grande è il debito contratto dalle famiglie. La sola bilancia dei pagamenti con l'estero sfiora un deficit di 500 miliardi di dollari. In crisi sono tutti i maggiori settori della produzione. Si va dalla crisi dell'auto a quella delle più importanti compagnie aeree, dal settore dell'energia a quello dell'acciaio e dei trasporti su terra. Nel campo finanziario c'è stato l'ennesimo crollo della Borsa, il Nasdaq, ovvero quel settore della Borsa di New York dove sono quotati i titoli tecnologici ha perso il 70% della sua capitalizzazione. L'esplosione della bolla borsistica è stata preceduta dalla crisi di tutto il settore legato alla produzione di beni tecnologici, settore su cui l'economia americana aveva puntato le sue maggiori aspettative. A nulla sono valsi gli undici ribassi consecutivi nel corso dello stesso anno del tasso di sconto per sorreggere un'economia asfittica e in preda alle convulsioni depressive.

Sul piano sociale si è registrato un aumento della disoccupazione che è passato ufficialmente dal 4,1% al 4,9%, ovvero in termini reali, dal 12% al 14%. La divaricazione tra i ricchi, sempre meno numerosi ma sempre più ricchi, e i poveri, sempre in numero crescente e sempre più poveri, si è ulteriormente ampliata. Alla povertà assoluta, quella di chi non ha reddito o un reddito inferiore ai dieci mila dollari l'anno (trentasei milioni di americani vivono in queste condizioni e le stime sono errate per difetto), si aggiunge il fenomeno della povertà relativa, ovvero di coloro che, pur avendo un lavoro e un reddito, ovviamente precario il primo e sotto pagato il secondo, sopravvive in qualche modo rimanendo statisticamente al di sotto della soglia di povertà.

Le cause sono sempre le stesse, solo aggravate per velocità e Intensità. Le crisi cicliche che periodicamente devastano i rapporti di produzione capitalistici sono violentemente sollecitate da saggi del profitto sempre minori. Il che aggrava i meccanismi di valorizzazione dei capitali, ne rende più difficoltosa l'accumulazione, esaspera la concorrenza su tutti i mercati e genera crisi di dimensioni planetarie.

Nonostante questo la macchina economica americana regge, è ancora in grado di dominare i maggiori mercati internazionali, di essere la punta avanzata dello schieramento capitalistico mondiale, di proporsi economicamente e finanziariamente come il colosso con cui il resto del modo deve fare i conti, ma anche per questo l'imperialismo americano sta mettendo in atto una serie di strategie per continuare a mantenere il suo primato. La prima delle strategie, quella che più delle altre consente agli Usa di sopravvivere alle proprie contraddizioni, di esportarle in parte verso la periferia dell'impero, di estromettere dai mercati chiave la concorrenza internazionale, è quella della forza quale condizione alla perpetrazione del suo essere economico. Nell'ultimo decennio l'uso permanente della forza in una serie di guerre, tanto feroci quanto mirate nei tempi e negli obiettivi, sembra essere diventata una costante nel bagaglio politico dell'imperialismo americano.

L'uso della forza si esprime a 360° su tutti i mercati internazionali, da quello commerciale a quello finanziario, dal controllo del petrolio alla gestione dei mercati relativi alle materie prime strategiche. Il repertorio varia dalle guerre di rapina a quelle preventive, di controllo diretto a quello indiretto. Le giustificazioni si trovano sempre, se non sono a portata di mano s'inventano e la devastazione puntuale arriva. In undici anni si sono prodotte ben quattro guerre con la prospettiva di una quinta contro l'Iraq di Saddam Hussein. Dalla Guerra del Golfo a quella dell'Afganistan passa il filo nero del perverso uso della guerra quale condizione primaria per mantenimento del primato americano nel mondo, primato che per essere tale deve eliminare ogni forma di concorrenza dalla gestione dei mercati strategici, sia che si tratti di petrolio che di flussi finanziari. Le guerre contro il "nemico" di turno creano le condizioni del controllo e il controllo è la premessa in base alla quale si elimina la concorrenza. Che questa sia europea, russa o cinese poco importa, se non nelle soluzioni tattiche di area o di strategia globale che di volta in volta il governo di Washington intende intraprendere. Usando una facile sintesi si potrebbe affermare che l'arroganza e la violenza con cui gli Usa perseguono i loro obiettivi siano direttamente proporzionali alla crisi che li determina e agli obiettivi da perseguire.

La dove il ricatto economico e le pressioni politiche non ottengono risultati, violenta scatta l'opzione militare. Il primo caso prevede l'apertura alle esigenze commerciali americane dei mercati esteri attraverso il condizionamento del debito estero contratto con il Fmi o la Banca mondiale. Il che significa libertà di circolazione delle merci americane e dazi d'importazione per le merci prodotte dei paesi della periferia. Controllo politico dei finanziamenti concessi e possibilità di rifinanziamento a condizione di avere libero accesso allo sfruttamento delle materie prime a prezzi stracciati. Se i governi di questi paesi accettano il "diktat" tutto va come di norma, se ci dovessero essere delle resistenze o sollevazioni popolari, e siamo nella seconda ipotesi, i governi saltano e le eventuali rivolte sono represse nel sangue con l'aiuto o la consulenza della Cia. Il centro e il sud America insegnano, non soltanto negli episodi pregressi, ma anche per quelli che recentemente si sono prodotti in Argentina, Columbia e Venezuela.

Sullo scenario del petrolio l'operatività dell'imperialismo americano è di gran lunga più articolata e determinata. In gioco non c'è soltanto la volontà di estendere il controllo sulle aree di maggiore interesse energetico come il Golfo Persico e la zona del Caspio, ma anche di continuare a gestire la rendita petrolifera parassitaria attraverso il mantenimento del dollaro quale unità di scambio monetario con la primaria fonte energetica mondiale, e la possibilità di contribuire alla determinazione delle quantità e dei prezzi di vendita, quindi dei flussi finanziari tra le aree produttrici e consumatrici di petrolio. Infine di avere voce in capitolo su chi eventualmente escludere dalla produzione o dal consumo di petrolio sempre all'interno di una strategia energetica che vede gli Usa come unico grande perno attorno al quale deve ruotare tutto l'interesse delle altre potenze economiche internazionali.

Questi quattro aspetti della questione sono intimamente legati tra loro. Il controllo del petrolio è di vitale importanza per l'economia americana, il suo fabbisogno energetico le impone di importarne il 60%. I pozzi del Texas sono in esaurimento e molto alto è il costo d'estrazione. Quelli dell'Alaska coprono a malapena il 35% del fabbisogno interno, le necessità di facile e sicuro approvvigionamento sono diventate impellenti e non più derogabili nel tempo, pena il veloce tramonto dalla già precaria struttura produttiva che da un trentennio, in preoccupante progressione, subisce la maggiore competitività dell'Europa e del Giappone. Le quantità e i prezzi di vendita del petrolio diventano un corollario del controllo energetico e sono, di volta in volta, suggeriti, se non dettati, dai rapporti di forza tra la situazione economica interna e la necessità di penalizzare la concorrenza internazionale che di petrolio non ne possiede nemmeno una goccia.

Il continuare ad imporre il dollaro quale coefficiente universale di scambio nelle transazioni petrolifere consente agli Usa di sopravalutare la propria divisa, di appropriarsi parassitariamente di quote di plusvalore prodotte nei quattro angoli del mondo, ma soprattutto nei paesi ad alta industrializzazione, favorendo un flusso finanziario verso l'economia americana che necessità di capitali freschi, ancora più strategici se messi in relazione alle sempre maggiori difficoltà di realizzare produttivamente saggi del profitto significativi rispetto alla crescente massa di capitali investiti. Il controllo delle aree petrolifere consente anche di usare la fonte energetica primaria, di cui nessun paese al mondo può fare a meno, tanto più se sviluppato industrialmente, come deterrente politico d'allineamento, se non di appiattimento, dei vari paesi alle necessità strategiche americane.

L'uso della forza, quindi, della guerra permanente, quale mezzo di realizzazione di tutti questi obiettivi è la condizione irrinunciabile dell'imperialismo americano nel disperato tentativo di sopravvivere alle contraddizioni del proprio capitalismo, di gestirle al meglio, di farle pagare in eguale misura, anche se con conseguenze diverse, alle altre potenze capitalistiche concorrenti e ai paesi della cosiddetta periferia. Il progetto si legge nelle intenzioni e nei fatti. L'incremento della spesa bellica, a fronte dello smantellamento dello stato sociale, che già aveva preso le mosse sotto l'amministrazione Reagan, è esponenzialmente aumentato sotto tutti i governi successivi, toccando lo storico picco di 400 miliardi di dollari sotto l'attuale amministrazione di Bush figlio.

Recitavano le vestali del neo liberismo americano che dopo il crollo dell'Urss, per l'intera umanità si sarebbero aperti orizzonti di pace e di prosperità, come se il capitalismo occidentale, dopo il crollo di quello statale dell'est, fosse in grado di risolvere le proprie contraddizioni. Immersi in questa finzione hanno prodotto nuovi mostri da combattere, hanno inventato nuovi nemici da eliminare, si sono ulteriormente attrezzati sul terreno della capacità distruttiva bellica con l'unico scopo di sopravvivere uccidendo, di perpetuare un regime di sfruttamento senza frontiere, senza limiti, senza pudore. Prima è stato lo spettro di Saddam, poi quello di Bin Laden, in mezzo i Serbi e Milosevic, domani potrebbe toccare a chiunque purché abbia la sfortuna di trovarsi sul cammino degli interessi americani non più dilazionabili nel tempo, da perseguirsi subito, sul piano della forza con l'esplosione di devastanti guerre, una dietro l'altra in una tragica successione che non sembra avere fine. In undici anni ben quattro guerre si sono prodotte e la quinta è dietro l'angolo. Quasi dietro tutte l'ombra del petrolio, davanti a tutte l'arroganza americana, in mezzo le vittime dirette e indirette che hanno dovuto pagare un prezzo elevatissimo alle necessità di sopravvivenza dell'imperialismo americano.

In tutti gli episodi di guerra l'arroganza dell'imperialismo si è fatta beffe degli organismi internazionali, li ha usati fin che è stato possibile, li ha cambiati a seconda delle necessità tattiche e dei contrasti con le altre potenze, li ha abbandonati quando il loro uso si è reso difficile o inutile. La guerra del Golfo è stata combattuta dall'imperialismo americano sotto le compiacenti bandiere dell'Onu per allungare le sue mani sul petrolio del Golfo persico. Quando, mangiata la foglia, all'interno dell'Onu l'opposizione di molti paesi si è fatta sentire sulla questione della guerra in Bosnia e in Kossovo, gli Usa si sono serviti della Nato. Nella guerra afgana, quando in gioco c'era il controllo del petrolio caspico, e difficilmente avrebbero ottenuto un secondo avallo, hanno deciso di fare da soli. Incassato il "placet" da parte dell'opinione pubblica mondiale sulla base di una dubbia interpretazione dell'articolo cinque del regolamento Nato che doveva sancire il diritto di vendetta degli Usa colpiti da quell'altrettanto dubbio attentato dell11 settembre, se la sono giocata da soli con l'unico appoggio della Gran Bretagna.

Oggi di fronte al nuovo possibile attacco nei confronti dell'Iraq, con la solita questione petrolifera incombente, il braccio di ferro con l'Onu, ma meglio sarebbe dire con alcuni paesi europei, con la Russia e la Cina, l'arroganza americana ha riproposto che (una volta accettata per necessità l'ultima e tanto contrastata risoluzione), qualunque atteggiamento di Saddam Hussein che non soddisfi pienamente le attese americane, sarebbe sufficiente per scatenare un secondo attacco, già deciso dal presidente Bush, dalla lobby petrolifera e da quella militare che certamente non si fermerebbero di fronte alle decisioni prese da una qualsivoglia risoluzione Onu.

Che il governo di Washington si sia servito degli organismi internazionali fin tanto che gli hanno fatto comodo e che poi li abbia considerati come degli ingombri da lasciare al loro destino nel momento in cui il loro uso strumentale si faceva difficile o impossibile, lo si ricava anche dalla morosità contratta negli ultimi anni nei confronti delle casse dell'Onu. Dopo i favori, non più ricevuti dalla chiusura della guerra del Golfo, sono in pratica cessati i finanziamenti americani. Già nel 1994 in piena guerra civile in Bosnia e poco prima dell'innesco della guerra in Kossovo, fortemente volute dall'amministrazione americana ma senza più l'appoggio incondizionato dei paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza, l'ammontare dei mancati versamenti americani era salito a 285,5 milioni di dollari, cifra che oggi si è più che raddoppiata. Tenuto conto che la quota americana era del 25% dei finanziamenti complessivi, era come decretare l'immobilismo di quella struttura di cui gli Usa si sono serviti militarmente a piene mani dalla fine della guerra fredda e di cui hanno decretato la fine in sede operativa nel momento in cui non ha più risposto ai loro interessi strategici.

Infine, in barba a qualsiasi protocollo internazionale, il potere della forza ha imposto che le normative del Tribunale penale internazionale, relative alla perseguibilità di quei governi, eserciti o semplici soldati che si macchiassero di crimini contro l'umanità, non avesse nessun alcun valore coercitivo nei confronti degli Usa. Il governo Bush non solo ha rifiutato di apporre la propria firma al protocollo d'intesa internazionale, ma ha ribadito che nessun cittadino americano può essere indagato, e tantomeno condannato, da tribunali internazionali né in tema di reati penali né per crimini di guerra. Una sorta di salvacondotto per i reati pregressi e per quelli a venire, in perfetta sintonia con l'uso della forza sempre e comunque, che deve essere assolutamente libera di esprimersi ogni qual volta le necessità dell'imperialismo americano lo impongano.

Le condizioni che rendono possibile la guerra come strumento di difesa degli interessi dell'imperialismo americano

Tra le condizioni che in questa fase storica rendono possibile all'imperialismo americano di perseguire più facilmente che in altre situazioni, "manu militari" i suoi obiettivi di supremazia economica, finanziaria, di controllo dei mercati commerciali e delle materie prime, c'è certamente lo scenario internazionale delineatosi dopo il crollo dell'Unione sovietica. Ai tempi della guerra fredda, sia all'interno dell'Onu che sui teatri della guerra guerreggiata, la presenza di un secondo polo imperialistico costringeva gli Usa ad osare di meno, ad avere limiti alla sua politica espansionistica, a ricattare politicamente con successo gli alleati occidentali, in nome di una strumentale unità nei confronti del comune nemico, "il comunismo" sovietico.

Che dall'altra parte il comunismo non ci fosse, che il programma comunista non abbia potuto esprimersi già a partire dalla seconda metà degli anni venti, e nonostante che fosse palese anche ai più distratti osservatori di politica internazionale che lo stalinismo fosse la forma politica che assunse la contro rivoluzione in Russia, la contrapposizione "ideologica" è opportunisticamente servita a nascondere, sia da una parte che dall'altra, il vero senso dello scontro, quello imperialistico ovvero del perseguimento degli interessi capitalistici e nella versione privatistica che in quella del capitalismo di stato.

Caduta l'Unione sovietica (non sotto il peso della improponibilità di una società comunista, né della sua presunta inferiorità in termini di competizione economica e sociale con il capitalismo occidentale, bensì a causa di una implosione economica le cui origini vanno ricercate nella solite contraddizioni, tutte interne ai rapporti di produzione capitalistici, con la sola variante del possesso e della gestione statale dei mezzi di produzione, forza lavoro compresa) per l'imperialismo americano si sono aperte praterie di scorribanda imperialistica precedentemente inimmaginabili.

Di questa situazione la varie amministrazioni Usa hanno approfittato a piene mani. La guerra del Golfo scatta sì quando formalmente l'Urss era ancora in vita, ma ben due anni dopo la storica dichiarazione di Gorbacev di cessazione della guerra fredda, quando il presidente perestroicante della moribonda Unione Sovietica aveva già cominciato a smantellare il Comecon, il Patto di Varsavia e a ritirare le proprie truppe dai quattro angoli del mondo, lasciando i veri e ambigui alleati, tra cui la Yugoslavia di Milosevic e l'Iraq di Saddam Hussein, in balia dell'ex mortale nemico. Tutte le altre, da quella bosniaca sino a quella dell'Afganistan, si sono prodotte in assenza della controparte sovietica, ovvero in una condizione interimperialistica particolarmente favorevole, assolutamente unica a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.

Crollata l'Urss, la residuale Federazione russa ben poco avrebbe potuto fare contro il vecchio nemico americano. Sul piano dei rispettivi pesi imperialistici ogni tipo di confronto, da quello militare a quello politico, era semplicemente improponibile. Il che non significa che la Russia di Eltsin come quella di Putin non abbiamo tentato e non tentino di raccogliere le briciole di quello che avanza sul tavolo della rapina imperialistica, ma sono proprio gli avanzi che il commensale americano lascia in cambio di ulteriori mani libere su altri tavoli e con altri commensali.

La Russia di Putin qualche briciola l'ha avuta in Cecenia, nel Daghestan e in quelle province asiatiche che un tempo facevano parte del suo impero. Sul petrolio caspico, invece, le cose vanno ben diversamente. Tutti i progetti americani di concessione, trasporto e controllo del petrolio kazaco verso l'oceano indiano via Afganistan, prevedono l'esclusione della Russia. La possibile seconda guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein per il completamento del controllo del petrolio del Golfo persico impone il medesimo schema. A questo obiettivo l'amministrazione Putin si è opposta, non perché il peso specifico imperialistico russo sia aumentato, ma semplicemente perché le devastate condizioni economiche nelle quali versa ancora la Russia post sovietica glielo impongono.

La sua partita Putin è costretto a giocarsela sul terreno diplomatico, all'interno della squalificata Onu, mediando le posizioni aggressive americane che, come più volte dichiarato dallo stesso presidente Bush, non sono passibili di modificazioni, se Saddam Hussein non si inchina a tutte le richieste formulate, quelle inaccettabili comprese. In termini concreti, di quotidianità dello svolgersi delle dinamiche imperialistiche sulla questione del controllo del petrolio, su quello della rendita petrolifera parassitaria, su quello dei mercati delle materie prime e commerciali, il peso della Federazione russa è pressoché irrilevante, sottoposto alle pressioni ed ai ricatti sulla concessioni di crediti da parte del Fmi, ovverosia da parte americana. Di converso la possibilità di azione del governo Bush sale esponenzialmente, l'uso della forza, l'opzione bellica permanente trovano spazi e condizioni sufficientemente favorevoli, nonostante le timide iniziative degli alleati concorrenti.

Anche se in termini completamente diversi per percorsi economici e storici, il rapporto di forza tra la cosiddetta Europa e gli Usa si presenta nei medesimi termini. Innanzitutto l'Europa non esiste come unità politica e tantomeno come potenza militare. Da trent'anni a questa parte, in quasi tutti i settori dell'economia reale, ha contribuito a creare il buco nella bilancia americana dei pagamenti con l'estero ergendosi a colosso economico, ma mantiene ancora tutte le caratteristiche genetiche del nano politico e militare. Il suo peso imperialistico è molto vicino allo zero e questa situazione fa sì che i singoli paesi si trovino da soli a competere con lo strapotere americano, innescando la prassi del " ognuno per sé dio per tutti, fatti salvi quei tentativi, ultimamente sempre più invocati e reiterati, di dotarsi di uno strumento militare comune che affianchi l'Euro, lo strumento monetario che i paesi europei si sono dati per contrastare il dollaro sul mercato monetario internazionale.

Ma anche lo sforzo monetario europeo, se non sorretto da una forza militare che gli consenta di giocare imperialisticamente le sue carte, rimane un'arma monca e parziale a tutto vantaggio della controparte americana. Non per niente, una delle ragioni che spingono l'amministrazione Bush ad intervenire con la forza in Iraq, eliminando il regime di Saddam per sostituirlo con un governo filo americano, risiede nel progetto di impossessarsi del secondo giacimento petrolifero mondiale, di eliminare la possibilità che Russia ed Europa possano avere accesso al petrolio iracheno, by passando così il monopolio gestionale americano nell'area, di impedire che rublo ed Euro possano progressivamente sostituirsi al dollaro nelle transazioni petrolifere internazionali, spianando la strada a paesi come l'Iran e la Libia che non aspettano che l'occasiona più opportuna. Il tutto, ancora una volta, è giocato sul piano della forza. L'Europa, leggi Francia, Germania e la Federazione russa ci provano sul terreno delle schermaglie diplomatiche, sul gioco delle risoluzioni Onu, gli Usa invece mostrano i muscoli, sostengono la tesi del più forte, "o con noi e nei nostri termini, o contro di noi con tutte le conseguenze del caso".

Il compromesso della risoluzione 1441, fortemente voluta da Francia e Russia e accettata da Saddam Hussein, ha solo parzialmente spiazzato gli Usa. Talmente tante sono le trappole e le insidie che si celano all'interno della risoluzione, che gli appigli per scatenare un attacco sono sempre molto alte. L'opzione bellica è presente da anni nelle strategie americane. L'attacco militare contro il governo talebano è maturato ben prima dell'11 settembre. Per i ben noti motivi la programmazione prevedeva che l'attacco al governo di Kabul si producesse militarmente nell'ottobre del 2001, ma la prima decisione fu presa nel 99 e la seconda nell'agosto del 2001 quando risultò chiaro alla amministrazione Clinton prima, e a quella Bush poi, che l'affidabilità del governo dei Taleban che loro stessi avevano favorito, era pressoché inesistente.

La tempistica si è ripetuta nel caso dell'Iraq. La programmazione del secondo attacco a Saddam Hussein ha preso corpo un anno fa, quando si sono modificati alcuni parametri nello scenario petrolifero medio orientale, quando cioè l'opzione Afganistan non ha dato, per il momento, i risultati sperati, infatti ancora troppo inaffidabile e debole mostra di essere il governo Karzai; l'Arabia Saudita, poi, non è più quel punto di riferimento sicuro su cui l'imperialismo americano era abituato a contare, e così si è reso necessario il riposizionamento nell'area. Se prima il mantenere il governo iracheno al suo posto era funzionale alla giustificazione della permanenza militare americana nell'area, ora tutto ciò è insufficiente, occorre eliminare il Rais di Baghdad per sostituirlo con un governo allineato, sia per mettere direttamente sotto controllo i giacimenti di Mossoul e Kirkuk, sia per differenziare gli approvvigionamenti energetici dell'economia americana. In tutti i casi la guerra è lo strumento migliore che l'imperialismo americano ritiene di impiegare per ottenere il soddisfacimento dei suoi interessi in loco e, contemporaneamente di eliminare la possibile concorrenza di Europa e Russia.

Ne consegue che la possibilità dell'uso della forza da parte dei governi di Washington è direttamente proporzionale alla debolezza politica e militare degli altri imperialismi. Distrutto e inoperante quello russo, erede della crisi di quello sovietico, tutto in "fieri" quello europeo; ma è anche direttamente proporzionale al basso livello della lotta di classe. Alle devastazioni e alla barbarie del nuovo quadro imperialistico i movimenti di classe stentano a proporsi in termini antagonistici. Nella periferia le rivolte scoppiano anche virulente ma senza una strategia e una guida rivoluzionaria, al centro dell'impero i movimenti latitano o se si esprimono sono completamente preda del neo riformismo.

Fabio Damen

Prometeo

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