Elezioni presidenziali: il proletariato argentino a un bivio?

Le elezioni presidenziali svoltesi domenica 27 aprile, in Argentina, offrono diversi spunti di riflessione su quello che, da un certo punto di vista, può essere considerato quasi un laboratorio della moderna lotta di classe. Infatti, il paese sudamericano, al di là delle mitologie serpeggianti tra tanti giovani no-global, non è affatto una realtà economico-sociale arretrata, caratterizzata dalla diffusa presenza di contadini poveri o poverissimi e da consistenti sopravvivenze (sempre più stentate) delle vecchie comunità che, per comodità, chiamiamo "indie". Nel complesso, l'Argentina è una società fortemente urbana, in cui predomina il lavoro salariato, tanto nell'industria e nei servizi, quanto nelle attività agricolo-pastorali. In poche parole, anche nelle campagne il tipico lavoratore è il bracciante, cioè l'operaio (magari a cavallo) delle enormi proprietà che producono merci per l'esportazione. Dunque, tra la classe dei capitalisti e quella del proletariato lo scontro è immediato e diretto; non ci sono distorsioni costituite - come, per esempio, in Brasile - dalla classe dei contadini poverissimi, privati con brutale violenza della terra, che avanzano rivendicazioni di stampo piccolo borghese, quali la difesa della piccola proprietà individuale o l'esproprio del latifondo in una prospettiva di rilancio delle micro aziende contadine in un mercato che - ingenuamente - si vorrebbe equo e anche solidale. No, nel Gran Buenos Aires come nelle pampas, tra borghesi e proletari si inserisce una piccola borghesia, certo, ma di tipo estremamente moderno, cioè quella dei servizi. Ma dopo la cura da cavallo (di nome e di fatto, visto che Domingo Cavallo ha ricoperto più volte la carica di ministro dell'economia) di politiche economiche brutali susseguitesi per vent'anni, anche la piccola borghesia è stata letteralmente schiantata dalla svalutazione del peso, dell'inflazione, dal crollo catastrofico di tutto il sistema. Non a caso, dunque, se nel 1976 fornì un certo consenso al colpo di stato dei generali macellai che promettevano di riportare l'Argentina agli antichi splendori (quanto l'intenso sviluppo economico attraeva emigranti da tutto il mondo), quella semi-classe ha affiancato il proletariato in rivolta nel dicembre 2001, dando il suo contributo alla caduta di ben tre presidenti nel giro di pochissimo tempo. Affiancato, certo, perché il protagonista assoluto di quelle giornate è stato il proletariato, in particolare i disoccupati, i giovani precari o che non hanno mai avuto un lavoro, gli operai e le operaie sull'orlo del licenziamento, pronti a occupare le fabbriche di fronte alla prospettiva quanto mai concreta della fame.

"Che se ne vadano tutti, che non ne rimanga nemmeno uno!" era la parola d'ordine unificante nelle piazze, ed esprimeva non solo il rifiuto, ma il vero e proprio disgusto per una classe politica inetta, avida, corrotta fino al midollo, che aveva partecipato in prima persona al banchetto con cui il grande capitale internazionale e "nazionale" aveva gozzovigliato a spese del proletariato argentino, in primo luogo, ma anche di settori consistenti della piccola borghesia. La svendita a prezzi stracciati delle grandi imprese statali (industriali e dei servizi), la demolizione del cosiddetto stato sociale (pensioni, sanità, scuola), i licenziamenti di massa e lo sfruttamento furibondo di chi ha conservato il posto di lavoro, tutto questo era stato fatto concretamente - e ne gode - dalle bande affaristico-mafiose dei politici di qualunque schieramento. Non che costoro si siano comportati diversamente dai loro colleghi politicanti del resto del mondo - anzi! - solo che in Argentina il "gioco" è saltato (vedi, a questo proposito, Prometeo n.6/2002).

Parallelamente al senso di estraneità e di odio verso le istituzioni borghesi e dei loro reggicoda sindacali, in tutto il paese si sono moltiplicate iniziative di lotta, organismi e organizzazioni fondate sulla pratica della democrazia diretta e dell'autorganizzazione, che in modo istintivo, benché generalmente confuso e persino contraddittorio, si sono poste oggettivamente su un terreno anticapitalista. Il movimento dei piqueteros è emerso come la vera avanguardia sociale del proletariato argentino, che, assieme alle fabbriche occupate e alle assemblee di quartiere, è stato il motore del proletariato combattivo.

Questi elementi, molto sinteticamente richiamati, lasciavano presagire quanto meno un forte astensionismo alle elezioni, invece, non solo l'80% degli elettori è andata a votare, ma addirittura la personificazione vivente del putridume borghese, quel Carlos Menem finito anche per un po' di tempo agli arresti (domiciliari...) tanto è marcio, ha battuto al primo turno gli altri concorrenti (24,34%). Ora, la partita si giocherà con Kirchner (21,99%), un altro peronista, che si sforza di apparire di sinistra; ma, da entrambi, il proletariato non deve aspettarsi assolutamente niente di buono. Stando a quel che dice il Manifesto del 29 u.s., il primo rappresenta la borghesia più legata alla speculazione finanziaria e quindi agli USA, il secondo quella industriale che vuole rimettere in piedi l'apparato produttivo: va da sé che, l'uno o l'altro, non faranno altro che continuare sulla strada del più spietato sfruttamento... Rimane quindi il dato, per certi versi sorprendente, di una qualche forma di ri-legittimazione delle istituzioni borghesi e dei loro squallidi rappresentanti. Può essere che l'elettorato argentino sia corso in massa alle urne per impedire l'elezione di Menem, come ha detto una rappresentante dell'organizzazione piquetera MTD, Solano, in viaggio per l'Italia, ma, se se così fosse, potrebbe voler dire che l'ondata proletaria partita un anno e mezzo fa sia una fase di stanca o addirittura di riflusso. Potrebbe anche significare che il movimento non ha saputo crescere in qualità e in estensione, concedendo così alla borghesia tempo prezioso per riorganizzarsi e mettere in atto le necessarie contromisure volte a dividere e addormentare la classe. Tralasciando gli interventi diretti per corrompere e integrare i dirigenti più prestigiosi delle masse, forse hanno giocato un certo ruolo, da una parte, la mancata saldatura tra il movimento piquetero, composto essenzialmente da lavoratori disoccupati, e il grosso degli operai occupati, schiacciati dalla paura e dal ricatto di perdere il posti di lavoro; dall'altra, una modesta ripresa della produzione industriale e la messa in campo di due milioni circa di sussidi di disoccupazione e di "planes laborales" (una specie di nostri lavori socialmente utili) - che assicurano sì e no la semplice sopravvivenza. Tutto ciò, può aver gettato acqua sul fuoco proletario. Certo, la volontà di lotta dei coordinamenti piqueteri e dei vari organismi di base sembra ancora intatta, come è stato dimostrato dalla mobilitazione contro lo sgombero - purtroppo questa volta riuscito - della fabbrica occupata Brukman, durante il quale la polizia ha picchiato selvaggiamente e sparato, ma pare che le assemblee di massa non siano più così affollate, segno inequivocabile quanto meno di stanchezza. È difficile dare una valutazione netta e precisa su quanto stia realmente accadendo nel corpo proletario argentino; molto più facile, anzi, elementare, rilevare il ruolo estremamente negativo esercitato da quelle correnti politiche che influenzano o dirigono il movimento di lotta. Trotskysti da una parte, teorici del contropotere dall'altra, stanno facendo tutto quanto è in loro potere per portare ad una disastrosa sconfitta il proletariato argentino. Né può essere diversamente: sono entrambi figli della controrivoluzione staliniana e della socialdemocrazia storicamente intesa, che alla necessità ineludibile della rottura rivoluzionaria aveva sostituito l'illusione in una evoluzione pacifica al socialismo. Poco conta che si usi un linguaggio rimodernato: il "contropotere", il "cambiare il mondo senza prendere il potere" sono la versione aggiornata della vecchia e fallimentare utopia socialdemocratica. Così come le parole d'ordine trotskyste, consistenti nella nazionalizzazione delle imprese sotto controllo operaio e nella convocazione di un'Assemblea Costituente, non solo non cambierebbero di una virgola i rapporti sociali capitalistici (la merce, il denaro, il salario, nonché il profitto, rimarrebbero), ma nella misura in cui la classe operaia, i disoccupati ecc. avessero la forza di fare questo, non si capisce perché dovrebbero limitarsi alla nazionalizzazione e non invece spazzare via lo stato borghese con tutto quello che ne segue.

Non resta da sperare che le mobilitazioni di questi mesi abbiano contribuito a far maturare individui o gruppi verso posizioni autenticamente rivoluzionarie, che possano agire da punto di riferimento, se non immediatamente, almeno per il futuro, affinché una delle più grandi esperienze del proletariato mondiale degli ultimi decenni non finisca archiviata come una delle tante, troppe sconfitte sterili nella lotta contro il capitalismo.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.