Il fallimento della Road Map e il fiato corto dell'imperialismo americano

Tutto è come prima, peggio di prima. La tanto auspicata tregua è saltata, Israele ha ricominciato a fare pulizia etnica, a rafforzare gli insediamenti, ad uccidere selettivamente i capi delle formazioni terroristiche palestinesi. Sul fronte opposto sono ripresi gli attentati terroristici, si è riacutizzata la lotta tra Hamas, la Jihad islamica e l'Olp, e all'interno dell'Olp, lo scontro tra Arafat e Abu Mazen sembra essersi concluso con le dimissioni di quest'ultimo. Ciò che è cambiato è l'atteggiamento americano. Finita la guerra fredda e conquistato il controllo petrolifero dell'area dopo la guerra del Golfo, per l'imperialismo americano la questione palestinese doveva essere in qualche maniera risolta al fine di pacificare la zona in modo da rendere sicure le alleanze petrolifere appena stabilite, smorzando le cause della questione palestinese che altrimenti avrebbero potuto incendiare l'intero scenario medio orientale. Ecco improvvisamente farsi strada la possibilità della nascita di uno stato palestinese patrocinato dall'amministrazione Clinton. Gli accordi di Oslo - Washington sono stati il primo passo. Firmatari: un'ala della borghesia israeliana disposta a trattare la pace contro i territori, e una parte della borghesia palestinese legata all'Olp di Arafat disponibile a rinunciare al vecchio programma nazionalistico pur di ottenere qualcosa di concreto sul piano territoriale. Ma fu un fallimento, nei due schieramenti ebbero il sopravvento le forze radicali che non accettavano di concedere territori che si ritenevano ormai acquisiti da parte israeliana, o che consideravano gli accordi eccessivamente penalizzanti sul piano territoriale da parte palestinese. Durante gli anni successivi, caratterizzati dal riacutizzarsi degli scontri, l'amministrazione Usa ha sempre preso le difese di Israele, rari i suoi appelli nel denunciare l'eccesso di difesa del governo di Tell Aviv, assoluta la volontà di impedire all'Onu qualsiasi risoluzione di condanna del suo alleato.

Strumentalmente, alla vigilia dell'attacco al governo integralista musulmano dei Talebani nell'ottobre del 2001, gli Usa ripropongono la necessità della nascita di uno stato palestinese. Il gioco era chiaro sino all'evidenza: l'attacco militare ad un paese musulmano avrebbe potuto rinfocolare odi e tensioni nei confronto di Washington tra le popolazioni arabe. Lo stesso giochino si è ripetuto in occasione del secondo attacco contro l'Iraq.

Oggi le cose sono cambiate. L'imperialismo americano ancora ricorre alle dichiarazioni della necessità della nascita di uno stato palestinese nella nuova formulazione della road map, non tanto e non solo per garantirsi quella pace sociale in terra di Palestina, tanto sospirata ai fini del consolidamento del suo ruolo egemone in materia energetica e di supremazia del dollaro nell'area del medio oriente, ma anche per consolidare una precaria situazione interna.

Innanzi tutto il riproporsi come fautore della soluzione palestinese gli consentirebbe di rafforzare il suo ruolo in quell'area che ha pesantemente contribuito a mettere in crisi. Le devastanti campagne petrolifere in Afganistan e in Iraq hanno messo in difficoltà l'attuale amministrazione Usa. I due paesi, la cui conquista avrebbe dovuto risolvere i problemi di una economia americana sull'orlo del fallimento, stanno creando enormi problemi sia da un punto di vista della gestione sociale, sia della affidabilità politica, mettendo in seria discussione gli obiettivi per cui si sono scatenate due guerre. Nel caso dell'Iraq, la drammaticità degli eventi post bellici sfiora addirittura il ridicolo. Le opposizioni interne alle truppe d'occupazione si stanno esprimendo in una sorta di resistenza armata senza quartiere. A nord e a sud, in zona sunnita che in quella sciita l'odio contro le truppe di occupazione e contro il governo provvisorio monta in maniera esponenziale. Gli attacchi non si limitano alle forze armate d'occupazione ma anche contro agli oleodotti, rendendo inoperante lo sfruttamento di quel petrolio per il quale si è fatta la guerra contro il regime di Baghdad, e in nome della quale si sono confezionate le più ridicole menzogne. La gestione militare del dopo guerra costa almeno quattro miliardi di dollari al mese e circa due morti americani al giorno. Gli esperti hanno calcolato che per iniziare a produrre petrolio secondo ritmi economicamente convenienti occorre investire decine di miliardi di dollari, aumentare i finanziamenti per le truppe, aumentarne il numero dei militari, nella speranza di normalizzare tutta la situazione in modo da incominciare a ricevere i sospirati vantaggi economici. Al contempo i conti non quadrano nemmeno all'interno dei confini domestici. L'economia stenta ad uscire dalla recessione che dura da quasi tre anni, il deficit federale ha assunto dimensioni storiche, l'indebitamento complessivo americano è arrivato a sfiorare i trenta mila miliardi, la dipendenza dal petrolio estero per i fabbisogni energetici è salita al 60%, la concorrenza economica e finanziaria dei paesi dell'Euro continua a scavare voragini nella bilancia commerciale e finanziaria. L'imperialismo Usa, tanto forte da un punto di vista militare mostra enorme debolezza su quello economico. È tanto debole da invocare una nuova risoluzione con la quale l'Onu ratifichi il dato di fatto, cioè che la conduzione economica e politica della ricostruzione irachena rimanga una questione americana, e che l'ente internazionale si accolli le spese organizzative e militari che il processo comporta. Il centro dell'impero non ha più uomini e risorse economiche per gestire i suoi interessi nella periferia e chiede aiuto alle sue condizioni.

Inoltre, tra poco più di un anno, ci saranno le elezioni e le quotazioni dell'amministrazione repubblicana non sono mai state così in basso. A parte le pesanti questioni economiche, l'indice di gradimento del presidente Bush è crollato sotto i colpi di due episodi che, in altre situazioni e con un'altra opposizione, lo avrebbero seppellito sotto una valanga di proposte d'impeachment. La prima riguarda il risultato della commissione d'inchiesta parlamentare sui fatti dell'11 settembre in cui si mettono in evidenza tutte le carenze delle Intelligence e del governo americani. Non si parla apertamente di corresponsabilità ma per chi è abituato a leggere i sottotesti il dubbio fa capolino da ogni parte. Sulla stessa questione, molto meno diplomatico è stato invece l'intervento di un'organizzazione di ex agenti Cia e Fbi che ha apertamente denunciato la corresponsabilità del governo e dei vertici delle più importanti Intelligence. La seconda concerne il falso dossier sull'approvvigionamento di uranio da parte di Saddam. Menzogna a giustificazione della necessità della guerra che fa il paio con lo scandalo in cui è incappato in Inghilterra il governo Blair.

Posto in simili ambasce il governo Bush è obbligato ad ottenere un successo diplomatico internazionale, e la questione palestinese sembra essere al momento l'unico cavallo su cui salire. Ma dai Territori occupati a Kabul, da Baghdad a Najaf le risposte non sembrano arrivare, le bugie hanno le gambe corte e il fiato dell'imperialismo americano altrettanto. Purtroppo non sembra annunciarsi nemmeno un'opposizione di classe che incominci a spostare l'asse delle questioni dal terreno dell'anti imperialismo nazionalistico a quello rivoluzionario. Nei Territori occupati la disperazione delle masse è incanalata all'interno degli schemi reazionari dell'integralismo, in Iraq la rivolta anti americana non vede la presenza di nessuna formazione di classe. Il risorto partito comunista di ispirazione stalinista e il neo nato partito comunista operaio, oltre ad essere isolati dagli avvenimenti, si misurano sulle tematiche della democrazia post dittatura e non trovano strategicamente nulla di meglio che invocare l'intervento dell'Onu a garanzia del processo di democratizzazione borghese. Anche lì è tutto da rifare esattamente come nel vecchio continente.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.