La ripresa dell'economia che non c'è

È bastato che il Pil degli Usa facesse registrare per una paio di mesi consecutivi un trend in crescita perché tutte le previsioni, fin qui negative quando non del tutto catastrofiche, sul possibile andamento dell'economia mondiale, sia nell'anno in corso che nel prossimo futuro, lasciassero il posto alle più rosee aspettative. La voglia di ripresa è così forte che, salvo qualche rara eccezione, a nessuno viene in mente che possa trattarsi di un nuovo fuoco fatuo come è accaduto già nel 2002 e nel 2003, quando tutte le previsioni che davano per scontata e imminente la ripresa sono state clamorosamente smentite. Ormai non si discute d'altro che delle politiche economiche che sarebbe più opportuno adottare affinché la ripresa dagli Usa possa estendersi al resto dell'economia mondiale.

In Italia, per esempio, il presidente del consiglio Berlusconi e il sua fantasioso ministro del tesoro vorrebbero portare le aliquote Irpef a due soltanto in modo da ridurre drasticamente la pressione fiscale sui redditi medio - alti. Ciò dovrebbe produrre uno choc positivo e avviare quel circolo virtuoso secondo cui meno imposte sui redditi da capitale generano più investimenti che a loro volta, generando più occupazione, fanno crescere il monte salari e quindi i consumi e la domanda che a sua volta stimola nuovi investimenti e così via. È, insomma, la riproposizione della cosiddetta politica dell'offerta di nuovo in auge negli Usa. Altri, soprattutto nelle file dell'opposizione sostengono invece che per agganciare la ripresa è sì necessario ridurre le imposte, ma quelle che gravano su salari, stipendi e pensioni diminuiti talmente tanto negli ultimi decenni da aver provocato un vero e proprio blocco dei consumi. Minore imposte su salari stupendi e pensioni - essi sostengono - favorendo la ripresa dei consumi farebbero ripartire la domanda aggregata che a sua volta stimolerebbe nuovi investimenti e quindi nuova occupazione e così via; insomma, in un certo qual modo, propugnano il ritorno alla cosiddetta politica della domanda.

È comune a entrambi gli schieramenti, però, l'intento che sia se si interviene a sostegno della domanda sia dell'offerta, presentando i bilanci pubblici giganteschi deficit, prima di procedere alla riduzione delle imposte, è necessario intervenire sulla spesa pubblica e in modo particolare su quella previdenziale e assistenziale per recuperare le risorse necessarie a compensare la diminuzione del gettito fiscale. Non si tratta di un particolare di poco conto.

Rispetto allo schema classico keynesiano, qui è evidente che l'intervento dello stato non è finalizzato alla costituzione di una domanda aggiuntiva ex novo che operi da moltiplicatore degli investimenti, ma alla ristrutturazione della domanda aggregata a favore dei consumi privati. In termini di aggregati macroeconomici, infatti, cambia ben poco, nel senso che se da un lato stipendi, pensioni e salari crescono a causa della riduzione delle imposte, dall'altro tale crescita viene riassorbita dal maggiore costo che dovrà essere sostenuto per i servizi previdenziali e assistenziali tagliati; anzi è presumibile che proprio per questa ragione, quegli stessi servizi costeranno di più. Se si tiene conto di ciò, le due diverse opzioni di politica economica, in realtà, sono fra loro e nei loro contenuti, molto più simili di quanto appaia. In un modo o nell'altro, infatti, il risultato ultimo di entrambe è quello di aumentare quella che gli economisti borghesi chiamano "la redditività del capitale" e in fondo l'idea guida di entrambe è che se i capitali sono ben remunerati l'economia marcia e tutto va bene.

Per il pensiero economico borghese la distinzione fra crisi del ciclo di accumulazione e ciclo congiunturale (vedi al riguardo Prometeo n.6 - VI serie) consiste, in ultima istanza, nella loro diversa parametrazione temporale per cui gli è pressoché impossibile comprendere non solo che anche nell'ambito della fase discendente del primo si possono avere cicli congiunturali positivi e viceversa, ma che gli incrementi della redditività realizzati per queste vie, avendo natura congiunturale, non rimuovono le cause strutturali che determinano la diminuzione della redditività, quella cioè che più correttamente il marxismo chiama caduta del saggio medio del profitto.

Tutto cioè viene letto in relazione all'andamento della domanda e dell'offerta le cui oscillazioni, peraltro, sono in larga misura ricondotte alla psicologia dei soggetti economici cioè al grado di fiducia nel futuro che i cittadini hanno in quel determinato momento. I lavoratori, per esempio, consumerebbero di più o di meno non tanto in ragione del loro salario quanto delle aspettative future che essi nutrono: spenderanno di più se percepiscono che li attende un futuro di stabilità e di meno in caso contrario, come se queste percezioni e aspettative non dipendessero a loro volta dal reale andamento del ciclo economico e dal reale potere d'acquisto dei salari, ma dall'umore generale prevalente in quel dato momento.

Date queste premesse, è del tutto ovvio che si tenda a considerare il problema economico unicamente come un problema congiunturale e a ritenerlo risolto appena si registra qualche segnale di ripresa senza prendere in alcuna considerazione le ripercussioni che quelle stesse politiche che hanno favorito la ripresa hanno potuto avere sul processo di accumulazione del capitale; se cioè hanno favorito effettivamente la sua stabilizzazione con saggi medi del profitto in crescita al di là del particolare momento congiunturale o, al contrario, hanno determinano l'acutizzarsi acutizzarsi proprio di quelle contraddizioni da cui la crisi del ciclo deriva.

Da Keynes a Friedman

Come è noto, a ispirare l'intervento dello stato nell'economia allo scopo di costituire, mediante il finanziamento in deficit della spesa pubblica, una domanda aggiuntiva di merci capace di determinare un effetto moltiplicatore sugli investimenti per favorire il pieno impiego dei fattori della produzione (capitale e lavoro) è stato l'economista britannico Keynes. Le sue teorie fatte proprie, all'indomani della grande crisi del 1929, dai governi di quasi tutti i paesi industrializzati, a cominciare da quello statunitense, sono state applicate ininterrottamente fino a tutta la seconda metà degli anni 1970. Il lungo periodo di espansione dell'economia mondiale che si ebbe dopo la seconda guerra mondiale indusse molti economisti a ritenere che, grazie all'applicazione delle teorie keynesiane, il sistema capitalistico avrebbe potuto svilupparsi senza andare incontro ad altre crisi di ciclo e non ve ne era uno che non si dicesse keynesiano e non tessesse le lodi del professore d'Oltremanica. Tralasciavano, però, di prendere in considerazione quel piccolo particolare dato dal fatto che quella lunga fase espansiva arrivava solo dopo la più devastante e distruttiva guerra della storia moderna, che aveva causato milioni di morti e l'annientamento dell'apparato produttivo di tutti i contendenti fatta eccezione per quello statunitense.

La guerra con il suo carico di distruzione e morte aveva consentito l'avvio di un nuovo ciclo di accumulazione e non le politiche economiche adottate per la sua stabilizzazione. Si può finanziare in deficit tutta la spesa pubblica che si vuole ma se i saggi del profitto sono bassi, il ciclo del capitale D-M-D' è destinato prima o poi a collassate; infatti, proprio quando sembrava che il corso delle cose stesse confermando in pieno le teorie keynesiane, e un giorno sì e l'altro pure si celebravano i funerali del marxismo, esplose la crisi degli anni 1970 provocata proprio - come è ormai ampiamente documentato - dalla drastica riduzione dei saggi del profitto. Ne seguì una forte crescita della disoccupazione di tutti i fattori della produzione a cui si fece fronte incrementando ulteriormente la spesa pubblica, ma senza successo. Al posto della piena occupazione e della ripresa si ebbe una dilatazione senza precedenti del debito pubblico e l'insorgere di un processo inflazionistico come non si era più registrato dal 1929. Era la conferma che gli interventi mirati alla stabilizzazione del ciclo congiunturale nulla possono quando la rottura dell'equilibrio ha origine nel processo di accumulazione del capitale cioè quando al suo interno si determinano le condizioni per cui la caduta tendenziale del saggio medio del profitto non è più adeguatamente compensata dai meccanismi che si attivano in controtendenza.

L'insuccesso della ricetta keynesiana spalancò le porte alle teorie neoliberiste che l'economista statunitense Friedman già da qualche anno andava propugnando. Secondo Friedman l'origine della crisi era da ricercarsi proprio nell'intervento dello stato a sostegno della domanda. Oltre che generare troppi vincoli al libero agire delle forze del mercato, esso, implicando l'emissione di una massa crescente di titoli del debito pubblico a tassi di interesse via via più elevati, sottraeva capitali agli investimenti più propriamente produttivi e alimentava quella spirale fatta da inflazione, rincorsa salariale e rialzo dei tassi di interesse che minacciava di precipitare il sistema capitalistico in un baratro senza via di uscita come se il capitalismo non avesse conosciuto altre crisi prima che Keynes elaborasse le sue teorie e l'intervento dello stato nell'economia non si fosse reso necessario per fronteggiare la depressione del 1929.

Meno spesa pubblica, dunque, e più libertà per i capitali, anzi per questi la libertà doveva essere assoluta poiché la ricchezza, per Friedman - contrariamente a quanto sostenuto dalla teoria classica prima e poi meglio ripuntualizzato da Marx - si genera nella sfera della circolazione e non in quella della produzione delle merci grazie allo sfruttamento della forza-lavoro impiegata.

Benché il neo-liberismo presentasse enormi lacune teoriche e non spiegasse in alcun modo le cause della crisi, divenne la nuova religio del pensiero economico e ad esso ispirarono la loro politica economica prima in Gran Bretagna il governo conservatore di Margareth Tatcher e negli Usa quello del repubblicano Reagan e poi i governi di tutti i paesi del blocco occidentale. Ne seguì nei fatti la deregolamentazione dei mercati finanziari, una feroce politica di tagli alla spesa pubblica e in particolar modo di quella relativa alla previdenza e all'assistenza, lo smantellamento e la privatizzazione di molti servizi pubblici e, quel che più conta, un attacco senza precedenti alla struttura del mercato del lavoro con la distruzione del sistema della contrattazione collettiva e l'introduzione di forme di flessibilità nell'uso della forza-lavoro che determinarono una caduta verticale dei salari reali.

Il fatto che l'inflazione venisse contenuta e che fra alti e bassi la congiuntura economica facesse registrare momenti anche significativi di ripresa, soprattutto negli Usa nella seconda metà degli anni 1990, come era già accaduto quando il keynesismo era in auge, scatenò la fantasia, in verità povera degli economisti borghesi, e di nuovo si udirono peana sulla fine dell'andamento ciclico dell'economia e messe funebri in memoria del marxismo.

La ripresa nella seconda metà degli anni 1980 e l'andamento travolgente dei mercati borsistici nella seconda metà degli anni 1990, nonostante che non vi corrispondesse un'altrettanto travolgente crescita della produzione e dell'occupazione nei settori industriali in senso stretto, furono letti come l'approdo del capitalismo a una nuova fase in cui la produzione della ricchezza coincideva non tanto con quella delle merci tradizionali (old economy) quanto con quella delle cosiddette merci immateriali che, figlie delle nuove tecnologie informatiche, non incorporavano tanto tempo di lavoro, ma sapere: era cioè nato un nuovo capitalismo, il cosiddetto capitalismo cognitivo...

La voglia di trionfo (peraltro in quegli stessi anni crollava il capitalismo di stato sovietico comunemente ritenuto socialismo) era talmente forte che non si dava alcun peso neppure al fatto che alcuni parametri macroeconomici che, secondo la ricetta neoliberista, con l'abbandono della politica della domanda avrebbero dovuto subire significativi inversioni di tendenza, continuavano, quando non rafforzavano, il trend storico precedente. È il caso del debito e del disavanzo pubblici statunitensi che proprio durante la presidenza Reagan raggiunsero i loro massimi storici o dell'anomalia costituita dalla rivalutazione del dollaro contemporaneamente alla crescita delle importazioni e del deficit della bilancia commerciale. L'anomalia, che in realtà poteva facilmente essere spiegata se solo si fosse tenuto conto del fatto che per la prima volta nella storia una potenza imperialistica, gli Usa, era riuscita a imporre un sistema di pagamenti internazionali basato su biglietti non convertibili (vedi al riguardo i numerosi articoli apparsi su questa stessa rivista) traendone una gigantesca rendita finanziaria, anziché essere esaminata criticamente in quanto tale veniva invece assunta come una conferma che i parametri macroeconomici che la rilevavano erano ormai superati e non rappresentavano più la realtà del nuovo capitalismo. Né maggiore attenzione destava il fatto che a fronte di un processo di centralizzazione della ricchezza in poche mani senza precedenti, i salari reali subivano un tracollo generalizzato reso meno evidente dal fatto che molti dei tagli riguardavano il salario differito (pensioni ecc.) o quello indiretto (tagli dei servizi e della spesa assistenziale) mentre lo schema neoliberista prevedeva l'una e l'altra cosa insieme.. Infine, in nessun conto venivano tenute le crisi finanziarie che si susseguivano come mai in passato e che, uno dopo l'altro, misero in ginocchio - per citarne solo alcuni - paesi come il Messico, il Brasile, la Russia l'intero Sud-est asiatico e perfino il Giappone.

In definitiva, non si teneva in alcun conto che la ripresa non scaturiva da un effettiva inversione di tendenza dell'andamento dei saggi medi del profitto ovvero - per usare il linguaggio dell'economia politica borghese - da una ripresa della "redditività" del capitale soprattutto negli Usa, ma essenzialmente dalla compressione dei salari reali ottenuta sia mediante l'attacco alle condizioni di vita del proletariato internazionale sia mediante l'intensificazione dello sfruttament6o della forza-lavoro sia mediante lo sviluppo delle forme di appropriazione parassitaria di plusvalore (che in quegli anni grazie alla deregolamentazione e l'unificazione dei mercati finanziari raggiungeva il suo apice) che, per essere tale, consente alle economie più forti di appropriarsi di quote di plusvalore estorto nell'ambito dei processi produttivi dei concorrenti più deboli e di scaricare così su questi parte dei costi della crisi stessa. Nonostante la significativa ripresa dei saggi del profitto registrata fra il 1985 e il 1995 (soprattutto nella seconda metà del decennio), essi non sono, infatti, più tornati sui livelli precedenti l'esplosione della crisi.

Soprattutto negli Usa - scrive l'economista Robert Brenner su La Rivista del Manifesto - così come in Giappone e in Germania, i tassi di profitto realizzati nell'economia privata durante il ciclo degli anni novanta non erano riusciti a superare quelli degli anni settanta e ottanta, i quali, a loro volta, erano ben al di sotto di quelli realizzati durante il lungo boom del dopoguerra fra la fine degli anni quaranta e la fine degli anni sessanta. Di conseguenza, i risultati economici nei paesi a capitalismo avanzato nel loro insieme (G7), espressi dai normali indicatori macroeconomici, non furono migliori di quelli degli anni ottanta, i quali, a loro volta, erano peggiori di quelli degli anni settanta, che già erano peggiori di quelli del ventennio precedente.

R. Brenner - Nuovo Boom o nuova bolla? - La Rivista del Manifesto - n.49 - aprile 2004

Era, dunque, del tutto evidente che come le politiche di sostegno alla domanda anche quelle di sostegno dell'offerta, per il loro carattere congiunturale, nulla potevano contro la caduta dei saggi del profitto dato che la sua causa è intimamente connessa non tanto con gli alti e bassi del mercato, quanto con il processo di modificazione della composizione organica del capitale, come descritto da Marx.

In realtà la politica dell'offerta si è configurata sostanzialmente come l'attacco più violento al valore della forza-lavoro in questo secondo dopoguerra. Poiché ciò non è stato comunque sufficiente a ripristinare adeguati saggi di profitto capaci di riassorbire nella sfera della produzione i capitali supplementari che via via si formavano, all'accumulazione reale si è aggiunta fino, a volte, a superarla una sorta di accumulazione fittizia basata sulla crescita dei mercati borsistici e perciò ineluttabilmente destinata al collasso.

Nella primavera del 2000, quando è apparso a tutti evidente che non vi era alcuna corrispondenza fra i valori dei titoli azionari finanziari e i famosi "fondamentali" economici delle imprese, i mercati azionari, a cominciare da Wall Street, si sono avvitati su loro stessi e da allora non si sono più ripresi. Solo ora, e solo di qualche punto percentuale e solo negli Usa il Pil ha mostrato segni di ripresa. Ma si tratta di un fuoco fatuo senza prospettive durature.

La cura neoliberista, infatti, non solo non ha risolto il problema del saggio del profitto, ma per molti versi lo ha aggravato.

Quando le azioni decollarono - scrive ancora nell'articolo già citato R. Brenner - le società - specialmente nel settore delle tecnologie dell'informazione - si ritrovarono con una facilitazione senza precedenti dell'accesso alla finanza, sia nella forma di emissioni di azioni che attraverso prestiti ottenuti a fronte di ricapitalizzazioni delle loro azioni... Mentre durante il periodo del dopoguerra le società si erano finanziate quasi interamente con gli utili non distribuiti (ossia con il profitto al netto degli interessi e dei dividendi), ora le aziende che non potevano ricorrere al credito a basso costo si rivolsero per finanziarsi al mercato azionario fino a un livello prima inconcepibile... Fra il 1995 e il 2000 prese forma un poderoso boom, segnato da un'accelerazione della produzione, della produttività, dell'occupazione e, alla fine, dall'aumento del salario reale [che, però, superò di poco i livelli del 1973 - ndr] Tuttavia questo boom dipendeva quasi interamente da una rapida ascesa dei corsi di Borsa che non aveva nessuna base di sostegno sui profitti delle società... L'estensione e la profondità dell'eccesso di capacità furono assai estese, in particolare nelle industrie dell'hig-tech, e finirono con l'aggravare il declino della redditività. Nell'economia la ridotta crescita dei costi risultante dall'aumento della produttività fu più che compensata dalla decelerazione degli incrementi dei prezzi dovuta a un'offerta che correva più della domanda... Fra il 1997 e il 2000, quando il boom e la bolla raggiunsero il punto più alto, le società non finanziarie sostennero una caduta nel saggio di profitto di almeno un quinto.

Il crollo delle Borse e le sue conseguenze

Spesso, ancora oggi, si sente dire che la crisi è stata innescata dall'attacco alle Twin Towers del settembre 2001che avrebbe modificato le aspettative future ingenerando la contrazione dei consumi. Ma si tratta di una pura falsità.

Fra la seconda metà del 2000 (cioè un anno prima dell'attacco e subito dopo il crollo dei mercati finanziari - n.d.r.) e la prima metà del 2001 la crescita del Pil cadde dal 5 al -1% e l'investimento dal 9% al -5% - la caduta fu per entrambi più veloce che in ogni altro periodo del dopoguerra - gettando l'economia in uno stato di avvitamento.

R. Brenner - art. cit.

L'ulteriore conferma che la psicologia con la crisi c'entra come i cavoli a merenda ci è fornita anche dal rapporto annuale sugli investimenti nel mondo pubblicato dall'Unctad, l'apposita agenzia dell'ONU, nel settembre del 2003 dal quale si evince che dopo il picco raggiunto nel 2000 con 193 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri nell'insieme dei paesi del mondo si è passati a 824 miliardi di dollari già nel 2001e a 651 nel 2002 mentre per il 2003 - si legge nel rapporto - "i fasti del 2000 non si ripeteranno". In percentuale già nel 2001 il calo rispetto all'anno precedente è risultato pari al 40 per cento mentre nel 2002 del 21 per cento rispetto al 2001, l'anno dell'attentato.

Come si vede, nel settembre 2001, il gigantesco processo di sovraccumulazione che le politiche neoliberiste avrebbero dovuto - secondo i loro corifei - impedire e invece hanno favorito, era già giunto al culmine e le sue conseguenze erano già tutte sul tappeto. Basti pensare che nonostante il vistoso calo degli investimenti verificatosi dal 2000 in poi, ancora nel 2003, in tutti i paesi industrializzati, si registrava una forte sottoutilizzazione degli impianti industriali. Negli Usa, essa risultava scesa, a seconda dei settori fra il 74,4 2 il 72,5 per cento con un calo di ben 13 punti rispetto al 2000 quando fu raggiunto il picco massimo e di ben 7 punti rispetto alla media degli ultimi trenta anni.

Lo stato attuale delle cose e le prospettive

L'economia mondiale, bloccata dal lato della domanda a causa sia dei tagli feroci che vi sono stati a livello mondiale della spesa pubblica sia della forte compressione dei salari, che fra l'altro dopo l'effimero recupero avvenuto nel 2000 hanno fatto registrare una nuova caduta ritornando ai livelli del 1973, e dal lato dell'offerta a causa dell'ulteriore sovraccumulazione prodottasi in tutti gli anni novanta nonché dai bassi saggi del profitto, a più di trenta anni di distanza dall'inizio della crisi del ciclo di accumulazione iniziato dopo la seconda guerra mondiale, si trova, in realtà, in un cul de sac dal quale nessuno sa come venirne fuori; certamente non con la riduzione di qualche punto della pressione fiscale poco importa se a favore dei redditi medio-alti o di quelli più bassi, peraltro compensata da ulteriori tagli alla già falcidiata spesa pubblica né con qualsiasi altro eventuale intervento di tipo congiunturale. D'altra parte alcuni indicatori fanno pensare che anche negli Usa, dove nel primo trimestre di quest'anno è stata registrata una crescita del Pil del 4,4 per cento, già nella seconda metà dell'anno è prevista una sua riduzione al 3 per cento. All'Europa, invece, l'ultima previsione di...

Global Insight, assegna una crescita per il 2004 appena del 1,5 per cento e per il 2005 del 2,2, per cento. L'Italia, nel 2004, avrà invece una crescita che è poco più della metà di quella, già scarsa, dell'Europa: 0,8 per cento.

Ripresa Usa forse il meglio è già alle spalle - La Repubblica - Affari Finanza del 7/06/2004

Il quadro, insomma, è tutt'altro che roseo e diventa sicuramente fosco se si tiene conto sia del fatto che i dati relativi agli Usa sono sovrastimati per eccesso a causa del metodo di rilevazione statistica dell'andamento della produzione industriale e del Pil, sia che gli Usa dopo l'attentato alle Twin Towers hanno fortemente incrementato la spesa militare praticando una sorta di keynesismo di guerra che ha sicuramente contribuito a sostenere la congiuntura in quest'ultimo anno; ma che a causa della forte crescita del debito pubblico che ne è seguita, appare difficilmente sostenibile nel corso del tempo. Secondo molti esperti sarà sicuramente necessario contenerla già entro la fine del 2004 a meno che non si guardi proprio alla guerra come l'unica reale via di uscita dalla crisi: guerra imperialista, come quella che seguì la crisi del 1929, seppure combattuta in un contesto storico e in forme profondamente diversi.

Giorgio Paolucci

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.