Stretto nella morsa del debito il dollaro si fa più piccolo

Il dollaro si svaluta e gli investitori internazionali non sottoscrivono i titoli del debito pubblico statunitense.

Negli ultimi due anni il dollaro si è svalutato rispetto all'euro del 35%. Nel gennaio del 2002 per acquistare un euro erano necessari 0,81 dollari, nella seconda metà del mese di dicembre del 2004 un euro valeva 1.36 dollari. Una svalutazione di enormi proporzioni che sta profondamente modificando gli equilibri monetari e finanziari su scala internazionale. La continua svalutazione del biglietto verde sta minando quindi le basi del dominio statunitense sui mercati finanziari, con pesantissime ripercussioni nei precari equilibri interimperialistici.

Per l'economia statunitense svalutare la propria moneta è diventata una priorità imprescindibile a causa del pesantissimo deficit commerciale. La più forte potenza economica del pianeta presenta un disavanzo commerciale spaventoso. Bastano pochi numeri per capire le dimensioni delle difficoltà in cui si trova l'economia americana in relazione alla bilancia commerciale, la cui voce principale è data dalla partite correnti cioè l'insieme delle importazioni ed esportazioni di merci e servizi. Nel 2000, nel cuore dell'esaltazione per la crescita della produttività determinata dalla new economy, gli Stati Uniti presentavano uno squilibrio nella bilancia commerciale di 378 miliardi di dollari, diventati 422 nel 2002 per sfondare la soglia dei 700 miliardi di dollari nell'anno appena trascorso. Tale astronomica cifra rappresenta circa il 6% del prodotto interno lordo statunitense, una percentuale assolutamente insostenibile per tutte le altre economie del pianeta, ma non per gli Usa che, grazie al loro potere imperialistico-militare, hanno potuto finora far fronte a tale disavanzo drenando capitali da ogni angolo del pianeta..

Dalla fine degli anni novanta gli Stati Uniti si trovano nella non facile situazione di veder crescere parallellamente sia il deficit commerciale che il proprio deficit pubblico. Se si esclude una brevissima parentesi durante il secondo mandato di Clinton, in cui il bilancio federale ha registrato un avanzo pari al 2,4% del Pil, a partire dagli anni settanta gli Stati Uniti hanno dato l'avvio ad una politica economica d'incremento del deficit di bilancio. Con l'ascesa alla Casa Bianca di Bush & C. in pochissimi anni la situazione si è completamente deteriorata, tanto che per il 2004 il Congressional Budget Office stima un deficit pari al 3,6% del prodotto interno lordo. La crescita del deficit federale, alimentata in misura determinante dalla necessità di finanziare le guerre per il controllo del mercato del petrolio in Afghanistan e in Iraq, ha modificato la destinazione dell'afflusso di capitali dall'estero. Mentre, nella seconda metà degli anni Novanta, i capitali provenienti dall'estero hanno finanziato quasi esclusivamente gli investimenti nelle attività produttive, nell'ultimo triennio il progressivo deterioramento dei conti pubblici ha fatto sì che tali risorse venissero destinate a copertura del disavanzo pubblico. Lo spostamento dei capitali provenienti dall'estero da un settore produttivo verso il finanziamento del deficit pubblico produce effetti negativi sugli investimenti e quindi sulla capacità concorrenziale delle imprese americane. In sostanza il deficit pubblico assorbe quelle risorse che potrebbero essere utilizzate per ristrutturare l'apparato produttivo e rilanciare l'economia reale americana. In altri termini il deficit pubblico produce effetti negativi sul deficit commerciale in quanto rende poco competitive le merci statunitensi sui mercati internazionali.

La necessità di svalutare la propria moneta è dettata in primo luogo dalla necessità di bloccare l'emorragia del deficit commerciale ma anche di svalutare il proprio deficit estero. Per tutti gli altri paesi la svalutazione della propria moneta comporta una rivalutazione del debito con l'estero in quanto tale debito si esprime in una valuta differente della propria. Per l'Argentina la svalutazione del peso ha comportato che il proprio debito con l'estero si apprezzasse in misura proporzionale alla svalutazione della propria moneta, in quanto il debito estero era espresso in una moneta diversa, nel caso particolare in dollari americani. La stessa cosa accadeva negli anni passati in Italia ogni qual volta si svalutava la lira. In sostanza un paese che svaluta la propria moneta apprezza il proprio debito con l'estero. Per gli Stati Uniti questo tipo di discorso non vale in quanto il debito con l'estero è sempre espresso in dollari, quindi una svalutazione del dollaro determina una svalutazione del proprio debito con l'estero. Per esempio i sottoscrittori di titoli di stato americani del dicembre del 2001 che riscuoteranno la loro cedola a gennaio del 2004 si troveranno tra le mani dollari che valgono ben il 35% in meno rispetto al momento della sottoscrizione. Grazie al dominio del dollaro sui mercati monetari gli Stati Uniti sono stati finora in grado di far fronte ai contraddittori problemi che pongono i due deficit gemelli, quello commerciale e quello con l'estero. Ma ora le contraddizioni stanno arrivando al pettine. Nello scorso mese di dicembre sono stati resi noti i risultati relativi alla sottoscrizione dei titoli del debito pubblico statunitense. Per la prima volta nella loro storia si è verificato un calo stimabile intorno al 20% nella raccolta di finanziamenti dall'estero. Gli Stati Uniti si trovano nella non invidiabile condizione di non trovare sottoscrittori del proprio debito pubblico. La crescita del debito, ma soprattutto l'affermarsi dell'euro sui mercati internazionali ha posto all'ordine del giorno una valida alternativa al dominio assoluto del dollaro. In questi ultimi anni il calo del dollaro è stato sostenuto soprattutto dalle banche centrali straniere che si sono di fatto sostituite agli investitori privati. Circa il 60% del debito pubblico statunitense è in mano alle banche centrali. Tra queste una quota crescente, che nel 2003 ha raggiunto il 70%, è sottoscritta dalle banche centrali giapponese e cinese, impegnate a sostenere il dollaro per evitare una riduzione delle proprie esportazioni verso gli stati Uniti ma anche per non veder completamente svalutato il proprio credito. Ora che sui mercati monetari internazionali esiste una moneta alternativa al dollaro come l'euro le banche centrali di molti paesi stanno velocemente modificando la struttura delle riserve valutarie. Anche i paesi dell'Opec sono alle prese con una politica d'aggiustamento delle proprie riserve valutarie: in essi, dal 2001 ad oggi la quota delle riserve denominata in dollari è scesa dal 75% al 61%.

Finora gli Stati Uniti grazie al loro strapotere finanziario e monetario sono riusciti a consumare molto di più di quanto riescano a produrre, tanto che importano merci per un valore superiore dell'80% a quello delle merci che esportano. Inoltre pagano queste merci non con delle risorse proprie ma ottenendo dei prestiti dall'estero. Ora la situazione è diventata tale che gli 11 mila miliardi di dollari che hanno in mano i loro creditori nel mondo, non solo rischiano di diventare carta straccia a causa della continua svalutazione del dollaro, ma rappresentano una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in qualsiasi momento, trascinando nel vortice della crisi non solo gli Stati Uniti ma tutto il sistema economico e finanziario internazionale.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.