Terrorismo e democrazia, l'ultima frontiera dell'imperialismo

Ecco l'ultimo ritornello: lotta al terrorismo per la democrazia, ma quale democrazia?

Quella che si fonda sullo sfruttamento della forza lavoro, che impoverisce il proletariato erodendogli progressivamente la sanità, le pensioni, il livello di vita attraverso l'intensificazione della giornata lavorativa e la diminuzione del potere d'acquisto; che garantisce per il futuro soltanto disoccupazione e precarietà. Quella democrazia che si propone militarmente sulla scena internazionale come feroce predatrice delle materie prime strategiche. Che usa il terrorismo sino a che è coincidente con i propri interessi e lo combatte solo quando gli obiettivi non coincidono più. Che si propone come fautrice e garante del liberismo economico pretendendo l'abbattimento delle barriere ai suoi capitali e alle sue merci, mentre pratica il protezionismo all'interno del suo mercato. Che blatera di concorrenza sleale nei confronti di quei paesi che hanno un costo del lavoro molto più basso, senza sindacalizzazione e tutele della forza lavoro, per poi rincorrere quelle stesse situazioni attraverso la delocalizzazione della propria produzione e dell'investimento dei suoi capitali. Quella democrazia che impone ai paesi arretrati, attraverso il Fmi, politiche virtuose come le priva-tizzazioni, bilanci pubblici positivi, restrizioni d'ogni sorta verso i lavoratori, e contemporaneamente si esprime economicamente con una serie impressionante di deficit che la porrebbero al di fuori di qualsiasi contesto sociale internazionale. Una democrazia che si permette il lusso, in nome dell'antiterrorismo, di praticare le azioni più odiose e violente nei confronti delle popolazioni civili dei paesi che invade, consentendo ai propri militari di praticare qualsiasi atto di violenza, torture, pulizia etnica e terrorismo, senza dover rispondere ai tribunali penali internazionali, perché i soldati americani possono rispondere solo alla magistratura civile americana o al suo corrispettivo militare. Quella democrazia che, non firmando gli accordi di Kyoto, per altro molto blandi, contribuisce ad inquinare il mondo ma che non vuole pagare dazio perché troppo elevato per la competitività delle sue imprese. Quella democrazia che rincorrendo i suoi interessi e gestendo in campo internazionale le sue contraddizioni, sta trasformando il mondo in uno scenario di guerre e di barbarie infinita.

È in nome di questa democrazia che si fanno le guerre preventive creando decine di migliaia di vittime civili sui teatri esteri, lasciando sullo scenario interno quasi cinquanta milioni di cittadini che sopravvivono sotto la soglia della povertà; che si torturano i prigionieri prima ancora di sapere se appartengono allo schieramento avversario o se sono dei semplici cittadini caduti nelle retate della repressione militare. È sempre in nome di questa democrazia del profitto, da raggiungere subito e a tutti i costi, che si conquistano gli obiettivi economici con l'uso della forza, inscenando tragedie belliche barbariche in un'orgia di sangue e di morte.

La singolare menzogna dell'esportazione della democrazia, (quale democrazia e di chi?) attraverso l'orribile concetto della guerra preventiva al terrorismo, non è servita al governo americano soltanto per giustificare gli attacchi all'Afghanistan e all'Iraq, ma è stata ed è di supporto alla fase attuale del suo imperialismo in tutte quelle situazioni, politiche, geografiche e di qualsivoglia mercato internazionale in cui pulsano, prepotenti, i suoi interessi strategici.

La gestazione prima, e l'attuazione poi, di un simile atteggiamento di feroce aggressività, hanno avuto nella crisi economica il loro ambiente di crescita. Già nella seconda parte degli anni novanta, ma con particolare progressione negli anni duemila, l'economia americana vive di una situazione straordinaria per intensità e vastità della sua crisi.

Persa nei decenni precedenti la sfida sulla competitività con l'Europa e il Giappone, e in tempi recenti anche con la Cina, indebitata sino al collo, sommando i debiti contratti con l'estero, quelli delle famiglie e delle imprese si arriva ad oltre il 300% del Pil. Sempre più dipendente per i suoi fabbisogni energetici dal petrolio internazionale (70%) e bisognosa di tre miliardi di dollari il giorno per fare fronte alle necessità di finanziamento dei suoi apparati economico-produttivi, tra cui quello militare che appare per essere una voragine senza fine, l'America non ha trovato di meglio che imporsi con la forza su tutti i terreni d'interesse vitale.

In primo luogo il mercato del petrolio, che è stato letteralmente devastato dalle incursioni militari made in Usa, poi la necessità di continuare ad imporre il ruolo dominante del dollaro sui mercati finanziari internazionali, di giocare a piacimento sui tassi d'interesse per consentire l'afflusso di capitali verso i centri finanziari americani (1), ed infine costringere gli alleati e/o nemici a subire ogni sorta di decisioni e di accontentarsi delle giustificazioni addotte, anche se rozze e poco credibili.

Il tutto prende le mosse dall'11 settembre che per il governo Bush sarebbe la causa prima di ogni reazione, la madre di tutte le legittimazioni, il perno attorno al quale ruota la lotta al terrorismo internazionale. Il primo passo armato è stato quello della guerra in Afghanistan, già decisa ben prima dell'11 settembre, il secondo quello contro il regime di Saddam Hussein, che con il terrorismo internazionale e con al Qaeda non aveva legami di sorta. Da quel tragico momento, nell'esecuzione del quale le responsabilità del governo americano e delle sue maggiori Intelligence sono apparse chiaramente, ogni atto d'opposizione alla ferocia militare dell'imperialismo americano è stata etichettata di terrorismo.

Fatta l'equazione: terrorismo uguale al male assoluto, ogni opposizione agli obiettivi strategici di Washington si configura come terrorismo, quindi ne discende la legittimità di combatterlo e di annientarlo con tutti i mezzi possibili, legittimi e illegittimi, in una sorta di delirio d'onnipotenza militare dietro la quale si nasconde l'enorme debolezza di un sistema economico e sociale in verticale decadenza. Il conseguente corollario, buono per tutte le stagioni, e particolarmente funzionale all'attuale guerra in Iraq, è che non esistono opposizioni alla guerra, ai governi fantoccio che vivono grazie alla presenza militare delle forza d'occupazione, ma solo terroristi che devono essere sterminati senza pietà in ogni dove, senza lesinare mezzi, torture e migliaia di morti civili, quali inevitabili effetti collaterali.

La ferocia dell'imperialismo si serve del terrorismo per giustificare la propria barbarie senza dare spazio e legittimità a qualsiasi forma di opposizione. Il che non significa che il terrorismo non esista, che non vada denunciato e, nei dovuti modi, combattuto. D'altra parte chi si sentirebbe, in nome di qualsiasi ideologia, di difendere, di coprire politicamente o moralmente giustificare, gruppi e organizzazioni che per i propri fini uccidono civili, vecchi, donne e bambini, facendo del loro operato un'inumana carneficina d'innocenti? E qualora ciò accadesse, il terrorismo creerebbe, nel lungo periodo, esattamente il contrario di quello che vorrebbe ottenere in termini d'adesioni alla sua strategia.

Ma la questione è un'altra, è che si confondono volutamente i concetti di terrorismo con quelli di lotta di liberazione nazionale, di guerra civile o di rivoluzione, per screditare tutti i movimenti sociali addossando loro la negativa definizione di pratica del terrore. Va quindi definito, in prima istanza, che cosa si debba intendere per terrorismo e per legittima difesa da un esercito d'invasione, indipendentemente, per il momento, dal contenuto ideologico e programmatico del concetto di difesa. Successivamente occorre verificare come, atti di terrorismo, possano anche fare parte dello scontro tra occupanti e occupati, ed infine com'esista un terrorismo di stato, che tale non è mai definito, solo perché prodotto da un esercito regolare, oltretutto occultato dal sofisticato sistema informativo dei media.

Per una distinzione tra terrorismo e guerriglia

Per non rimanere ad un alto livello di astrazione, riportiamo la questione all'interno di un quadro reale e ben definito, la guerra in Iraq. Ogni giorno, da due anni e mezzo, assistiamo al solito ritornello che i terroristi uccidono i civili, sono contro il legittimo governo e il processo di democratizzazione. Della guerriglia e dell'opposizione nessun cenno. È lo stesso diritto borghese internazionale, pur nei termini ad esso congeniali, che disciplina chiaramente la materia ed è altresì presente negli articoli dell'Onu e di altre organizzazioni internazionali.

In questo caso ci piace prendere in considerazione le definizioni che sono fornite dall'ISTRID, Istituto studi ricerche informazioni difesa, cioè di un istituto del governo italiano, che non può essere spacciato per un covo di sovversivi. Per quanto riguarda la definizione di terrorismo si dice: Il terrorismo non esiste come dottrina o programma politico, ma soltanto come un "modo d'azione violenta" utilizzato da singoli, da gruppi organizzati e talora anche da forze armate. Questo tipo d'azione violenta, avente come caratteristica specifica di colpire civili estranei al conflitto è sempre da considerare come atto criminale, indipendentemente dallo status dei suoi operatori. E questo vale ovviamente anche per le operazioni terroristiche eseguite da una forza armata "regolare" contro la popolazione civile di un territorio occupato in seguito ad azione bellica o di uno stato nemico.

Per ciò che concerne la definizione di guerriglia si sottolinea che: Trattandosi di condizione di conflitto in corso, nessuna delle azioni armate in territorio irakeno rivolta contro le forze armate occupanti (Uk-Usa) o di paesi collaboratori può considerarsi terroristica, ma di guerriglia anche se eseguita in modo criminale. Sembrano semmai da classificare come terroristiche (almeno secondo le definizioni anche Usa prima ricordate) le azioni compiute dagli occupanti contro la popolazione civile se colpiscono la vita e le proprietà di civili (uccisioni a posti di blocco, bombardamenti, distruzioni, saccheggi, sequestro di persone ecc.). Ogni altra considerazione sarebbe superflua se non si cozzasse continuamente sulla falsità dell'impostazione del problema. Perché mai la popolazione civile dovrebbe essere oggetto dell'infamia del terrorismo, perché inermi cittadini, donne, uomini, entrano nel mirino della morte, se non dello sterminio? Le risposte sono molte, elenchiamone le più importanti.

  1. Come atto esemplare per incitare stra-tificazioni sociali alla lotta oppure per terrorizzare, intimidire, indurre cioè all'acquiescenza.
  2. Per fare quadrato attorno alle istituzioni, quelle esistenti e quelle a venire, addebitando la responsabilità degli atti terroristici o delle stragi all'avversario politico
  3. Per terrorizzare la popolazione perché abbandoni il territorio da occupare militarmente
  4. Per questioni di pulizia etnica
  5. Per stanare i guerriglieri e/o reprimere qualsiasi forma d'opposizione attraverso i bombardamenti di villaggi e città
  6. Come strumento di rappresaglia contro la popolazione rea o sospettata di aiutare la guerriglia.

È chiaro sino all'evidenza che, se si accetta questa definizione formale di terrorismo, sono tali tutte le azioni che abbiano come obiettivo la popolazione civile e che simili pratiche possono essere usate sia dalle forze occupanti sia da quelle sia subiscono l'occupazione. Si può essere cioè terroristi tout court, o usare tattiche terroristiche sia appartenendo ad una forza regolare sia di guerriglia. Con una sostanziale differenza, che mentre per la guerriglia, per qualsivoglia movimento nazionalista, l'eventuale atto di terrorismo contro civili (giornalisti di regime o ritenuti tali, uomini appartenenti al governo fantoccio, civili che si vogliono iscrivere alle liste dell'esercito o della polizia) si configura come atto di lotta contro i simboli e gli strumenti dell'occupazione, al contrario la strage di migliaia di civili durante l'assedio e la distruzione d'intere città, la pulizia etnica e/o religiosa, la tortura dei prigionieri, le esecuzioni sommarie, il calcolato abbattimento di abitazioni civili con relativi abitanti dentro con lo scopo di tagliare l'erba sotto i piedi all'opposizione, sono per ferocia e intensità ben altra cosa e ben più grave.

Un'altra considerazione che va fatta è che, quando esiste un'enorme sproporzione nelle forze in campo tra l'esercito d'occupazione e la guerriglia, l'arma dell'attentato, dell'azione irregolare è molto spesso l'unica possibile per la seconda, mentre è volutamente scelta e proditoria l'azione contro civili per il primo. L'aspetto scandaloso è che, sempre rimanendo nella definizione borghese di terrorismo, l'imperialismo è la massima espressione del terrorismo, che a sua volta produce un terrorismo di difesa, in una spirale di violenza e di barbarie senza fine. Sono le due facce della medesima moneta capitalistica. Che poi siano gli Usa ad apostrofare di terrorismo chi ne è la vittima principale, è da ascrivere all'enciclopedia dei paradossi.

Sono tragicamente note le responsabilità americane nella guerra del Vietnam, l'uccisione di milioni di civili, interi villaggi bruciati con il napalm, l'uso di armi chimiche e le torture nei confronti degli arrestati. Le bombe di Hiroshima e Nagasaki, con quel tragico fardello di morti e di nascite malformate che ancora oggi si producono nella società giapponese. E poi su, su sino a Nassiriya, Guantanamo e Abu Graib, in una spaventosa teoria di massacri e di torture. In una recente intervista Mc Namara, ex ministro della difesa ai tempi di Kennedy e uomo di potere trasversale a tutte le amministrazioni, dichiara che:

se avessimo perso la guerra, saremmo stati incriminati per crimini contro l'umanità.

La guerra l'hanno vinta, nessuna condanna si è abbattuta sul governo americano, i crimini e il terrorismo di Stato sono continuati ma con la variante che, a tacciare di terrorismo e di crimini contro l'umanità, sono proprio coloro che ne fanno uso quotidiano.

L'uso strumentale del terrorismo e le sue risposte

Oltre all'utilizzo del termine terrorismo per screditare ogni forma di risposta all'occupazione, l'imperialismo Usa, ma non soltanto, ha strumentalmente operato per la nascita o per il rafforzamento di organizzazioni terroristiche, solo poi definite tali. Se n'è servito a piene mani nelle operazioni palesi od occulte, le ha armate, finanziate e, molto spesso, le ha politicamente difese e giustificate. Quando, poi, le ha abbandonate o se le è trovate contro, ha gridato alla guerra santa contro di esse, in un gioco delle parti tanto tragico quanto grottesco. È successo nell'epoca della guerra fredda quando il nemico era il falso comunismo, è proseguito nell'epoca successiva contro il terrorismo.

Gli interessi imperialistici erano sempre gli stessi, cambiavano soltanto i competitori e l'aggravamento delle condizioni economiche interne. Prima era la lotta contro l'impero del male che mistificava il perseguimento dei suoi interessi strategici con alleanze ambigue, da non rendere note; poi la guerra al terrorismo per la democrazia è diventata il paravento dietro il quale nascondere le difficoltà economiche e la conseguente aggressività militare. Il pre e il post guerra fredda hanno visto cambiare gli equilibri imperialistici, i protagonisti, le aree e le fonti di materie prime d'interesse strategico ma non le necessità d'accumulazione del capitale, se non nella loro intensità.

Un esempio su tutti, i rapporti con il terrorismo musulmano, con al Qaeda, Bin Laden e con i talebani. Nella fase della guerra in Afghanistan contro il regime filo-sovietico di Kabul, il governo americano ha armato, finanziato il movimento integralista dei Mujaheddin di Massud e compagni, nelle cui fila militava Bin Laden. Il tipo di guerra che combattevano contro il governo di Kharmal prima e di Najibullah poi, era prevalentemente improntato ad azioni che colpissero sia obiettivi militari che civili. A milioni tra la popolazione afgana, sono fuggiti in Pakistan e nei paesi confinanti. L'azione contro le popolazioni civili aveva lo scopo di conquistare i terreni abbandonati, di estendere e dilatare geograficamente la nuova sovranità rosicchiando zone e aree al governo ufficiale, imponendo la sharia quale fonte di diritto primario. Quel tipo d'integralismo e di terrorismo, in quel periodo e in quella situazione di guerra fredda contro l'imperialismo sovietico, erano funzionali agli interessi americani nell'area dell'Asia centrale.

Crollata l'Urss e apertasi la possibilità di mettere la mani sui giacimenti petroliferi del mar Caspio, attraverso la costruzione e il controllo di una serie di gas/oleodotti, occorreva dare quella stabilità sociale all'Afghanistan che il governo di Massud e Rabbani non erano riusciti a dare. È cosi che il governo di Washington si rivolge ad un integralismo e terrorismo ancora più efferati, quello dei talebani. Armi e finanziamenti arrivavano all'esercito dei talebani attraverso l'Isi, il servizio segreto pachistano, dietro gli stanziamenti del governo americano e della compagnia petrolifera Unocal, che era la maggiore interessata alla costruzione delle pipe lines. Ma nemmeno il governo talebano si è mostrato all'altezza della situazione. Il parziale controllo del territorio, solo il 60%, da parte del mullah Omar, la presenza di Massud nella Valle del Panshir, da cui muoveva per episodi di guerra civile, le pressioni della Unocal perché il governo americano facesse qualcosa, hanno spinto la Casa Bianca a prendere le distanze dai talebani, a ripescare come alleati i vecchi Mujaheddin per combattere il vecchio governo e a tacciare di integralismo e di terrorismo i vari Bin Laden, il mullah Omar e tutto il movimento dei talebani che essa stessa aveva contribuito a insediare al potere, decisione assunta, ben inteso, prima del 11 settembre.

Diversi sono stati i rapporti con Osama Bin Laden. Il sodalizio tra il governo americano e il petroliere saudita è durato in termini simbiotici sino alla guerra del Golfo. Poi Osama, e la già costituita Al Qaeda, che sino a quel momento aveva operato sul terreno terroristico all'interno del movimento dei Mujaheddin sotto il controllo Usa, ha incominciato a prendere le distanze dal suo alleato, ritenendo che la presenza delle truppe americane in Arabia Saudita fosse un insulto alla religione musulmana e, soprattutto, agli interessi petroliferi suoi e della sua famiglia. Da quel momento in avanti l'operatività terroristica di Osama e di Al Qaeda ha continuato ad esprimersi, non più a favore degli Usa ma contro di loro e contro il loro tentativo di gestione dell'area petrolifera più importante del pianeta. Il terrorismo era sempre lo stesso ma è diventato tale nell'opinione pubblica mondiale solo quando non serviva più gli interessi americani ma, addirittura, gli si rivolgeva contro.

Di simili esempi sono pieni gli archivi storici. Il terrorismo, nell'accezione ufficialmente assunta da parte di chi lo usa a seconda dei casi, è tale soprattutto quando, provocato nell'atto stesso della sua nascita quale fenomeno sociale di risposta ad un'invasione o alle manovre di qualsiasi imperialismo, va contro gli interessi dell'aggressore. Chi si difende è terrorista, non tanto per i suoi metodi di lotta quanto perché si erge contro i disegni dell'imperialismo. I vari governi americani non hanno mai definito terroristi le squadre della morte che operavano negli anni ottanta in Nicaragua e in Honduras. Si sono ben guardati dall'applicare la definizione di terrorismo di stato nei confronti delle dittature latinoamericane o dell'alleato Israele. In compenso hanno tacciato di simili comportamenti tutte quelle organizzazioni che hanno osato rispondere alle aggressioni loro e degli alleati di turno. Nel più recente elenco delle organizzazioni che cadono sotto quest'infamante definizione troviamo, tra gli altri, solo per rimanere all'interno dell'area medio orientale, la Jihad islamica, gli Hezbollah libanesi, Hamas con il corollario d'organizzazioni minori ma che si muovono sul medesimo terreno di lotta nazionalistica.

La Jihad nasce all'indomani della guerra dei sei giorni come risposta all'occupazione dei territori palestinesi da parte dello stato d'Israele. Che alla base della sua impostazione ideologica ci sia la reazionaria concezione del fondamen-talismo è storia che attiene alle forme politiche di varie borghesie che hanno voluto sfruttare, a piene mani, il sentimento religioso delle masse tra le più diseredate di tutta l'area. Resta il fatto che una simile organizzazione nasce e si sviluppa in senso nazionalistico dopo l'aggressione mini-imperialistica d'Israele, sorretta dal mega-imperialismo americano.

Analogo è il discorso per gli Hezbollah. La formazione integralista libanese nasce come risposta all'invasione della Galilea libanese, nel 1982, da parte di Israele e ancora una volta è politicamente difesa dall'imperialismo americano, anche in occasione della responsabilità morale delle stragi di Sabra e Shatila.

Per Hamas il trattamento non è stato diverso. Che simili organizzazioni usino anche l'arma del terrorismo quale prassi di combattimento contro l'aggressore, nulla toglie che siano il prodotto dell'imperialismo stesso e non il contrario; non sono gli Usa o Israele costretti ad intervenire per sedare anomale situazioni internazionali, bensì le reprimono dopo averle provocate. Le prime sono la risposta nazionalistica all'aggressività dell'imperialismo e non il contrario.

La falsificazione dei ruoli e delle definizioni arriva al suo paradosso con la questione irachena. Combattuta una feroce guerra petrolifera finalizzata alla predazione energetica del potenziale secondo produttore al mondo, spudoratamente basata su falsità talmente inconsistenti da sprofondare nel ridicolo, inventati due governi fantoccio, compreso l'ultimo, figlio di elezioni pilotate, massacrati almeno centomila civili, gli Usa hanno bollato di terrorismo, sin dall'inizio, tutte le opposizioni interne, da quell'integralista sciita a quella laica sunnita, come se non fosse possibile l'esistenza di qualsivoglia opposizione alla prepotenza dell'imperialismo. In questo scenario di strumentalizzazioni e falsificazioni non fa ovviamente testo che Allawi, capo del secondo governo fantoccio, uomo della Cia, durante il regime di Saddam fosse a capo di una rete operativa che seminava terrore tra la popolazione, metteva bombe nei mercati e nei luoghi pubblici per innescare una situazione di tensione, finalizzata a creare le condizioni per una rivolta popolare contro il satrapo mesopotamico.

Imperialismo, terrorismo due facce della barbarie capitalista

È nella logica naturale delle cose che un'aggressione imperialistica favorisca la nascita del suo antagonista: un'opposizione i cui contorni politico-ideologici dipendono dal percorso storico nazionale, dal grado di forza e coesione della borghesia indigena e dal livello di lotta di classe, qualora si esprima nelle forme che le sono proprie. Sia l'aggressione imperialistica sia l'opposizione possono usare l'arma del terrorismo, senza per questo rinunciare al loro ruolo e al perseguimento dei loro fini. La recentissima storia ci ha insegnato che la pratica del terrorismo non è appannaggio soltanto di piccoli gruppi, d'organizzazioni integraliste, di moti partigiani, di guerriglia nazionalistica ma anche di stati, di regolari eserciti d'occupazione.

Il terrorismo è però estraneo alla prassi della lotta di classe, ai movimenti rivoluzionari, anzi, questo tipo di violenza non ha nulla a che vedere con la lotta di classe e con gli obiettivi rivoluzionari, semmai ne sono le vittime. Sull'estraneità del terrorismo alla lotta di classe già ci siamo ampiamente espressi in altre occasioni. Il terrorismo, nell'accezione corrente di attacco alla popolazione civile, agli inermi e ai più deboli, è prassi tutta interna all'ideologia borghese, qualunque sia lo scenario di riferimento: quello di una borghesia aggressiva che dispiega il suo attacco, o quello di una borghesia nazionale che si difende.

Un autentico moto rivoluzionario, dovrebbe innanzi tutto fare i conti con la presenza dell'esercito invasore. Nessun movimento rivoluzionario, anche se in nuce potrebbe fare a meno di impegnarsi contro l'aggressività dell'imperialismo. Contemporaneamente dovrebbe fare i conti con la sua borghesia e i suoi obiettivi nazionalistici e i suoi metodi di lotta, terrorismo compreso.

La violenza di classe non deve essere confusa con la barbarie borghese. La seconda è violenza che si esprime contro tutto e tutti, contro la popolazione civile, contro lo stesso proletariato se osa alzare la testa; è sinonimo di decimazione e rappresaglia, il tutto per imporre il suo potere politico a salvaguardia del suo interesse economico. La prima nasce all'interno del proletariato, attinge forza e credibilità in tutti i settori della popolazione, deve operare per proporsi forza politica dominante anche verso le stratificazioni sociali diverse - piccola borghesia proletarizzata, strati assimilabili al proletariato - che immediatamente non seguono la strategia e il programma rivoluzionari ma che ad essi devono essere conquistati.

Azioni di barbarie come quelle di sgozzare, magari in diretta televisiva, giornalisti, civili che lavorano in imprese straniere, lavoratori che, pur di sopravvivere, sono costretti a subire lo sfruttamento del capitale straniero, se hanno come immediato risultato di entusiasmare una stretta cerchia di fanatici, alienerebbero alla lotta di classe ampie stratificazioni popolari e consistenti frange dello stesso proletariato, oltre ad essere ripugnante come prassi, pur tenendo conto dell'ambiente in cui maturano.

L'altro aspetto che rende il terrorismo, qualsivoglia sia la giustificazione ideologica, estraneo alla prassi della lotta di classe è che a compierlo sono pur sempre organizzazioni borghesi che si muovono sul terreno nazionalistico. Nell'esperienza libanese, palestinese ed irachena, tutte le organizzazioni nazionalistiche che combattono contro la presenza dell'imperialismo e che usano talvolta la prassi del terrorismo, non contro il nemico, perché allora tale non sarebbe, ma contro una parte della loro stessa popolazione, si nutrono di un contenuto politico ed economico capitalistico. L'ideologia che li anima è oltretutto retriva, religiosamente opprimente, socialmente classista e con una propensione punitiva nei confronti del mondo del lavoro.

Se in un simile quadro di scontro tra un imperialismo che aggredisce e forze borghesi che si difendono, s'inserisse un'iniziativa di classe che avesse contemporaneamente l'obiettivo di combattere la presenza dell'imperialismo e di regolare i conti con la borghesia, sarebbe bersaglio del fuoco incrociato dalle due espressioni capitalistiche. L'imperialismo si scatenerebbe contro un'alzata di testa da parte del proletariato perché la riterrebbe ancora più pericolosa di quella nazional-borghese. In gioco non ci sarebbe più soltanto la necessità di reprimere un movimento partigiano, bensì un esempio di lotta di classe che poterebbe innescare un processo domino in tutta l'area e che avrebbe come obiettivo non solo quello di rintuzzare l'aggressività dell'imperialismo, ma metterebbe in discussione la sua stessa base economica: il capitalismo.

Le varie frange della borghesia si comporterebbero analogamente, perché si vedrebbero rifiutare quell'aiuto militare e di sostegno sociale dei quali non poterebbero mai fare a meno nella lotta contro l'esercito occupante. Sfuggirebbe loro di mano la manovalanza, la carne da macello su cui costruire nell'immediato l'esercito nazionalista, e per il futuro, la base di consenso al potere politico. Sia perché vedrebbero, in un incipiente movimento proletario, al pari dell'im-perialismo, il nemico mortale da aggredire, da annientare con tutti i mezzi, prima ancora di rivolgere le armi verso il nemico esterno. In questo caso non lesinerebbero ferocia, massacri e pulizia etnica, stragi e decimazioni e atti di terrorismo nei confronti di quella parte della popolazione che sostenesse un movimento proletario pur non facendone direttamente parte. La storia della lotta di classe c'insegna che la violenza proletaria non è mai terrorismo, semmai la lotta di classe è oggetto di feroci prassi terroristiche sia da parte dell'imperialismo che da parte della sua borghesia.

Fabio Damen

(1) Sullo stretto rapporto tra controllo dei giacimenti/flussi petroliferi e salvaguardia dell'egemonia del dollaro negli scambi internazionali, vedere i numerosi articoli pubblicati sui numeri e nelle serie precedenti di questa rivista.

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