Uzbekistan: un'altra strage del New great game

Dopo la "rivoluzione dei tulipani" in Kirghizistan, è tornata drammaticamente all'attenzione dei media l'Asia Centrale. Dopo giorni di manifestazioni non violente nella città uzbeka di Andijan, nella valle del Fergana, la situazione è improvvisamente precipitata nella notte del 13 maggio. Alcuni rivoltosi, in una vera e propria operazione di commando, hanno assaltato una caserma dell'esercito e, impossessatisi di armi e mezzi blindati, hanno attaccato un carcere locale liberando centinaia di detenuti, accusati di reati comuni o terrorismo. In seguito, con la protezione della folla in protesta, hanno occupato il municipio, prendendo in ostaggio numerosi civili e funzionari. A questo punto si è scatenata una violenta repressione da parte delle forze dell'ordine, coadiuvate dai reparti speciali accorsi nella regione. Sul terreno sembra siano rimasti più di 700 cadaveri, tra militari, sequestratori e civili, inclusi bambini e donne anziane. Dopo alcuni giorni di scontri, e almeno altre 300 vittime nelle città di Kara-Su e Pakhta-Abad, vicine al confine con il Kirghizistan, ogni via d'accesso alla regione è stata alla fine bloccata. Risulta tuttavia difficile sia ricostruire con precisione i fatti, che fare una conta delle vittime realistica, dato che i giornalisti sono stati immediatamente "invitati" a lasciare la zona.

Le proteste dei giorni precedenti al 13 maggio, che avevano visto la partecipazione di migliaia di persone, avevano come obiettivo principale la liberazione di 23 detenuti, accusati dal governo di collusioni col terrorismo islamico. Da alcuni mesi, inoltre, gli abitanti della regione si lamentavano della nuova politica fiscale del governo, che strozza le piccole attività commerciali endemicamente diffuse nella zona (una volta importante crocevia sulla via della seta). Tuttavia in Uzbekistan, oltre a un diffuso malcontento verso le politiche autoritarie del presidente Karimov, pronto a incarcerare ogni oppositore politico con l'accusa di terrorismo, fomentano il sentimento di ribellione anche condizioni sociali prossime alla disperazione.

Più del 60% della popolazione vive in aree rurali densamente popolate. L'inflazione tocca il 24,2%, la disoccupazione è diffusa come la povertà, che riguarda il 28% della popolazione. Di recente il salario minimo legale è stato fissato a 7$, ben al di sotto di 1$ al giorno, soglia di povertà per le Nazioni Unite. Ciononostante, l'Uzbekistan è il terzo esportatore al mondo di cotone, un importante produttore di oro, gas e petrolio, e un esportatore importante di macchinari e prodotti chimici in Asia Centrale. Ospita anche uno dei nuclei principali di proletariato industriale della regione, occupato in grosse fabbriche aeronautiche e automobilistiche. Tuttavia le sue abbondanti risorse minerarie ed energetiche faticano a trovare sbocchi commerciali, dato che sia l'Uzbekistan che i paesi confinanti non hanno sbocchi sul mare.

Il paese è governato fin dal lontano 1989, prima dell'indipendenza, da Islam Karimov, allora primo segretario locale del PCUS, che ha sempre fondato il suo potere autocratico sulla repressione di ogni opposizione, in particolare le spinte centrifughe del fondamentalismo islamico. Per questo ha adottato una politica di difesa della laicità e della multi-etnicità dello stato, fino a bandire simboli e abiti religiosi dai luoghi pubblici. Il suo regime è famoso per le torture con acqua bollente, una tecnica disumana di cui gli USA hanno più volte approfittato, mandando in Uzbekistan i prigionieri afgani perché fossero "interrogati".

Per i fatti di Andijan, il governo ha prontamente individuato i responsabili in terroristi legati al fondamentalismo islamico. Pur senza dare per buona questa versione semplicistica, tuttavia è difficile pensare che l'assalto armato ad una caserma dell'esercito, l'utilizzo di mezzi blindati per la liberazione di centinaia di detenuti, e tutti gli eventi seguenti siano avvenuti nell'assenza di una precisa regia politica e senza un'accurata preparazione. Questo risulta tanto più improbabile se si pensa che l'Uzbekistan è al centro di difficili equilibri geopolitici, in quello che viene definito il New Great Game per il controllo di Asia Centrale e Caucaso, cuore di riserve energetiche tuttora poco sfruttate.

L'obiettivo primario di Tashkent è proprio incrementare le esportazioni di greggio e gas naturale, finora scoraggiate dalla mancanza di pipeline alternative alla Central Asia-Central Russia, che connette l'Uzbekistan alla Russia e ad altre repubbliche post-sovietiche. I progetti di pipeline alternative naturalmente stimolano gli appetiti delle centrali del capitalismo e dei potentati locali, pronti a darsi battaglia per controllare quote di capitale finanziario ad esse associato. Tra questi, la Central Asia Oil Pipeline è il progetto più ambizioso, già accarezzato dalla Unocal e sostenuto dal governo federale americano, che mira all'integrazione delle infrastrutture esistenti in Kazakistan, Turkmenistan e Uzbekistan, per trasportare il petrolio nell'Oceano Indiano, attraversando Afghanistan e Pakistan. Inoltre l'Uzbekistan potrebbe convogliare il suo petrolio anche verso una pipeline di 3000 km che, se costruita, collegherebbe il Kazakistan alla Cina.

In questo contesto, dopo l'11 settembre 2001, l'Uzbekistan ha concesso agli USA la base militare di Karshi-Khanabad, tuttora usata per le operazioni in Afghanistan (gli USA dispongono anche di una base militare in Kirghizistan, a 30 km da una base russa e a pochi chilometri dal confine cinese). Il governo americano ha saputo ripagare concedendo aiuti economici e militari ammontanti a 500 milioni di dollari nel 2002. La cifra è andata lentamente declinando, mentre Karimov progressivamente cercava il riavvicinamento con Mosca, stringendo importanti accordi politici, economici e militari. Proprio pochi giorni prima della rivolta di Andijan, l'Uzbekistan aveva infine abbandonato il GUUAM. Questa organizzazione, comprendente Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaijan e Moldavia, aveva assunto caratteri ancora più marcatamente anti-russi dopo le cosiddette "rivoluzioni colorate", che hanno portato al cambio di regime in Georgia, Ucraina e Kirghizistan negli ultimi 18 mesi.

Il doppio gioco di Karimov è chiaro, ma parimenti è chiaro, sia a Mosca che a Washington, che non esiste al momento un'alternativa a Karimov. Se non stupisce certo il pieno appoggio ottenuto subito da Putin e dal suo ministro degli esteri Lavrov, tuttavia anche Condoleezza Rice, segretario di stato USA, proprio per questo motivo, si è limitata ad un semplice invito alla moderazione, ricordando che "nessuno può chiedere ad un governo di negoziare con i terroristi". Solo il ministro degli esteri britannico Straw ha assunto una posizione più decisa, parlando di gravi violazioni dei diritti umani.

I partiti della cosiddetta opposizione democratica, tra cui l'_Erk (Libertà)
e il Birlik (Unità) , ultra-nazionalisti e russofobi, sono stati messi al bando poco dopo l'indipendenza. Anche l'Islamic Movement of Uzbekistan ha ora poca influenza nel paese. Un tempo sostenuto dai talebani al potere a Kabul, è stato decimato nel 2001. Tuttavia è ancora attivo in aree tribali del Pakistan e sta cercando nuovi contatti in Uzbekistan.

La principale indiziata degli eventi di Andijan sembra comunque essere l'organizzazione trans-nazionale Hizb-ut-Tahrir al Islam (Liberazione dell'Islam) , con sede a Londra, e in particolare la sua agenzia centro-asiatica Akramiya, attiva nell'Uzbekistan orientale, dove più radicate sono le tradizioni dell'islam conservatore. Fondata ad Andijan nel 1996 da Akram Yuldoshev, Akramiya persegue la costituzione del califfato - un superstato islamico esteso dai confini atlantici dell'Africa fino all'Indonesia; per intenderci: l'area che contiene tutti i maggiori bacini petroliferi del mondo. Yuldoshev è in prigione, ma l'organizzazione è ritenuta dal governo responsabile di tutte le azioni di guerriglia e gli attentati terroristici avvenuti a Tashkent dal 1999 in poi. Negli ultimi giorni è finito in carcere anche Baktior Rakimov, alla testa della rivolta a Kara-Su, anch'egli con l'ambizione di trasformare l'Uzbekistan in un califfato musulmano fondato sulla sharia. Il movimento separatista del Fergana, tra l'altro, non riceve solo l'appoggio di organizzazioni islamiche. Secondo Mikhail Chernov, analista di RBC daily, infatti, anche gli Stati Uniti avrebbero grossi interessi a dividere la valle dal resto del paese, per complicare il collegamento tra Mosca e le sue basi in Tajikistan e per instaurarvi un regime islamico filo-occidentale, da usare come base per fomentare l'insorgenza islamista nella Cina occidentale.

Ultimamente sta guadagnando consensi l'Ozod Dekhkonlar (Contadini Liberi) , principale sostenitore del movimento Rinascita dell'Uzbekistan. I suoi esponenti vorrebbero riprodurre gli eventi kirghisi e cercano per questo contatti all'interno dell'entourage di Karimov, sperando di poter insediare anche a Tashkent una leadership più congeniale agli interessi di Washington.

In ogni caso, Karimov e il suo apparato di potere, le opposizioni nazionaliste e clerico-reazionarie e le varie espressioni politiche della borghesia internazionale potranno al massimo spostare verso Mosca o Washington quote rilevanti della rendita finanziaria legata ai flussi petroliferi, ma nessuna di esse potrà aiutare il proletariato dell'Asia Centrale nella sua emancipazione economica e sociale. Nell'assenza di un autentico partito comunista, capace di sostenere a livello internazionale un programma di rivoluzione sociale, gli sfruttati della regione resteranno inevitabilmente intrappolati in sanguinari giochi di potere, da cui non hanno assolutamente niente da guadagnare.

mic

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.