L'impero del debito e la lunga notte di New Orleans

Nonostante siano trascorsi più di otto mesi da quando l’uragano Katrina l’ha travolta e il solenne impegno di Bush di ricostruirla in fretta, a New Orleans in molti quartieri manca ancora l’elettricità, l’acqua e il telefono; solo poche scuole sono state riaperte e di notte molte strade non sono ancora illuminate. Ben sorvegliate dall’esercito, solo le raffinerie petrolifere hanno ripreso a funzionare a pieno ritmo. Sembra incredibile trattandosi di una delle più famose città della prima potenza imperialistica al mondo, ma New Orleans è una città fantasma che rischia di morire per sempre: mancano i fondi per ricostruirla. Anzi, sarebbe meglio dire che è stata condannata a morire ancor prima che l’uragano la colpisse. Si sapeva da tempo che gli argini che la proteggevano dalle possibili inondazioni del fiume Pontchartrain dovevano essere rinforzati e ripuliti, ma il Senato ha negato i fondi necessari per farlo. Si sapeva che la città era a rischio e che poteva rendersi necessaria l’evacuazione dei suoi abitanti ma nell’elaborazione dei relativi piani non si è tenuto in alcun conto che più del 30 per cento della popolazione non possedeva un’auto con cui allontanarsi dalla città. Nei piani di soccorso ai feriti era previsto l’invio di una nave ospedale che avrebbe dovuto accoglierli e curarli, ma le navi-ospedale erano lontane, la maggior parte in Iraq e il resto in giro per il mondo, in tutti i posti dove è impegnato l’esercito e così non sono mai arrivate. Molti feriti potevano essere salvati come quella quarantina di malati che per evitare di perire annegati si erano rifugiati sui tetti dell’ospedale dover erano stati operati al cuore e sono morti in attesa di un elicottero che li portasse al sicuro. Dopo l’Uragano è andata ancora peggio.

Poiché negli Usa vige un federalismo fiscale molto simile a quello che si vorrebbe realizzare anche Italia, ogni ente locale vive soprattutto delle proprie entrate tributarie. A causa dell’uragano le attività commerciali si sono fermate, la stragrande maggioranza dei cittadini ha perduto la casa e moltissimi hanno abbandonato la città. Venuti meno i cespiti, le attività e i soggetti su cui gravavano le imposte, il gettito si è automaticamente prosciugato e al comune non è rimasto altro da fare che dichiarare bancarotta e licenziare senza pensione la metà dei suoi dipendenti. Avrebbe dovuto intervenire lo stato federale, ma nonostante le promesse di Bush finora non si è visto neppure il becco di un quattrino e così di New Orleans, molto probabilmente, non rimarrà che il ricordo. Secondo molti osservatori, la causa di questo disastro sarebbe da imputare tutta a ragioni politiche, allo scontro elettorale fra democratici e conservatori. La pensa così, per esempio, Marco D’Eramo, un osservatore delle cose americane molto attento. Infatti, in un suo reportage da New Orleans di qualche tempo fa scrive:

All’inizio era forse impreparazione, sciatteria, menefreghismo nei confronti dei poveri. Ma poi è intervenuto un calcolo politico meno ingenuo. Prima di Katrina, New Orleans aveva 469 mila abitanti di cui il 67% neri che votavano al 90 per cento democratico: erano loro a riequilibrare il predominio repubblicano delle campagne e dotare la Lousiana di un senatore e di una governatrice democratici. Se questi 300 mila neri non tornano, la città e lo stato cambiano campo. Ecco perché, di tutte le attività economiche della città, solo due sono ripartite. La prima è il petrolio...La seconda è il turismo. Stanno riducendo la città a puro parco a tema della - si suppone - lussuriosa e peccatrice civiltà creola francese.

Ma se fosse stato lo scontro elettorale a determinare le scelte del governo federale, il caso New Orleans avrebbe dovuto essere un’eccezione; invece lo è soltanto per le dimensioni del disastro perché negli Usa è tutto il sistema delle infrastrutture civili che versa da molto tempo in un grave stato di abbandono. Come abbiamo avuto modo di segnalare in questa stessa rivista già parecchio tempo fa (1), sono sull’orlo del collasso gli acquedotti, il sistema fognario, il sistema stradale e il sistema portuale; perfino il sistema della difesa costiera è ritenuto dagli esperti militari del tutto insufficiente e in molti stati semplicemente non esiste perché i militari della guardia civile, che dovrebbero attendere a questo compito, sono stati mandati in Iraq e non sono stati sostituiti per mancanza di fondi.

Si tratta di uno stato di cose a cui si è giunti non dalla sera alla mattina, ma nel corso del tempo con al governo sia i democratici sia i repubblicani. In verità, il caso New Orleans o , se si vuole, il paradosso per il quale la maggiore potenza del mondo nonostante rastrelli capitali da tutto il globo non sia in grado di ricostruirla, è il punto di approdo di una deriva il cui motore risiede nelle contraddizioni del sistema di finanziamento della spesa pubblica così come è andato strutturandosi nel corso del tempo in relazione alle esigenze derivanti dalle modificazioni imposte alla gestione dell’esercizio del potere imperialistico statunitense dalla crisi strutturale esplosa nei primi anni 1970 e mai veramente superata.

Gli Usa, da potenza creditrice a potenza debitrice

Fino a tutti i primi anni 1970 del secolo scorso gli Usa hanno fondato il loro potere sulla forza del loro apparato industriale come dimostra l’attivo fatto registrare dalla bilancia dei pagamenti e dalla posizione netta attiva sull’estero, cioè dalla differenza fra le attività detenute dagli operatori statunitensi all’estero e quelle detenute dagli operatori stranieri negli Usa. A partire già dai primi anni cinquanta, e a un ritmo vertiginoso dai primi anni 1980, le posizioni, però, si sono invertite: il paese che per le sue esportazioni era il più grande creditore del mondo è diventato con le sue importazioni il più grande debitore del mondo. Attualmente la bilancia dei pagamenti, che sostanzialmente rileva l’andamento del rapporto fra importazioni ed esportazioni, registra un deficit di circa 700 miliardi di dollari. Un andamento analogo ha subito anche il bilancio federale che, salvo qualche breve periodo come nella seconda metà degli anni 1990, risulta costantemente negativo. Dal 2000, l’ultimo anno in cui, grazie soprattutto al boom speculativo degli anni 1990, si chiuse con un attivo di circa 235 miliardi di dollari (2), si è passati a un disavanzo previsto per il 2006 di 423 miliardi di dollari. (3)

Non migliore è la posizione debitoria sia delle imprese sia dei privati. Sommati il debito delle imprese e quello dei privati ammontano a oltre trenta miliardi di dollari. Per finanziare questo gigantesco debito gli Usa importano qualcosa come oltre 3 miliardi di dollari al giorno assorbendo così più dell’80 per cento del risparmio mondiale.

Nessun paese al mondo potrebbe reggere un simile debito senza essere travolto dagli alti tassi di interesse che dovrebbe pagare per attrarre una massa così grandi di capitali dall’estero. Gli Usa, invece hanno continuato a ricevere capitali dall’estero anche con tassi di interesse prossimi allo zero. Solo negli ultimi due anni, nel tentativo di sgonfiare gradualmente la bolla speculativa che si è formata sul mercato immobiliare grazie anche al basso costo del denaro, la Federal Reserve ha portato i tassi al 5,25%, circa un punto più alti di quelli fissati dalla Bce per l’area dell’euro, area non gravata però da un simile posizione debitoria e con significativi attivi nella bilancia commerciale. Peraltro, la situazione debitoria degli Usa è molto più grave di quanto indichino i dati ufficiali viziati da un sistema di calcolo che in buona parte occulta le poste in bilancio già impegnate per i dipendenti pubblici e per i programmi pluriennali di assistenza sanitaria e previdenziale. Contabilizzare in modo corretto queste poste nel bilancio americano significherebbe, come ci informa il già citato Dolfini:

... portare il debito pubblico ad un livello pari a circa cinque volte il pil. Secondo i calcoli del Congressional Budget Office (Cbo), 4500 miliardi di dollari sono impegnati per la prima ragione [dipendenti pubblici - ndr], 38 mila sono il valore attuale degli impegni di assistenza sanitaria, 7 mila miliardi riguardano la previdenza. Il Cbo ha anche fatto una simulazione finalizzata a stimare le risorse necessarie per coprire l’insieme di questi debiti: ipotizzando una crescita annua del 3% del pil dal 2005 in poi, sarebbe necessario aumentare la pressione fiscale del 6,5% in maniera permanente. (4)

Come è noto, invece, nei programmi di Bush è previsto di confermare i tagli fiscali varati durante la precedente legislatura. Se ne evince con tutta evidenza che il sistema di finanziamento del debito Usa ormai prescinde dal livello delle risorse interne e si basa quasi esclusivamente sul flusso di capitali esteri in esso investiti nonostante la relativa bassa redditività dei titoli che questo debito rappresentano. Ciò è reso possibile grazie al fatto che il dollaro, a partire dagli anni ’40 del secolo scorso svolge, grazie al fatto che gli Usa sono stati fino a tutti gli ‘70 la prima potenza economica del mondo, il ruolo di moneta di riserva e di mezzo di pagamento internazionale per eccellenza. In dollari infatti sono tuttora denominate le transazioni creditorie e debitorie internazionali, i crediti e i debiti verso l’estero delle banche centrali e la gran parte delle loro riserve, la quasi totalità dei prezzi delle materie prime e in particolare quello del petrolio.

Ma nel secolo appena iniziato i rapporti di causalità si sono capovolti. Oggi gli Stati Uniti rappresentano la prima economia del mondo, nonostante il loro deficit e il loro debito verso l’estero, solo perché il dollaro rimane la moneta di riserva... l’America con le sue importazioni è diventato il più grande debitore del mondo e lo status del dollaro come moneta di riserva svolge una funzione paradossale: quella di consentire ai ricchi americani di venire finanziati dai poveri cinesi e indiani. (5)

In poche parole mentre in passato era la potenza dell’economia americana ad assicurare al dollaro il suo status di moneta privilegiata ora è il contrario: è lo status del dollaro che consente agli Usa di drenare risorse dall’estero ed essere così ancora la prima potenza del mondo. In ultima istanza il fulcro della odierna potenza statunitense è dato dalla dittatura del passato sul presente e che perciò non può prescindere dall’esercizio della forza.

La crescita della spesa militare

Dire forza significa dire soldati, armi, in una: spesa militare. Nel decennio che va dal 1980 al 1990, cioè negli anni cui si è verificata l’inversione dei rapporti di causalità a cui prima si faceva riferimento, le spese per la difesa del solo capitolo delle spese discrezionali, cioè quelle approvate dal Congresso di volta in volta e in cui , come vedremo meglio in seguito, si annida circa il 50 per cento delle spesa militare complessiva, sono raddoppiate passando da circa 250 a 400 miliardi di dollari, segno evidente che al venire meno della potenza economica ha fatto da contraltare il maggior impegno militare. (6)

E da allora questo trend non ha subito inversioni o rallentamenti di sorta.

Per l’anno fiscale 2007, i fondi assegnati direttamente al Pentagono ammontano a 439,3 miliardi di dollari. (7)

Ma, ci avverte ancora Dolfini:

Per avere un’idea corretta delle spese militari è necessario fare una ricognizione dell’intero bilancio federale. Infatti le spese militari in senso stretto - quelle iscritte nel bilancio del Pentagono - rappresentano in realtà il 50% del totale delle spese militari, dando così una versione più edulcorata della realtà. Secondo i calcoli dello storico dell’economia Robert Higgs (gennaio 2004), a queste bisogna aggiungere le poste di "natura militare" inscritte nei bilanci degli altri dipartimenti... Nell’anno fiscale 2002 la somma di tutte queste voci portava il totale degli esborsi defense related a poco meno di 600 miliardi di dollari contro i 35 miliardi assegnati direttamente al Pentagono. Mantenendo la stessa proporzione e considerando le poste straordinarie impegnante per le guerre in Iraq e Afghanistan, nell’anno finanziario 2004 i 400 miliardi di dollari circa iscritti nel bilancio del Dipartimento della Difesa sono diventati circa 750 miliardi di dollari, un livello pari a circa il 180% dell’intero disavanzo federale e a poco più del 110% del disavanzo con l’estero. (8)

Facendo questa stessa ricognizione per l’anno fiscale 2007, i 439,3 miliardi assegnati al Pentagono appaiono veramente come la famosa goccia nel mare. A essi, infatti, bisogna aggiungere altri “50 miliardi quale fondo...

di emergenza per la guerra globale al terrore" che unito ad altre voci porta la spesa totale ancora solo del Dipartimento della difesa a 504,8 miliardi di dollari. Siamo già a metà dell’intera spesa militare mondiale. (9)

Se poi a questa si aggiungono:

... gli oltre 10 miliardi di dollari per il mantenimento e l’ammodernamento dell’arsenale nucleare (iscritti nel bilancio del Dipartimento dell’energia), più altre spese di carattere militare: circa 45 miliardi (ufficiosi) per i servizi segreti, sempre più impegnati "nella guerra globale al terrore"; 38,3 miliardi per i militari a risposo, iscritti nel bilancio del Dipartimento per gli affari dei veterani: 43,5per il Dipartimento di sicurezza della patria si superano così i 640 miliardi di dollari. Ma non è finita. I 50 miliardi di dollari del "fondo di emergenza", iscritti nel bilancio del Pentagono, rappresentano solo una piccola parte della spesa complessiva per la "guerra globale al terrore". Finora solo la guerra in Iraq e Afghanistan è costata oltre 300 miliardi di dollari. Per coprire tale spesa si stanziano "fondi addizionali", che si aggiungono al budget del Dipartimento della difesa. Nell’anno fiscale 2006 vengono stanziati a tale scopo 120 miliardi. Si prevede quindi che almeno altrettanto dovrà essere stanziato sotto forma di "fondi addizionali" nel 2007. I 640 miliardi di spesa militari saliranno così ad almeno 760 miliardi. (10)

E supera i 1000 miliardi di dollari se si tengono in conto anche i fondi stanziati per la “ricostruzione dell’Iraq”, quelli per il pagamento degli interessi relativi ai fondi stanziati e così via. D’altra parte è impensabile un processo di accumulazione del capitale, come è ormai divenuto quello statunitense, basato soprattutto sull’appropriazione parassitaria di plusvalore, senza il supporto della forza e di un apparato militare capace di esercitarla. Infatti, il signoraggio del dollaro, che ne è il presupposto, richiede che tutto ciò che è oggetto di scambio internazionale e che abbia una certa rilevanza nella formazione dei parametri macroeconomici della economia mondiale, sia denominato in dollari anche se è venuto meno il primato economico degli Usa. Il controllo di tutte le fonti di produzione, delle vie di trasporto del petrolio e del suo mercato come di tutte le principali materie prime nonché dei mercati finanziari, è dunque una condizione inderogabile sia per la conservazione del primato imperialistico statunitense sia per la salvaguardia del loro apparato economico-finanziario. Infatti:

Se prima il paese debitore - [oggi gli Usa se non fossero la prima potenza imperialistica - ndr] doveva alzare i tassi di interesse per attrarre capitali allo scopo di finanziare il disavanzo di bdp [della bilancia dei pagamenti - ndr], adesso è lo stesso disavanzo di bdp a generare i dollari necessari al proprio finanziamento, consentendo all’America di tenere bassi i tassi di interesse grazie al continuo acquisto di titoli del Tesoro da parte dei paesi "altri" (il reinvestimento del surplus di dollari in attività produttive è escluso: all’Opec che nel 1973 era pronta ad investire i petrodollari in aziende americane, venne detto, senza mezzi termini, che una simile azione "sarebbe stata considerata alla stregua di una dichiarazione di guerra"). (11)

Si costringe il mondo intero ad acquistare dollari per poter comprare petrolio ricevendone in cambio merci e/o valuta con cui pagare le proprie importazioni, ma si impedisce a chi accumula all’estero, per questa stessa ragione, dollari di trasformarli in attività produttive statunitensi imponendogli l’acquisto di altra carta cioè di buoni del Tesoro. In considerazione di ciò l’antropologo statunitense David Harvey, riferendosi al processo di accumulazione del capitale negli Usa, parla giustamente di “accumulazione per espropriazione”. (12)

Fatto tanto importante che:

Se questa capacità del dollaro scomparisse dall’oggi al domani i consumi in America sarebbero limitati alla produzione interna e i finanziamenti sarebbero limitati al risparmio nazionale [che è inesistente - ndr]: ne seguirebbe una terribile recessione del tipo di quella che ha colpito la Russia nell’agosto del 1998. (13)

Signoraggio del dollaro e spesa militare costituiscono pertanto un binomio inscindibile e insostituibile, pena il crollo immediato dell’impero.

Le contraddizioni del binomio dollaro/guerra

Alcune caratteristiche proprie del processo di accumulazione per “espropriazione” fanno sì che se da un lato il binomio dollaro/guerra è la condizione inderogabile perché gli Usa conservino il loro primato, dall’altro esso genera contraddizioni talmente laceranti da risultare insanabili e comunque tali da aver già disegnato un futuro in cui alla supremazia degli Usa farà sempre più riscontro, da un lato la tendenza alla generalizzazione della guerra e, dall’altro, la crescita esponenziale della povertà su scala mondiale ivi compresi gli stessi Usa.

Poiché, come abbiamo visto l’accumulazione per espropriazione non trae origine dal processo di produzione interno delle merci, pur consentendo che lo svolgimento del processo di accumulazione del capitale su base allargata abbia regolarmente luogo nonostante saggi medi del profitto piuttosto bassi, dall’altro, esso modifica radicalmente tutto il processo di circolazione e di redistribuzione della ricchezza. Ne deriva pertanto l’esclusione dalla sua appropriazione diretta o indiretta della stragrande maggioranza della popolazione, ma soprattutto di coloro che vivono mediante la vendita della propria forza-lavoro. Essa va, invece, ad appannaggio solo di quei pochi che, in forza del capitale finanziario posseduto, sono in grado di interferire direttamente con i processi di cristallizzazione, nella sua forma finanziaria, della rendita derivante dall’“espropriazione”. Chi vive di salari e/o stipendi e pensioni può usufruirne solo indirettamente e sotto forma di bassi tassi di interessi e dunque alla sola condizione che diventi a sua volta un debitore in grado di onorare i suoi impegni. Il più delle volte però il suo destino è il fallimento e la perdita perfino del tetto sotto cui vive.

Il risultato di tutto ciò è una estrema polarizzazione della ricchezza: un numero sempre più ristretto di individui o di gruppi di potere si appropria di una quota sempre più grande del bottino. Di contro, proprio perché frutto di accumulazione per “esproprio”, questi capitali alimentano vieppiù la spirale nella quale guerra e accumulazione si rincorrono l’una con l’altra essendo la guerra la condizione perché questo tipo di accumulazione possa aver luogo.

Un falso moltiplicatore

Molti economisti anche di ispirazione marxista, per il fatto che questo modello stimola la crescita della spesa militare, tendono ad assumerlo come una variante del modello di sviluppo keynesiano e non come l’approdo ineluttabile di un processo le cui radici affondano nella crisi del saggio del profitto degli anni 1970. Ingannati dall’idea che i sistemi di misurazione dei tassi di crescita del Pil siano realmente rappresentativi dell’andamento della cosiddetta economia reale, essi assegnano, confortati dai dati relativi alla crescita del pil statunitense, alla spesa militare la stessa capacità di operare come moltiplicatore degli investimenti produttivi che nello schema keynesiano ha il finanziamento in deficit della spesa pubblica. In realtà, la spesa militare per la sua specificità e anche per il fatto che ciò che viene con essa prodotto è destinato alla distruzione, non dispiega una rilevante spinta espansiva degli investimenti e della produzione in generale e di conseguenza neppure dell’occupazione e della domanda aggregata. Peraltro, basandosi essa stessa quasi esclusivamente sulle moderne tecnologie elettroniche, l’industria bellica impiega, rispetto alla massa ingente dei capitali investiti, scarsissima manodopera generando così anche al suo interno scarsa occupazione e una scarsa massa salariale. La spesa militare si presenta una spesa sostanzialmente “improduttiva” nel senso che, non alimentando, se non in misura ridotta, processi espansivi degli altri settori produttivi non contribuisce alla formazione neppure dei flussi di ricchezza necessari per sostenerla. La conseguenza è che essa opera sì come moltiplicatore, ma solo in direzione dell’accumulazione per “espropriazione” o, per usare il più puntuale linguaggio marxista, per appropriazione parassitaria di plusvalore. Inoltre, nella misura in cui le sue crescenti dimensioni rendono impossibile finanziarla esclusivamente con il flusso di capitali provenienti dall’estero, essa rende necessario un continuo drenaggio di risorse da altri capitoli della spesa pubblica e in particolare da quelli relativi alla spesa sociale e assistenziale nonché da quelli relativi alla manutenzione e costruzione delle infrastrutture civili. Non è un caso che, mentre il Dipartimento del Tesoro ha avanzato al Congresso la richiesta di innalzare il tetto del debito possibile fino alla somma di 8.180 miliardi di dollari, nel bilancio fiscale 2007, all’incremento della spesa militare, faccia riscontro una ulteriore potatura della spesa sociale e assistenziale. Vi è prevista perfino l’abolizione del contributo di 255 dollari, corrispondente al costo del funerale ai prezzi del 1950, che spettano alla famiglia di un lavoratore che muore prima di andare in pensione.

Questo bilancio - ha dichiarato il senatore democratico Tom Harkin - ignora proprio ciò cui dovremmo tenere di più: la ricerca scientifica, l’assistenza ai nostri anziani, l’educazione dei nostri figli. (14)

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La sostanza dei numeri dati da Bush - commenta F. Pantarelli, l’autore dell’articolo da cui abbiamo tratto la citazione del senatore Harkin - infatti è di tanti cannoni e niente burro. Nei 2.700 miliardi di dollari che intende spendere nell’anno fiscale 2007... ci sono aumenti nelle spese per "la sicurezza del popolo americano" e diminuzioni per tutto il resto, dall’assistenza medica all’educazione, dalla ricerca scientifica ai trasporti, e poi alla giustizia, all’agricoltura, insomma a tutti i programmi sociali, per 141 dei quali è stata decisa addirittura la cancellazione che comporterà un risparmio - secondo le affermazioni di Snow [il segretario del Tesoro - ndr] di 15 miliardi di dollari. (15)

Insomma: la guerra prima di tutto, costi quel che costi e senza alcun ritorno a favore dell’espansione della produzione industriale per uso civile; anzi imprimendole una forte accelerazione verso il declino ingigantendo i processi di pauperizzazione dei lavoratori.

Industria e... New Orleans, addio!

Secondo un reportage pubblicato recentemente dal New York Times e ripreso sull’International Herald Tribune, una delle conseguenze più drammatiche del modello di accumulazione basato sul debito è la crescente deindustrializzazione degli Usa. Il fenomeno ha raggiunto dimensioni tali che gli autori, Jeremy W. Peters e Micheline Maynard, parlano esplicitamente di possibile affossamento dell’America.

Nel comparto dell’automobile - chiosa, su il Manifesto di domenica 2 aprile scorso, Joseph Halevi commentando il reportage in questione - la deindustrializzazione è stata così forte che, nelle città in cui il settore era predominante, i lavoratori pensionati tendono a superare per numero quelli occupati nel settore stesso... Sebbene con alterne vicende l’occupazione nell’industria manifatturiera americana nel 1979 raggiunse 19 milioni e mezzo di persone, il più alto livello riportato dalla pubblicazione... Dal 1980 il calo nel manifatturiero diventa assoluto e nel 1990 il numero degli occupati nel settore scende a 17 milioni e settecentomila unità mentre, nello stesso decennio, l’occupazione totale aumenta da 90 a 108 milioni di persone. È in questo periodo che si verificano due fenomeni di capitale importanza: uno nell’economia internazionale e l’altro nei rapporti di classe negli Usa. Da un lato esplode il deficit estero statunitense e dall’altro si abbassa considerevolmente il salario reale conseguenza del calo patologico dei posti di lavoro buoni in favore di quelli cattivi nelle varie branche dei servizi, come personale delle pulizie ecc. Durante gli anni Settanta i salari reali Usa, misurati in dollari 1982 e calcolati su base settimanale, erano rimasti piuttosto statici, così che nel 1979 erano di circa 299 dollari rispetto ai 313 del 1970... Ma nel periodo 1980-1990 calano sia i salari orari che i guadagni settimanali. Questi ultimi scendono a 263 dollari, a prezzi costanti 1982. Nel periodo clintoniano, unitamente alla bolla delle dotcom - che implicava una notevole attività manifatturiera nell’elettronica- vi fu un rallentamento del calo dell’occupazione nel settore manifatturiero, limitato ad alcune centinaia di migliaia di unità. Ma solo negli ultimi tre degli otto anni di presidenza Clinton avvenne un’inversione di tendenza al ribasso dei guadagni reali settimanali che è continuata fino al 2002, raggiungendo il livello di 279 dollari settimanali, sempre molto lontano dai 313 del 1970.

Se si tiene conto che le casse statali si alimentano soprattutto con i flussi derivanti dalle attività produttive, è del tutto evidente che, inaridendosi queste ultime, il taglio dei capitoli della spesa pubblica non strettamente connessi a quella militare è inevitabile; altresì, considerato che l’accumulazione per “espropriazione” è divenuta la forma di accumulazione dominante e che la spesa militare per questa ragione non può essere ridotta, New Orleans difficilmente potrà essere ricostruita anche se alla Casa Bianca dovesse metterci piede un presidente democratico. Ma quando può durare un sistema che si regge drenando risorse dai poveri verso i più ricchi e facendo terra bruciata attorno a sé? Per molti versi già oggi la situazione è insostenibile, ma è illusorio pensare che basterà cambiare il presidente e adottare una diversa politica economica perché questa tendenza si inverta. Il superamento di situazioni di questo genere, in un senso o nell’altro, ha presupposto sempre cambiamenti radicali e non è stato mai indolore.

Giorgio Paolucci

(1) Vedi Alle radici della guerra contro l’Iraq e quelle avvenire - Prometeo n. 7/2003 Serie VI.

(2) M. Delfino Debito e impero - Limes n. 1/2005.

(3) Bilancio Usa solo cannoni - F. Pantarelli - Il Manifesto dell’8 febbraio 2006.

(4) Debito e Impero - art. cit.

(5) F. Arcucci - Per il paradosso del dollaro i poveri finanziano i ricchi - La Repubblica - Affari & Finanza del 9/5/2005 - Per un ulteriore approfondimento delle ragioni per cui i rapporti di causalità - come li chiama Arcucci - fra gli Usa e il mondo si siano capovolti vedi anche L’imperialismo e la guerra permanente - Strumenti di Bc n. 7 - Ed. Prometeo.

(6) Limes -Fonte BushBudget Charts - cit.

(7) F. Cantarelli - Il Bilancio Usa, solo cannoni - il Manifesto dell’8 febbraio 2006.

(8) M. Dolfini - art. cit.

(9) M. Dinucci - Noi dobbiamo prevalere - Il Manifesto dell’8 febbraio 2006.

(10) Ibid.

(11) M. Dolfino - art. Cit. - pag 34 Vedi D. Harley - La Guerra Perpetua - Il Saggiatore - 2006.

(12) Vedi D. Harley - La guerra perpetua - Il Saggiatore - 2006.

(13) F. Arcucci - art. Cit.

(14) Da: Il Bilancio Usa, solo cannoni. Art. cit.

(15) Ibid.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.